Report dal viaggio di due studenti pisani, alla ricerca di un collegamento possibile tra le varie forme di resistenza e di pratica politica attualmente all’opera nel mondo. Dal momento che la questione migratoria rappresenta sempre di più la posta in gioco principale attorno a cui si strutturano sia le politiche governamentali che i movimenti politici, hanno deciso di partire da lì.
Con l’obiettivo di capire dove le frontiere dell’Unione europea acquisiscono tutta la loro materialità, ci dirigiamo in Grecia, destinazione Atene (teatro dei tumulti del 2008 dove tuttora si respira un clima di tensione sociale a causa della crisi economica) e come seconda tappa a Patrasso, che con il suo porto rappresenta uno snodo cruciale nelle rotte dei migranti.
La distanza che divide Bruxelles da Patrasso la si percorre a doppia velocità.
Da
un lato c’è il percorso accidentato, fatto di tappe forzate e di
rimpatri, che è quello dei migranti, con le loro storie e le loro vite,
che attendono anni, correndo ogni giorno il rischio più estremo, la
morte, per aggirare quella frontiera chiamata Europa che separa la
Grecia insieme ai Paesi dell’est appena entrati nell’Unione, dal resto
degli Stati europei. Questa frontiera è ben localizzabile sulla carta
geografica e più che lineare assume una forma possiamo dire puntiforme: i
porti di Patrasso e Igoumenitsa.
Dall’altro c’è la corsia
preferenziale per cittadini europei e, insieme a essa, il regime
discorsivo dell’Unione europea che prevede uno spazio “liscio”, privo di
quelle striature e irregolarità costituite dagli ostacoli materiali in
cui si imbattono quotidianamente loro, che stanno fuori dalle regole
del gioco: i senza permesso.
Ma questa demarcazione assume contorni
più complessi: il tragitto da Bruxelles a Patrasso è unito anche da un
altro filo materiale, anch’esso a doppia velocità rispetto alle singole
vite dei migranti , ed è costituito dal tentativo di connessione tra le
esperienze di lotta e di cittadinanza tra le varie realtà europee.
In
particolare, ciò che lega Bruxelles e la Grecia all’interno di questo
scambio che va formandosi tra le “pratiche politiche migranti” è la rete
Noborders, che ogni anno organizza un campeggio internazionale come
momento di incontro, di formazione attraverso seminari e di azioni
dimostrative.
L’anno scorso era stata l’isola greca di Lesbo a
ospitare l’evento, quest’anno sarà Bruxelles, dal 27 settembre al 3
ottobre. In Grecia, più che in Italia, questi esperimenti di
collaborazione stanno assumendo un ruolo di primo piano, in ragione sia
delle normative greche in materia di regolazione dei flussi migratori
(la Grecia insieme a Cipro, con il suo 1,25% è il paese dell’Ue in cui è
più difficile ottenere lo statuto di rifugiato) sia della posizione
chiave che il Paese riveste nel continente, finendo per diventare, come
ha affermato uno dei migranti che abbiamo incontrato “la poubelle de
l’Italie” (la pattumiera d’Italia). Non solo, le ultime direttive Ue
sembrano marcare ulteriormente la direzione tracciata in questo ultimo
decennio, da quando la Grecia ha cominciato a diventare in maniera
consistente, un Paese di immigrazione; la trasformazione dei cosiddetti
centri di detenzione in “screening center” non indica soltanto
l’adozione di una terminologia più asettica e politically correct ma
risponde a quella che si delinea come l’attuale strategia del
“management of migration”: trovare un criterio per discernere in maniera
netta, tra i soggetti “vulnerabili” e che possono concorrere per lo
statuto di rifugiato da un lato, e le persone senza permesso di
soggiorno da considerarsi clandestini a tutti gli effetti, esclusi
quindi dal regime di protezione sanitaria e legale dell’Ue, dovendo però
passare prima per una fase di identificazione, una sorta di macchina
della verità dove il migrante sarà costretto a raccontare chi è, a
formulare un discorso che consenta di ascrivergli una certa identità
culturale-sociale-religiosa.
