Cavalli berberi e cavalli di Troia

6 / 9 / 2010

Il 12 marzo 1937 Mussolini sbarcò a Tobruk dall’incrociatore Pola e inaugurò l’ultimo tratto della via Balbia (dove 70 anni più tardi cominceranno i lavori per l’autostrada Silvia, con partecipazione straordinaria delle imprese Anemone), il 16 entrò a Tripoli alla testa di 2600 fra cavalieri berberi e truppe cammellate, il 18 marzo si trasferì fuori porta nell’oasi di Bugara, dove ricevette da un contingente berbero collaborazionista la spada dell’Islam in quanto suo sommo protettore, la brandì a beneficio di fotografi e cineprese del Giornale Luce sulla sommità di una duna, infine tornò in città e la ri-brandì dal balcone di piazza Italia, sul fianco del restaurato Castello, lo stesso da dove oggi arringa Gheddafi (la piazza si chiama però Verde e il monumento equestre di Mussolini non vi si erge più). Questo per dire che le pagliacciate sono ricorsive e talvolta i colonizzati le copiano dai colonizzatori, anche se ci intriga l’idea di vedere un giorno o l’altro il tappo di Arcore n’coppa a un cavallo berbero o meglio ancora a un elefante, con la marcia trionfale dell’Aida in sottofondo. Folklore, se non fosse che proclamarsi nel contempo il miglior amico di Gheddafi e di Netanyahu, di Bush e di Obama, ha finito per scatenare sospetti e iniziative da parte di tutti i servizi segreti delle grandi potenze. Gli eccessi di equilibrismo alla lunga non giovano, specie se avvolti dal ridicolo. Anche l’altro miglior amico, il Ratzinger, avrà storto il naso alla sbrasate del Colonnello sulle conversioni. Però non comprendiamo perché la sinistra adesso difenda le radici cristiane dell’Europa e Merlo, su Repubblica, spinga il suo razzismo fino a deridere la pronuncia gutturale dell’arabo. A quando una bella rivalutazione dell’opera di civiltà di Graziani? Che si faccia sotto qualcuno, visto che Fini se ne guarderà bene e Berlusconi deplora il passato fascista mentre il suo miglior amico Dell’Utri tenta invano di presentare in giro i Diari-patacca del Duce.

La sceneggiata romana ha rappresentato il punto più basso del consenso berlusconiano nel ciclo estivo, rivelando tutti i punti deboli del suo rapporto con il Vaticano e gli Usa –una constatazione oggettiva, che non implica ovviamente alcuna simpatia per le loro abituali interferenze nella politica italiana. Ma tant’è, il nervosismo si tagliava con il coltello e la faccia silenziosa del Papi era impagabile: ha perso la scena e non a caso perfino il compassato Napolitano ha assunto nei suoi confronti un tono sarcastico. In effetti l’assedio a Berlusconi continua incessante, mentre infiniti lacci gli vengono avvolti intorno alle gambe per impedirgli l’unica via di fuga, le elezioni a breve. Perfino il suo amico Bossi sta alzando il prezzo per aprirgli la strada, pur strillando il contrario. Lo considera ormai dimezzato e incapace di ottenere una nuova campagna elettorale, dal che consegue la necessità di tutelare il federalismo con un nuovo garante (possibilmente Tremonti) e una maggioranza riaggiustata. Il passo indietro sul processo breve indica che Berlusconi non controlla più la situazione, anche se magari si lascia illudere dal pasticcione Ghedini con altri marchingegni giuridici. Non a questa o quella legge, ma al premier stesso si applica la feroce ironia di Napolitano sul binario morto. E questo lo hanno capito sia Bossi sia Fini, che infatti si guarda bene dall’offrire pretesti di rottura per lo scioglimento delle Camere. Lo stesso indebolimento del Cavaliere rende poco plausibile il rischio elettorale e azzera il tentativo di acquistare voti parlamentari promettendo la ricandidatura. Meglio che compri consensi con armi economiche, sessuali e chimiche...

Nella domenica di Mirabello un vivace Fini,, dopo averla messa giù dura (non a caso girando il coltello nella piaga della visita di Gheddafi), ha in sostanza girato il cerino a Berlusconi: hai fallito, noi siamo disposti a tenerti un po’ su, giusto il tempo di uscire di scena con dignità, che cosa vuoi fare? Andare alle elezioni con un bilancio fallimentare o incassare una coabitazione a tre con me e Bossi (e magari anche Casini)? La mossa consente a Fini di guadagnar tempo e di prolungare il logoramento di Berlusconi o di costringerlo ad assumersi la paternità della crisi. Non costerà niente votare la fiducia su una mozione generica dopo aver dichiarato morto il PdL: poi seguiranno le banderillas sulle singole leggi e articoli, fin quando il toro stramazzerà nell’arena. Bossi e Maroni hanno capito e si sono preoccupati, senza troppo solidarizzare con il Premier decotto, mentre i dirigenti del PdL, cui spetta la risposta diretta, la prendono alla larga e rinviano ai comportamenti parlamentari.

Nel frattempo Tremonti si pone sulla difensiva, spargendo al modo delle seppie una cortina di inchiostro metafisico intorno al suo immobilismo. Costretto ad accettare un Ministro dello sviluppo con cui dividere il potere è sottoposto a un notevole pressing di operatori economici (Draghi, Bombassei e Passera), che sventolano il modello tedesco, cioè produttività e consumi alti con salari doppi di quello italiano a parità di costo della vita, con il rincalzo politico di Pisanu, il miglior candidato a presiedere una coalizione allargata post-berlusconiana o anti-berlusconiana senza far venire il mal di pancia alla sinistra e a Casini. Il silenzio oracolare in cui si avvolge il Ministro dell’Economia e delfino in pectore esibisce in realtà una desolante assenza di idee operative e un’imbarazzante carenza di presa carismatica. Le battutine contro il modello tedesco non ne suggeriscono un altro, ma solo l’inerzia: incrociare le dita in attesa di un colpo di coda della crisi. Così tutto va in stand by fino alla prossima puntata.

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