Eros 2011

3 / 1 / 2011

Sappiamo tutti che Eros, amore e desiderio, ha per madre Penía, povertà, dunque potenza illimitata di agire e di patire, ma non scordiamoci che suo padre è Poros, l’astuto figlio della strategica Metis, alla lettera passaggio, risorsa, espediente, chi sa trovare il mezzo per forzare un accesso, per entrare in un luogo riservato: oggi diremmo per sfondare la zona rossa, per entrare in delegazione al Quirinale. Un’esperienza complessa che ci è divenuta familiare, non è restata confinata nel platonico Convivio 203 b-d. Eros dunque è scalzo e precario come la madre, ma audace cacciatore e filosofo come il padre. Non è ignorante come la Gelmini, non è saputo come Saviano, anela piuttosto a imparare e a vivere secondo perfezione sempre maggiore, cioè secondo felicità. Assomiglia abbastanza al precario che entra nel 2011 rinfrancato dalla lotte, reso visibile a se stesso prima ancora che ai mass media che alfine l’hanno scoperto, giovane molto giovane ma già esperto di come gira il mondo, pronto a reagire alla violenza del potere ma capace anche di trattare e conseguire consenso, manco per niente “generazionale”, ma consapevole di giocare la stessa partita degli operai di Pomigliano e Mirafiori, delle partite Iva a monocommittente, di chi vede falcidiate e dilazionate pensioni che lui, peraltro, non percepirà mai. Vogliono assegnargli il Daspo, come lo stanno dando in fabbrica alla Fiom, come licenziano nella scuola e nel pubblico impiego. Ma non è un reietto, un drop out, anzi è la forza produttiva principale nel pur asfittico capitalismo cognitivo italiano. Costituisce l’unica opposizione in un sistema in veloce degrado, che si impernia ormai sulla compravendita dei parlamentari, finti attentati, ricatti e campagne di fango, che restituisce quello che il ceto politico ci mette: shit in, shit out, carichi merda nel ventilatore, cosa vuoi che ne esca?

Il 2011 mi sa che farà vedere a Sacconi parecchi squarci di quella che lui definisce con sbigottimento «dittatura del desiderio scambiato per diritto». Il 14 dicembre è solo un trailer. Anni ’70, rantola esorcizzando, mischiando tutti gli arnesi della controffensiva bio-politica (dice lui), piuttosto tanato-politica, atteso che consiste in accanimento terapeutico sugli stati vegetativi, promozione tramite legge Gelmini delle competenze per la crescita, fine del rigido controllo sociale sull’organizzazione del lavoro grazie alle nuove relazioni industriali di Marchionne e scardinamento della giustizia politicizzata. Nonché introducendo un misterioso congegno interinale chiamato cliclavoro, che dovrebbe produrre orgasmo alla minima offerta telematica di lavoro umile e malpagato. Insomma, in negativo, si riconosce il reale: uno spettro si aggira per l’Europa, il desiderio dissidente e selvatico, che spezza le compatibilità e scombina i giochi, che pretende di essere una variabile indipendente, addirittura eccedente. Questo è forse il solo richiamo plausibile agli anni ’70, debellati ogni giorno da Sacconi e Gelmini come il vizio del fumo nella battuta di Oscar Wilde: per il resto ben poco c’è in comune con quella rovente ma irripetibile stagione.

Facciamo ora scendere l’alato Eros con i piedi sulla terra, dismettendo le retoriche del fuoco e del sogno. Con molte contraddizioni sta avanzando un processo di ristrutturazione di quella parte dell’industria italiana più strettamente collegata a quella statunitense, fino ad esserne cavallo di Troia in Europa). Che si tratti di un settore decotto quale l’auto accentua il carattere dipendente e marginale dell’Italia nel panorama multipolare della globalizzazione. Per passare, tale processo esige lo sconvolgimento di tutto il sistema delle relazioni industriali e un attacco frontale tanto ai livelli di salario e garanzie della classe operaia quanto agli opachi dispositivi di mediazione e concertazione intessuti fra governo, Confindustria e sindacati a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo. Di qui le contraddizioni di cui sopra e che rendono evidenti le opzioni strategiche contrapposte: si tratta di strategie politiche e finanziarie, in cui il costo del lavoro è una variante assolutamente minore, appena un pretesto. Sul piano sindacale la Confindustria è paralizzata fra l’iniziativa rampante di Marchionne (dietro al quale occhieggia Obama) e la preoccupazione per il disordine conflittuale che deriverebbe dall’estromissione della Fiom, mentre la Cgil, timorosa di una Fiom “estremista”, vorrebbe tenersi care le pratiche concertative vigenti ma teme il prezzo della rottura Fiat. Sul piano politico queste e altre questioni (la politica degli approvvigionamenti Eni, per esempio) stanno sotto la spaccatura del centro-destra e la contrapposizione Berlusconi-Casini. Su entrambi i piani il Pd è frantumato tra fautori aperti dell’operazione Marchionne, sostenitori di un’opzione intermedia “confindustriale” (i firmatari del ddl sulla rappresentanza sindacale, che vorrebbe reintrodurre una Fiom obbediente nelle Rsa), rari difensori della Fiom; quanto al governo impazzano le avances di accordo subalterno con il terzo polo, solo divise se arrivarci subito o dopo una verifica in autonomia elettorale. In nessun caso si prospetta una contrarietà radicale, anche per schivare l’insidia di primarie in cui il ceto pieddino sparpagliato rischierebbe di finire succubo a Vendola.

Questa tediosa premessa (tale dopo che è emersa un’alternativa reale fuori dalla palude parlamentare) spiega però l’importanza politica dei compiti e delle iniziative cui il movimento del 14 e 22 dicembre deve sobbarcarsi, supplendo in tempi accelerati alla sfacelo della sinistra e al deragliamento della macchina partitica e rappresentativa. Intercettare la protesta sociale di metalmeccanici e precari della conoscenza significa assumersi un ruolo anche istituzionale di opposizione, costruire istituzioni del comune esattamente sulla faglia delle rotture interne della borghesia e sulla linea di contatto fra spasmi agonici del neoliberismo e resistenza moltitudinaria. Moltitudine indica qui uno schieramento eterogeneo ma effettivo e ribelle, irriducibile e irrappresentabile rispetto al vigente apparato partitico e in parte sindacale. In concreto, se indicendo referendum contro la legge Gelmini e il collegato lavoro (come da più parti si ipotizza) organizziamo, sul modello della campagna contro la privatizzazione dell’acqua, una piattaforma di convergenza oggettiva di settori diversi contro le due offensive più salienti del neoliberismo, allo stesso tempo formiamo un riferimento alternativo rispetto al balletto delle smembrate componenti di maggioranza e minoranza, anzi le interpelliamo sul loro comportamento politico: come vi schierate? Invece di rificcarci nel triste labirinto di quale fazione votare o se astenerci, andremmo a chiedere ai partiti di pronunciarsi su un nostro programma e di fornire sostegni effettivi. E lo stesso in materia di diritti collettivi domanderemmo al sindacato e ad altre strutture associative ed enti territoriali.

È ora di passare dall’analisi schifata dei giochi di palazzo a qualche modesta proposta di intervento in prima persona, consapevoli della forza acquisita, per un congiunto di circostanze favorevoli, da un movimento di opposizione polifonico e rizomatico, la cui potenza è tuttora inesplorata. La moltitudine, se non ha più paura, fa paura. Quello è il momento in cui comincia a produrre istituzioni, organizzazione, indicazione ricostruttiva. L’autoriforma dal basso della conoscenza e del welfare sono i primi terreni di confronto.

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