Il sì e il no

16 / 9 / 2011

Non gli sta andando troppo bene a Marchionne: a parte le mediocri prestazioni sui mercati finanziari e l’evidente fallimento della politica industriale, cominciano le grane anche sulla gestione megalomane delle “risorse umane”. Con il il boss della Uaw, Bob King, dopo un’iniziale luna di miele si è aperta la resa dei conti e i sindacati, a salvataggio della Chrysler concluso, rivogliono soldi e diritti. Mica ha a che fare con Sacconi, il docile e truce lanzichenecco, e le due suorine che dissero di sì, Bonanni e Angeletti. E perfino in quel caso ci stanno problemi, visto che il sì era stato dolcemente sollecitato (oltre che con presumibili benefits) con corrispettivi occupazionali per salvare la faccia di fronte agli iscritti. Orbene, gli investimenti della strombazzata Fabbrica Italia sembrano latitare, chiudono Termini Imerese, Modena e Avellino-Valle Ufita, a Mirafiori si passa dai Suv (dirottati a Detroit) alla Panda – un animale in estinzione, appunto. Fim e Uilm non l’hanno presa bene e pure la cospicua componente cislina del pubblico impiego, nazionale e locale, già incollerita con il compagno di merende di Sacconi, Brunetta, si è vista bastonare senza pietà dalla varie manovre governative. Per cui i nostri sindacalisti gialli che, per usare la leggiadra prosa intercettata dai giudici baresi, «tendenzialmente non sono professionisti del sesso, ma all’occorrenza non disdegnano di essere retribuiti per prestazioni sessuali» oppure «non escludono di aver avuto per ragioni di particolare euforia brevi incontri sessuali di cui comunque non conservano il ricordo» (deve trattarsi dei referendum aziendali), insomma hanno lavorato (quasi) gratis, e che c...


Su tutt’altro piano, i cedimenti politici di Susanna Camusso con l’accordo del 28 giugno sono stati vanificati dall’art. 8 della Manovra, il cui carattere di regalo alla Fiat è stato sfacciatamente sciorinato dallo stesso Marchionne («è di una chiarezza bestiale»). Giustamente Luciano Gallino (Repubblica, 15 settembre) ha messo in evidenza che la legittimazione dei licenziamenti in deroga all’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori è un aspetto relativamente secondario dell’insieme (tanto che le suorine libidinose Bonanni e Angeletti si sono precipitate a giurare che mai diranno di sì) –aggiungiamo che già oggi e proprio nelle aziende Fiat succitate i licenziamenti avvengono per chiusura in blocco o ristrutturazione, non per giusta causa individuale–, mentre ben più gravi sono le deroghe a tutti gli elementi portanti dell’organizzazione del lavoro (orario, pause, mansioni, controlli audiovisivi, addirittura passaggio dal tempo indeterminato alla prestazione “autonoma” occasionale). La distruzione, insomma, di tutto il diritto del lavoro e delle acquisizioni contrattuali degli anni ’60-‘80. Distruzione che rende superflui i gravi cedimenti dell’accordo di giugno e impone piuttosto la revoca dell’incauta adesione ad esso della Cgil, come tenacemente insiste Maurizio Landini.


Che l’art. 8 punti soprattutto a precarizzare il lavoro un tempo garantito dovrebbe indurre poi tutto il sindacato e anche le componenti più radicali di esso a una revisione strategica di fondo, che non si limiti a difendere le conquiste sancite dallo Statuto e dagli accordi nazionali, ma rilanci fortemente sulla liquidazione del dualismo del mercato del lavoro, introducendo in primo luogo forme di reddito di cittadinanza che riducano l’area del ricatto occupazionale e dissuadano ulteriori gradi di flessibilità. Il «Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità» – come si intitola l’articolo in questione in perfetta neo-lingua orwelliana (anche il poliziotto di quartiere ha la stessa etichetta) – mira a una disgregazione molecolare di tutta l’organizzazione regolata del lavoro, trasferendo gli apparati disciplinari del contratto nazionale (il suo versante fordista disciplinare, simmetrico alle conquiste operaie) al controllo anonimo del mercato, meglio dire dei grandi gruppi in grado di corrompere legislatori e forze sindacali locali. Come ogni deregulation è una regolazione innovativa (peggiorativa rispetto alla forza lavoro), altrettanto centralizzata e ben più autoritaria. La “prossimità” riduce il carattere collettivo della contrattazione e in questa fase non garantisce neppure un incremento retributivo per i collaborazionisti. Non si formeranno certo aristocrazie operaie quando le nuove assunzioni sono a schiacciante prevalenza a tempo determinato e a progetto.