Tutti elementi che apprendiamo dagli incontri avuti ad Atene
con i migranti stessi, sempre molto aggiornati rispetto alle modifiche
legislative e agli orientamenti politici dei governi europei. La nostra
piccola inchiesta si concentra a Exarchia, il noto quartiere delle
rivolte del 2008, da sempre centro della politica alternativa ateniese
nonché sede di molti centri culturali e associazioni che lavorano con i
migranti. Il primo aspetto da sottolineare è la permeabilità reciproca
che si riscontra tra i movimenti politici (anarchici ma non solo) e le
pratiche di vita, di resistenza e di cittadinanza dei migranti.
Questa
compenetrazione è ovviamente resa possibile, più che altrove, dalla
crisi economica che si è abbattuta sulla penisola ellenica. Di fatti, se
da un lato la crisi ha causato una crescita esponenziale del disagio
sociale, dall’altra ha reso maggiormente visibile sia il comune
denominatore della posta in gioco delle lotte politiche (una razionalità
governativa, quella greca, che da alcuni anni ha messo in piedi un
regime di esclusione sociale per i soggetti “a margine”, unito a
interventi di ordine puramente repressivo-poliziesco), sia il modo in
cui la crisi stessa sia stata utilizzata dal governo per costruire una
politica populista fondata sulla logica securitaria, dove la figura del
migrante gioca il ruolo del capro espiatorio. L’obiettivo, nemmeno
troppo celato, è ovviamente di dividere sul nascere ogni potenziale
collaborazione e comunanza tra le rimostranze operaie e le
rivendicazioni dei migranti. A Exarchia, tuttavia, questa logica è stata
presa in contropiede alla radice. Lo si capisce perfino dalle scritte
che invadono i muri delle case di Atene: le proteste contro il regime di
detenzione indefinita per i sans papier si confondono con quelle
relative ala responsabilità del governo nel tracollo economico costato
il lavoro a migliaia di cittadini greci.
Ma al di là di questi
accostamenti grafici, il “rovesciamento tattico” operato dalla realtà
alternativa ateniese rispetto alla logica populista si traduce anche in
progetti politici ben mirati: la politica urbana del governo, ad
esempio, prevede un processo di graduale concentramento degli immigrati
di serie c (ossia gli ultimi tra gli ultimi, quelli che oltre a essere
irregolari sono anche implicati nel mercati della droga o che
semplicemente non hanno nemmeno un lavoro al nero) in pieno centro, nei
dintorni dell’affollatissima Omonia Square, popolata ormai
prevalentemente da individui che trascorrono le loro giornate in attesa
che qualcosa accada.
Tuttavia, a differenza delle big cities
americane e anche di molte metropoli europee, ad Atene questa operazione
di ghettizzazione non è associata alla costruzione di gated
communities, ovvero di quartieri o zone iper sorvegliate in cui
risiedono i ricchi. Al contrario,la sensazione è che si tratti di una
realtà cittadina piuttosto omogenea, in cui lo standard di vita è
generalmente molto al di sotto della media europea. In ogni caso, la
scelta di far confluire gli immigrati nella zona centrale è divenuta
l’occasione, ci spiega C., un afgano che lavora nel centro Steki,
associato alla rete Noborders, per cercare di inserire queste persone a
tutti i livelli di ciò che possiamo definire la società civile e
politica della città.
In primo luogo le associazioni si sono
organizzate fornendo corsi liberi di lingua e di computer e provvedendo
all’assistenza legale e sanitaria per gli illegali. Ma la
partecipazione al tessuto sociale cittadino si spinge oltre, dal momento
che implica l’abbattimento della barriera di divisione tra immigrati e
non: ossia, l’obiettivo è quello di non rinserrarsi in attività
esclusive per i migranti, con il rischio di ricostruire delle piccole
comunità a sé stanti, ma di produrre una forma di
“comunanza” che non sia semplicemente la risultante tra le pratiche di
vita dei cittadini greci e quelle dei migranti, ma che si definisca per
l’appunto come un piano autonomo e nuovo, frutto del loro incontro.
