Fermiamoci un momento

...e ricominciamo a ragionare di antiproibizionismi e consumi consapevoli

7 / 11 / 2010

La stagione di discussioni e iniziative innescata lo scorso febbraio dalla "Carta di Trieste", in ordine alle pratiche di contrasto delle politiche di repressione e controllo sociale aventi a pretesto la diffusione e la circolazione delle sostanze stupefacenti, sta subendo un rallentamento che assomiglia in maniera sempre più preoccupante a una paralisi. Ora la tragica notte di Halloween al Leoncavallo di Milano, costata la vita a un ragazzo di 17 anni in ragione di un'epatite fulminante, causata da "una quantità spaventosa di metanfetamine presenti nel suo sangue", impone quantomeno di aggiornare alcune riflessioni. Indipendentemente da qualsiasi valutazione sul Leonka e su portavoce impegnati tra il coordinamento di Sel e dichiarazioni che puntano principalmente a tirarsi fuori dalla merda.

Non c'e dubbio che il documento condiviso a Trieste nel workshop "Carcere istituzione, carcere dentro di noi" in seno al convegno dedicato alla figura di Franco Basaglia abbia segnato una ripresa significativa della messa in chiaro di quali siano le politiche che gravitano attorno alla legge Fini-Giovanardi. Il quadro di riferimento ha radici antiche. La seconda conferenza sulle tossicodipendenze di Napoli , nel '97, lanciò le strategie di riduzione del danno in una sfida sostenuta da larga parte della comunità scientifica: progetti speciali a livello centrale e interventi concreti nei territori e nelle periferie. A cui fu ben presto contrapposto un macrosistema che le inglobava, insieme a prostituzione e immigrazione, e tutto comprendeva sotto il capitolo ordine pubblico. Nel frattempo esplodevano le cosiddette "nuove droghe" mettendo in luce un nuovo soggetto consumatore caratterizzato da una diversa forma di dipendenza, certamente meno oppressiva di quella da eroina, ma non per questo oggetto di minore attenzione sul piano repressivo.

Dalla terza conferenza di Genova, novembre 2000, ci si attese la valorizzazione delle sperimentazioni più felici e delle proprietà terapeutiche della canapa, l'introduzione del pill testing, l'indicazione di frontiere ancora più avanzate. Pur nella consapevolezza che era sempre il carcere la risposta più diffusa e praticata ai problemi legati alle tossicodipendenze ci si entusiasmò alla relazione dell'allora ministro della Sanità Veronesi quando faceva esplicito riferimento alla nocività, storicamente dimostrata, del proibizionismo. Un entusiasmo durato pochi mesi, fino alle giornate vissute ancora a Genova, nel luglio dell'anno successivo. Nel 2002 il futuro presidente del Consiglio Fini mise a segno le linee guida della nuova cultura repressiva, fondata sull'equiparazione di tutte le sostanze a un 'unica fattispecie di nocività e sanzionabilità penale. Poi ci pensò Giovanardi a formalizzarle per confezionare un maxi emendamento che andava a infarcire nientedimeno che il decreto legge sulle Olimpiadi invernali.

La quarta conferenza di Palermo trasformata in un esclusivo tavolo d'affari per le comunità private di recupero, mentre i Sert venivano fatti morire d'inedia e le politiche di riduzione del danno azzerate. La quinta di Trieste ridotta a un rito blindato e delirante nella celebrazione dei "buchi nel cervello" teorizzati dal dottor Serpelloni mentre fuori i movimenti facevano i conti con le pratiche di sottrazione alla sanzione penale prima di tutto, ma anche di sottrazione alla dipendenza, alla nocività, all'autolesionismo, all'alimentazione del circuito delle narcomafie. Per un consumo libero, ma soprattutto critico e consapevole. Perché il problema centrale non era (non è) se le sostanze sono libere, ma se le persone sono libere. Il resto è storia recente: è proprio da queste considerazioni, non a caso ancora a Trieste, che prese forma la Carta che ha ispirato le riflessioni e le iniziative di questi ultimi mesi.

Ora la questione non è certificare se quel ragazzo si sia avvelenato dentro o fuori da un luogo che comunque continua a chiamarsi centro sociale. Non serve l'ennesimo riferimento alle statistiche epidemiologiche laddove sottolineano che la mortalità per droghe leggere è pari a zero, che esse non danno assuefazione e che non sono il tanto temuto ponte di passaggio al consumo di droghe pesanti, in particolare l'eroina, mentre il tabacco causa 80 mila morti all'anno. Più significativo sembra ricordare le oltre 80 mila segnalazioni all'anno alle Prefetture per uso di canapa e derivati e le conseguenti sanzioni amministrative, la diffusa criminalità connessa alla tossicodipendenza, l'uso personale per cui non è stato più messo a segno un riferimento normativo certo, l'intervento dei Sert ridotto a carattere ormai esclusivamente farmacologico, l'assenza di strutture in grado di colmare il vuoto tra carcere e comunità terapeutiche, i malati di Aids per il 90% tossicodipendenti, gli accertamenti preventivi in tema di consumo di droghe e alcol in vista dell'assegnazione di un posto di lavoro, la progressiva distorsione del concetto di sicurezza a uso delle politiche di comando e di controllo sociale.

In questo quadro le "nuove droghe" (ma erano nuove venti anni fa) continuano a costituire un buco nero, sottraendosi alla certezza delle statistiche, all'assoggettamento agli indici di nocività, al dato sociologico relativo alla tipologia del consumatore. Mettendo in una posizione di impotenza chi condivide o incentiva la pratica del rave party, ma guarda al pill testing come un pericoloso equivoco sulla condivisione del consumo; chi si vede passare sotto il naso una minidose di coca (coca?) a 10 euro; chi sa che nella stessa serata dopo lo spritz, la canna, la pista, alla fine è il turno di una paglia di ero. La questione è sostanzialmente, profondamente culturale.

Se è chiaro a tutti il disegno politico che mantiene in vita il proibizionismo verso le droghe e il suo lento estendersi, in maniera selezionata, verso il consumo dell'alcol, dobbiamo interrogarci ancora e con maggiore chiarezza su che cosa significa - realmente - consumo consapevole. Trovare elementi di maggiore concretezza a questa determinazione: se la Carta di Trieste ha esaurito la sua funzione propulsiva è comunque al suo orizzonte programmatico che è possibile fare riferimento. E non sembra superfluo prendere in considerazione quella cultura della volgarità da anni in crescita strisciante che porta a credere che il punto di arrivo siano le feste in ville popolate da decine di ragazze disponibili in cui la marjiuana arriva con il jet personale del capo (a proposito: la coca come ci arriva?) e che "da grandi" si può fare indifferentemente la soubrette televisiva o il consigliere regionale. Perché la cultura dello sballo rischia di essere l'altra faccia di questa stessa medaglia.