Con le spalle al futuro

La nullità della sinistra dietro il successo di Fini

16 / 9 / 2009

Impavidi e bestiali - secondo il motto della compagnia Grifi del 187° reggimento Folgore che inebria Fausto Biloslavo, embedded afghano in conto Foglio - impavidi e bestiali i nostri ministri si arrapano inveendo contro il culturame parassitario leggermente schifoso (Brunetta-Bondi), la cultura egualitaria del ’68 operaio (Sacconi) e studentesco (Gelmini), delirano di una nuova Tabula mundi da tracciarsi con i Tremonti bond e le encicliche ratzingeriane.

Le provocazioni servono certo a sollevare fumo sulle difficoltà del governo, aiutano le varie componenti del PdL a posizionarsi in vista dell’eventuale collasso della gestione berlusconiana della crisi, ma soprattutto sono rese possibili dal marasma politico e morale della sinistra, tutta presa a lacerarsi sul congresso e perfino intorcinata sulla questione morale, con reciproche accuse e sospetti. Aggiungiamo che almeno in un caso –il mondo del cinema– la critica è allo stesso tempo fascista e meritata, perché altro non merita chi non ha avuto il coraggio di protestare all’ultima Mostra di Venezia contro i tagli al Fus, ha voltato la testa quando qualcuno ha contestato sul red carpet e all’Hotel des Bains preferendo leccare i tacchi a Piersilvio e Noemi. Placidi e pavidi lo sono davvero. E umbratili, se valesse la pena di prendere sul serio lo sconfittismo un po’ caricaturale delle ombre rosse maselliane.

Non meraviglia che una sinistra così ridotta abbia tacitamente eletto a suo leader Gianfranco Fini, che corrisponde perfettamente al modello di restaurazione ragionevole dell’autorità, moderatamente laica e statalista, alleggerita dal ciarpame berlusconiano, lealmente subalterna agli Usa. Tutte qualità che impediscono di vedere in lui un nuovo De Gaulle (che aveva la sua originalità nell’autonomia nazionale) e piuttosto lo avvicinano a Sarkozy, che del modello gollista conserva soltanto il presidenzialismo ma non lo stile economico e internazionale. Certo, Casini punta sul Grande Centro con benedizione ecclesiale, le due anime del Pd ostentano i loro progetti, ma via, è chiaro, l’unico riferimento possibile di uno schieramento che li coinvolga tutti e spacchi il Pdl è Fini, che non a caso (respingendo la candidatura a Presidente della Repubblica) ha espresso disponibilità a diventare capo del governo. Con il che però il candidato, a parte la debolezza intrinseca e la notoria capacità di gestire con abilità verbale il nulla progettuale, viene a farsi carico della fragilità strutturale della sinistra, della sua retorica morale e costituzionale, di un umanesimo astratto sganciato dalle contraddizioni sociali e dai movimenti.

La stessa biografia di Fini si pone come una successione di svolte irrelate ai cambiamenti storici, sempre in opportuno ritardo su di essi, con errori nei momenti decisivi (il disastro dell’alleanza detta Elefantino con Mariotto Segni nelle elezioni europee del 1999, la scarsa reattività al colpo di mano berlusconiano fondante il Pdl con il discorso del predellino, ecc.), una rincorsa del politicamente corretto più che del politicamente innovativo. Che riesca umanamente più simpatico del cinico tatticismo alla D’Alema è la pietra tombale su tutta la vecchia logica della politica progressista del tardo Novecento. Niente di più. C’è un’aria di religione civile repubblicana –da Napolitano a Fini– che odora di sconfitta.

La riproposizione di un sistema di valori (in alto) e l’austerità economica sacrificale (in basso) è un classico programma di destra moderata puntellato dalla sinistra: sarebbe dunque perfetto per una soluzione finiana e neppure troppo costoso, vista la disperazione di una sinistra pronta a tutto pur di tornare vicina all’area di governo. Però...non solo Berlusconi è ancora in piedi, malconcio, fuori di testa, disposto a ogni ricatto e colpo basso (vedi le minacce di Feltri su dossier a luci rosse anti-An), ma il berlusconismo ha reso desueto un certo modo di far politica, che oggi appare patetico o velleitario.

Quanto il Papi strilla ridendo che tutti gli italiani desiderano essere come lui, non ci possiamo chiamare fuori dicendo che noi non lo desideriamo per niente, ma dobbiamo constatare che le scelte politiche hanno a che fare con il desiderio (lo sparigliamento delle forze, dell’immaginario, del simbolico). Berlusconi unifica forzosamente e assume in se i desideri moltitudinari come un tempo la democrazia rappresentativa congelava e riassorbiva per delega la volontà popolare omologata. Il terreno della lotta è allora questo: far saltare l’unificazione sul piano dei bisogni e dei desideri, non della riforma delle regole, di una governance più efficiente, della riduzione del deficit a spese di lavoratori e precari. La dimensione vincente è quella della gioia, non il risentimento dei vinti o l’elogio del buon governo, dello sfruttamento ben temperato. Non il ritorno a Rousseau o a Bobbio. Altrimenti perderemo sempre. Finito Berlusconi (che non ne ha più per molto) verrebbe qualcun altro, magari peggiore. Per questo la soluzione Fini, la più realistica exit strategy dal presente casino, è dubbia e certamente poco promettente per i movimenti. Non perché sia un ex-fascista (caso mai ricorderei Genova), ma perché corregge lo sfascio dell’incompleta Seconda Repubblica con un mezzo ritorno alla Prima. Una democristianeria europea.

Sapete cos’è un flash forward? Non soltanto il titolo di un’attesissima serie televisiva che a breve sostituirà Lost, ma il termine per indicare la premonizione, l’apertura fulminea di uno spazio futuro che interferisce con il presente e lo sconvolge. Ebbene, anche se Fini funzionasse, sarebbe l’opposto, un flash back, un lampo retrospettivo che non darebbe certo spessore al presente e ne rinvierebbe di poco l’implosione.