Incontro che paradossalmente è stato reso possibile proprio dalle
lacerazioni e dalle tensioni scaturite dalla crisi economica.
Nella
piazzetta centrale di Exarchia, la sera proiettano un film su un
maxischermo artigianale, fabbricato per dare la possibilità agli
abitanti del quartiere di scendere in strada a fianco degli immigrati
che risiedono nella collina a pochi isolati da Exarchia. Ogni settimana,
si tiene un’assemblea pubblica nel centro sociale Nosotros, dove i
migranti partecipano e prendono parola. Al centro Gefyra, così come allo
Steki, il bar che la sera è frequentato per lo più da studenti, è
gestito dagli stessi migranti. Questi sono solo alcuni degli esperimenti
politici attualmente all’opera che esemplificano quanto detto.
Del
resto, come conferma il nostro interlocutore afgano C., quella della
cittadinanza è la questione più marginale nel ventaglio di
rivendicazioni portate avanti dai migranti: il problema non è tanto
ottenere uno statuto giuridico che formalmente ti riconosce come
cittadino greco (conquista peraltro praticamente impossibile con
l’attuale legge greca) ma di riuscire ogni giorno, sempre di più, a
negoziare nella pratica spazi di vita civile. Ciò non significa però che
Exarchia sia una sorta di isola felice all’interno del panorama
migratorio greco: le tensioni sociali sono all’ordine del giorno, la
polizia presidia costantemente il politecnico, che fu l’epicentro da cui
si irradiarono le proteste due anni fa, e gli sgomberi degli squat sono
immediati.
Per tutti questi motivi, proporremmo di chiamare queste
pratiche di vita politico-civile dei migranti e degli stessi cittadini
ateniesi, delle forme di “r-esistanza": modalità di resistenza a tutti
gli effetti, che però prevedono uno “stare” , ossia un radicamento di
qualche tipo nel luogo di arrivo che può produrre forme alternative di
cittadinanza. In altre parole, a partire dall’urgenza di rispondere
all’annullamento sociale e politico, si articola un qualcosa di nuovo,
una forma del vivere civile che va oltre la dimensione del rifiuto,
dell’essere contro, per definire un socialità comune.
Come è possibile, e soprattutto che senso ha, pensare a pratiche di cittadinanza in una zona di confine come Patrasso,
in cui i migranti restano solo per alcuni mesi, e in cui ogni giorno
tentano il disperato superamento di confine? Questa domanda ce la siamo
posta appena arrivati in città, per la precisione sulla strada che
costeggia il mare e arriva fino al porto: decine di persone, per lo più
afgani e nordafricani, stanno seduti sul marciapiede dalla mattina, in
attesa che arrivino i primi camion per le procedure di imbarco. Il gioco
è tanto semplice quanto drammatico: vince chi riesce a salire dentro al
camion o ad attaccarsi sotto, nello spazio tra le ruote del veicolo,
senza che il camionista se ne accorga.
Per tentare l’impresa,
generalmente i ragazzi aspettano che il camion si fermi a uno dei
semafori presenti, preferibilmente quando il conducente ha la luce
contro nello specchietto retrovisore, e cercano di aprire il portellone
posteriore. Ma fin qui non è che la prima tappa: pochi centinaia di
metri dopo, i camion vengono fermati dalla polizia portuale per gli
scrupolosi controlli, e se fino a qualche tempo fa non era così
difficile riuscire a nascondere, oggi, mi dicono loro, è praticamente
impossibile, dal momento che la polizia conosce ormai tutti i trucchi a
cui i migranti fanno ricorso. L’altra via per scappare sono i documenti
falsi: nella zona di autoconfinamento, dove mi accompagna Joanna
dell’associazione KINISI, i migranti mi mostrano una manciata di carte
di identità italiane, ovviamente falsificate: il costo si aggira intorno
ai 100 euro, mentre 150 per un passaporto.
Il problema è che i
controlli al traghetto sono rigorosi, continuano a spiegarmi, e che è
quasi meno rischioso passare con il documento falsificato in aeroporto.
Perché dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Somalia o dal Sudan passano
tutti per la Grecia? Perché, chiedo io, non avete pensato a partire via
mare direttamente dalle coste africane?
