Come si fa giornalismo dentro le guerre e i conflitti del Terzo Millennio

Il talk con Simone Pieranni e Luigi Mastrodonato al Bookpride di Milano.

14 / 3 / 2024

Come è cambiato il concetto di guerra nel Terzo Millennio, e soprattutto come questo viene narrato. È stato questo il tema di uno dei panel più interessanti dell’ultima edizione del Bookpride, andata in scena a Milano dall’8 al 10 marzo, che ha visto come ospiti i giornalisti Simone Pieranni e Luigi Mastrodonato. A moderare la discussione è stata Luciana Grosso, che è partita con uno dei temi storicamente più dibattuti nel mondo dell’informazione: il concetto di verità. «Abbiamo bisogno di storie e informazioni che siano vere, non per un astratto bisogno di onestà, ma per riconquistare quello che è autentico. Il problema è questo: come si fa a parlare di verità in contesti che sono sempre più inaccessibili al giornalismo?».

Il primo a prendere la parola è Mastrodonato, che riporta la sua esperienza nel raccontare sia il conflitto a Gaza che la situazione nelle carceri italiane, tema sui cui si concentra gran parte della sua attenzione. «In forme diverse tanto Gaza quanto le carceri sono contesti preclusi al giornalismo. Basti pensare a quello che succede nei CPR e che purtroppo viene fuori – spesso in maniera distorta – quando ci sono suicidi o altri fatti di cronaca molto gravi».

Il fatto che si sappia poco o nulla della quotidianità dei detenuti, delle grandi e piccole torture a cui sono sottoposti quotidianamente, Mastrodonato lo ha fatto emergere molto bene nel podcast “Tredici”, pubblicato su Il Post lo scorso 26 luglio, che prende il nome dal numero dei detenuti morti nel corso delle rivolte carcerarie scoppiata all’inizio della pandemia.

Il parallelismo con Gaza, da sempre definita “prigione a cielo aperto” non è poi così audace. «Il problema dell’accesso a Gaza per i giornalisti è sempre esistito, ma dopo il 7 ottobre Israele ha reso la Striscia non solo un teatro di guerra per la popolazione presente, ma anche per i reporter: sono oltre 100 quelli uccisi in questi 5 mesi». Si pone allora un grande problema di fonti, perché da una parte si rischia che il giornalismo diventi pura opinione, raccontata dall’esterno, dall’altro affidarsi a fonti interne non è sempre possibile e affidabile. «È vero che c’è un discorso di fiducia, ma soprattutto è quantomai necessario in questa fase capovolgere il discorso e dare valore a chi vive le cose sulla propria pelle. Il problema del giornalismo che racconta Gaza è che non si prende mai in esame questo punto di vista e lo stesso discorso vale per le carceri, dove ci sono miriadi di testimonianze di abusi che vengono stracciate».

Siemone Pieranni, da anni una delle voci più autorevoli sulla Cina, parte innanzitutto dalle differenze con i contesti raccontati in precedenza e dalle peculiarità della situazione cinese: «il caso della Cina è più semplice, perché banalmente ci si può entrare senza troppi problemi e c’è un contesto meno a rischio per i giornalisti rispetto a Gaza». La Cina non è, però, un paese normale per quanto riguarda l’accesso a una serie di fonti, in particolare a quelle governative e da quest’anno non si può incontrare il premier neppure durante la consueta conferenza stampa annuale. 

Nonostante la Cina sia considerato un Paese dove esiste una pesante censura (che è però molto sofisticata), i giornalisti cinesi riescono a raccontare in maniera abbastanza precisa ciò che accade nel proprio paese. Ad esempio, durante la pandemia è stato lo stesso Partito Comunista che aveva bisogno di far sapere al mondo ciò che stava accadendo in Cina, ma allo stesso tempo ha “usato” le narrazioni locali per cercare di capire meglio, proprio attraverso le informazioni giornalistiche, ciò che succedeva nelle aree periferiche.

Accadono poi una serie di corto circuiti: «lo scorso anno scorso sono emerse a livello internazionale tutta una serie di inchieste fatte da giornalisti cinesi sulle problematiche dei giovani e per la prima volta è uscito il dato di una disoccupazione giovanile che ha toccato il 20%». Ancora ci si interroga se queste la fuoriuscita di queste informazioni sia o meno stata “diretta” dal regime, ma è la dimostrazione plastica che in Cina si può fare una informazione sul campo, anche se nessuno riesce ad accedere realmente alle informazioni politiche. «Si può raccontare il Paese attraverso altre fonti: professori, funzionari non di primo piano, stare insieme ai cinesi per capire con loro come vengono letti tutta una serie di fenomeni. La discriminante è leggere la stampa locale e stare sempre attenti al confine tra vero e verosimile».

In conclusione del talk Luciana Grosso pone il problema del “farsi fatto delle opinioni”, come uno degli elementi che maggiormente ha aperto la strada alla “manipolazione” nel giornalismo.

Per Pieranni, la confusione tra cronaca e opinione è una peculiarità tutta italiana, perché non è mai esistito un confine reale tra le due cose. Negli ultimi anni, la crisi del giornalismo italiano, ha aperto spazi alla produzione individuale di informazioni e questo pone molto spesso un problema non solo di autorevolezza e autenticità delle fonti, ma stabilisce una tendenza sul fatto che account social di singoli addirittura si stanno sostituendo ad agenzie e testate. Il giornalismo sta dunque passando da una forma pubblica a una forma sempre più privata, e di conseguenza meno trasparente.

Per Mastrodonato c’è un’altra faccia della medaglia: «a Gaza ci sono molte persone che si sono improvvisate giornalisti proprio per la difficoltà materiale della situazione». Viene riportato il caso di Motaz Azaiza, fotoreporter palestinese che in questi 5 mesi è stato davvero l’unica fonte che ha raccontato il disastro della guerra. Soprattutto in Italia, ma in generale da tutti i media occidentali, la sua testimonianza è spesso stata tacciata come “di parte”. «Questo è uno dei casi che fanno emergere come il concetto di parzialità e di equidistanza non sia sempre giusto nel giornalismo, perché tutto è politico e a volte essere “di parte” può essere anche un dovere etico per il giornalista».

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** L’articolo è parte del progetto Sustainable Information (S-info) e finanziato dal programma Europa Creativa della Commissione Europea, ha come capofila Tele Radio City (editore anche di Global Project) ed è portato avanti con altre tre realtà europee (S-Com del Belgio, Repubblika di Malta e Context della Romania).

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