Sul piano della democrazia, come dimostrano i tentativi di estromettere Fiom e Cgil dalle rappresentanze locali e di escluderle dai vertici nazionali (più privati dei festini di Arcore), si tratta di un’articolazione sociale della più generale crisi della democrazia di cui il sistema di nomina dei deputati e senatori è l’emblema esteriore. Hanno ragione quanti, favorevoli o contrari, sostengono che di tutta la fuffa della Manovra proprio l’art. 8, in apparenza non portatore di risparmi, è quello decisivo in senso “riformista”, per demolire cioè le strutture ereditate dagli anni ’70 e avviare un glorioso ritorno al pauperismo ottocentesco e ai padroni delle ferriere. Che ciò non serva a rialzare la produttività e la competitività capitalistica euro-atlantica nei confronti del Bric(s) non toglie che l’intenzione ci sia. Solo sbarrando questa strada si difenderà la sopravvivenza di quanto resta del lavoro garantito e di una generazione precaria che le garanzie non ha mai conosciuto. Verrebbe quasi da pensare che, analogamente a come funzionò il keynesismo in un’altra fase del capitalismo, solo così resta aperta qualche chance di sviluppo capitalistico. Non a caso le preoccupazioni per il mancato sviluppo (per la retrocessione del sistema nord-atlantico rispetto a Cina, Brasile ecc.) cominciano a prevalere sull’ossessione monetarista per il pareggio di bilancio, che sconsideratamente si vorrebbe introdurre nelle Costituzioni europee. Solo che, a questo punto, siamo tutt’altro che accomunati con il capitalismo “progressista” su un obbiettivo condiviso di sviluppo. Stiamo parlando di due cose diverse, perché pompare denaro per implementare il modello vigente di sviluppo significa disastro ecologico e sovraccarico rispetto a mercati saturi. Non è con la Panda che superiamo la logica dei Suv. Tanto meno, però, in una prospettiva di decrescita generalizzata.


La sfida, come suggeriscono vari interventi di G. Viale, è di articolare un modello di sviluppo industriale ed energetico sostenibile, di ricerca e di spesa sociale che tagli trasversalmente la retorica produttivistica e investa dritto il cuore della crisi con la duplice leva dell’aumento dell’occupazione e del reddito di cittadinanza. La redistribuzione della ricchezza disponibile è un passo decisivo per uscire dalla logica del divario crescente di reddito, logica propria della finanziarizzazione e il cui esito immediato è il restringimento del consumo e tutta la merda che ne segue in termine di indebitamento, inattività, rapporto deficit-Pil, ecc. Ma non possiamo esentarci da una proposta che leghi occupazione e produzione qualificata, che ridisegni un avvenire industriale dell’Italia fuori dal sogno di vendere utilitarie ai cinesi (che non ne vogliono più) e Ferrari e alta moda ai miracolati della finanza.


L’unità fra sindacalismo radicale e movimenti dei precari, fra lavoro manuale e cognitivo (egualmente distribuito in entrambi i settori e incorporato a pari titolo nell’esperienza relazionale e biopolitica) agisce in modo indistinguibile sul terreno rivendicativo e politico, rovesciando l’attacco della borghesia finanziaria che si muove simultaneamente sui due terreni. Il rifiuto dell’art. 8 e dei dispositivi che vogliono farci pagare il costo della crisi e restringere la democrazia (la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio è bipartisan!) significa in positivo farsi carico di un nuovo modello contrattuale, di un nuovo Statuto dei diritti postfordista, di una parziale riscrittura e non solo della difesa elastica del testo costituzionale, impostato sulla logica dei beni comuni e della democrazia partecipata. Sputtanate le suorine consenzienti, dobbiamo esprimere un sì al cambiamento, porre nuovi valori e nuove istituzioni, non solo rabberciare il buon antico. L’ampiezza della crisi non lascia altra scelta e la palese inadeguatezza del riformismo ci apre la possibilità e perfino la necessità di espandere la democrazia e di dare risposte allo schieramento maggioritario che nei referendum ha sanzionato non solo la resistenza alla privatizzazione e alla crisi, ma la profonda diffidenza verso un’opposizione fasulla e una rappresentanza inquinata nei suoi stessi termini liberali. Non è una strada facile, ma si sa le cose davvero importanti sono rare e difficili da farsi, per dirla con la conclusione dell’Ethica spinoziana: omnia præclara tam difficilia, quam rara sunt.