Il problema ha un nome ben
preciso: soldi. 10.000 euro servono per imbarcarsi dall’Algeria verso la
Sicilia, con i famosi barconi della speranza, con il rischio peraltro
di essere respinti prima di arrivare. Passando invece per l’Egitto e
quindi per la Turchia il tragitto è relativamente più agevole, anche se
poi il confine più difficile è proprio tra Turchia e Grecia, la prima
porta d’Europa. Tuttavia, come già detto, quello greco non è che un
pre-confine, una sorta di purgatorio per i dannati, dato che i migranti
stessi con cui ho parlato considerano la Grecia il
peggior posto in cui si siano mai trovati a stare, perché unisce la
severità delle leggi europee con l’assenza totale di prospettive
lavorative o di integrazione sociale. Quindi dove siete
diretti? Domando. Italia, Italia, è la risposta più diffusa. Ma sapete
che in Italia esiste il reato di clandestinità e che il Ministro Maroni
vuole rimpatriare perfino i cittadini europei che minano l’ordine
pubblico? Sanno, sanno; sanno tutto questo, sono molto informati ma non
importa: qualunque situazione, mi rivelano, è meglio di qua, e poi,
aggiunge uno di loro che è riuscito ad arrivare fino a Venezia, la
polizia italiana non picchia, quella greca invece sì (!).
Alcuni
vogliono arrivare in Francia, specie gli arabi, qualcun altro in
Germania o perfino in Canada, dove, dicono loro, c’è molta tolleranza.
Ciò che maggiormente ha destabilizzato le poche conoscenze che avevamo
sulle questioni migratorie è l’estrazione sociale di molti di questi
migranti: il noto schema che divide tra la
cosiddetta “high skill migration” e gli immigrati non qualificati salta
completamente; qui trovo persone laureate in ingegneria, in informatica o
in lettere. Me ne accorgo quando, da brava arrogante
occidentale, intrisa di logica di assistenzialismo umanitario domando se
le associazioni di sostegno forniscano anche corsi di computer e uno mi
risponde di essere un ingegnere informatico, per cui il suo problema
non è di sapere usare il computer ma di non averlo! O meglio, l’unica
volta che ha provato ad andare a un internet point il proprietario ha
chiamato la polizia che lo ha arrestato prelevandogli il denaro che
aveva nelle tasche.
Gli afgani non stanno insieme agli altri
“soggetti in fuga”, non vivono nella ex stazione che si trova
praticamente nel centro di Patrasso, ma vivono appartati in un oliveto
ai confini della città, in una posizione strategica perché vicino alla
strada principale dove passano i camion. Stanno separati perché, mi
spiegano, sono stati i primi ad arrivare negli anni novanta e hanno
sempre voluto mantenere intatte le proprie radici culturali.
Nell’uliveto non c’è assolutamente niente. Solo pochi cartoni per
dormire, nessuna baracca, dato che la polizia viene di notte a
distruggere le coperture di plastica che l’associazione KINISI o altre
persone portano loro. F., 24 anni, è partito dall’Afganistan nel 2005, e
ha impiegato tre anni per finire in quell’uliveto: è respinto dai
turchi in Iran, e poi è approdato nell’isola di Samos, dove c’è uno dei
più importanti centri di detenzione di tutta la Grecia. Adesso è un
anno che ogni giorno tenta l’assalto ai camion alle undici di mattina
nella strada proprio di fronte. Eppure si ritiene già fortunato per
avere ottenuto lo statuto di rifugiato, per cui non può essere espulso
dal Paese. In ogni caso, mi dice, quando riuscirò ad arrivare in Italia,
se non riesco a entrare nel vostro Paese piuttosto che tornare qua mi
faccio rimpatriare in Afganistan. In fondo, lo statuto di rifugiato non
da’ diritto in Grecia a nessuna tutela legale o sanitaria né tanto meno
ad avere un alloggio. Dove non è materialmente possibile praticare una
“r-esistanza”, cosa può allora significare la cittadinanza per dei
“soggetti in fuga”?
di Martina Tazzioli e Angelo Lucia