Due fallimenti di successo

Le guerre del nostro tempo, tra colonialismo e distruzione dell'intelligenza

4 / 12 / 2009


Come spesso accade, niente ha più successo dell’ostinarsi in un’impresa fallita. Cioè nel tirare dritto in qualcosa di sbagliato che non si vuol riconoscere come tale, fino a gettarsi trionfalmente nel burrone. Due casi esemplari sono, in settori diversi, la guerra in Afghanistan e il Bologna Process, la cosiddetta guerra al terrore e la guerra contro lo spirito critico e l’istituzione universitaria. L’unica differenza fra le due è che la prima succhia soldi, la seconda taglia sulle spese riversando i risparmi sul finanziamento della prima. In particolare in Italia, che svolge un ruolo del tutto subalterno in Afghanistan, gli stanziamenti per le missioni “di pace” assorbono integralmente i tagli di bilancio per la ricerca. Gli Usa, che hanno maggiori responsabilità, spendono molti più dollari per il controllo coloniale su Kabul e continuano (anche se meno) a investire sulla ricerca, per evidenti ragioni di utilità militare e per attirare ricercatori da tutto il mondo. Robert Gates non è La Russa...

Le analogie sono molte. Innanzi tutto il fallimento. Le prospettive afghane sono unanimemente assai scure: si tratta al massimo di infliggere un colpo oggi ai talebani con un surge di 30.000 soldati per trattare fra un anno e ritirarsi gradualmente. Che la partita sia persa è dichiarato dalle stesse autorità statunitensi, che discutono solo sulla migliore exit strategy, illudendosi probabilmente di raggiungere con un uso concentrato della forza oggi un compromesso domani, vista la totale inaffidabilità del quisling Karzai. Escalation e fuga le abbiamo già conosciute in Vietnam. Obama potrebbe però fare la stessa fine di Lyndon Johnson, come promette l’ostilità della stampa e la disaffezione crescente dell’elettorato statunitense. Nel caso del Bologna Process e del 3+2 che ne è l’interfaccia più ossessiva il fallimento è stato dichiarato ufficialmente dal IX rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (2008) e pochi giorni fa anche dalla stampa conservatrice tedesca. I movimenti degli studenti e i settori più avvertiti della docenza, del resto, dall’Italia alla Francia all’Austria non avevano cessato di denunciarlo. Anche Berkeley manda segnali.

Che i governi siano affezionati ai propri errori non fa meraviglia. Tuttavia –e parliamo qui soprattutto dell’Italia– abbiamo un’incomprensibile riluttanza dell’opinione pubblica addomesticata a prendere atto della duplice disfatta. Non c’è partito parlamentare, non c’è grande giornale o rete televisiva di destra o di sinistra che non difenda la nostra missione civilizzatrice in Afghanistan e non ritagli un ruolo speciale tra i “fannulloni” agli studenti che protestano contro le assurdità del 3+2. Nel primo caso si invocano la patria e l’Occidente, l’Europa con tanto di radici giudaico-cristiane e il prezzo del barile petrolifero, nel secondo la meritocrazia e la produttività economica del sapere. In questo esercizio retorico non c’è differenza fra Libero, il Corriere della sera e Repubblica, fra il livido Feltri e i posati Sergio Romano o Pirani. Al Senato il gruppo Pd vota i finanziamenti per le missioni italiane all’estero che comprendono quella afghana e anticipano il consenso all’invio di nuovi mille soldati per proteggere l’imbroglione Karzai e i trafficanti di oppio (unica astensione, da rilevare stavolta positivamente, quella dell’IdV). Luigi Berlinguer e l’area Università e Ricerca del Pd dichiarano di volere interloquire con la riforma Gelmini e assumono, in contrasto con Cgil e Udu, un basso profilo sugli interventi ministeriali contro i precari. Meno male che non contano niente.

Obama si trova in una stretta drammatica fra gli interessi geopolitici degli Usa e le promesse elettorali. E ce ne dispiace. La Gelmini (per QI) e Tremonti (per interesse di classe) difendono la distruzione dell’Università e la marginalizzazione tecnologica dell’Italia (dello spirito critico non parliamo neppure). Ma in base a quale sia pur meschino interesse la cosiddetta sinistra italiana difende quelle due cause perse? Per la stessa logica con cui tutela (come se ce ne fosse bisogno) il diritto del cittadino Berlusconi di sottrarsi al processo? Forse la risposta è proprio uno squallido sì, ovvero per incapacità di fare politica. Il non rimpianto Enrico Berlinguer aveva escogitato una complicità di classe in grande stile con il compromesso storico; i suoi eredi si accontentano di molto meno, di sopravvivere come ceto politico sfigato, messo per di più alle corde a sinistra da un populismo equivoco. Meritocrazia e fedeltà occidentale si fondono, contro il berlusconismo, in un solo termine: patriottismo costituzionale. Ma il nostro Habermas è Gianfranco Fini. Un giusto epilogo per la sinistra italiana.