«La conclusione sarà splendida»

Appunti per l'analisi e l'azione nella situazione attuale, parte 2.

1 / 3 / 2021

Le «prese di posizione» ad ogni piè sospinto, le «dichiarazioni» o le «evocazioni», sono tipiche della politica parlamentare (o aspirante tale), che è rappresentazione teatrale della democrazia. Noi, come organizzazione di movimento, pratichiamo invece la democrazia in atto. Ovvero dato un problema, una situazione, ci interroghiamo collettivamente sul come agire. Il dibattito e l'azione hanno bisogno però di essere ispirati dall’analisi della fase storica, dalla lettura della realtà materiale, dall’individuazione di una prospettiva strategica. Per questo mi pare importante provare ad abbozzare un ragionamento, al fine di aprire un dibattito, che parta dalla situazione contingente per arrivare al «cosa possiamo fare» per giocare un ruolo reale nella società italiana.

Imparare a fare le moltiplicazioni con Gramsci

Dobbiamo approcciarci al concetto gramsciano di «Egemonia» rifuggendo le sue letture caricaturali e tipicamente reazionarie, vale a dire l’idea che si tratti sostanzialmente di un semplice inganno, un mascheramento propagandistico dei propri reali obiettivi per spingere una parte della società ad agire contro i propri interessi e a vantaggio di quelli altrui.

L’egemonia è invece la capacità di stringere un compromesso tra gruppi o classi sociali, in cui ciascuna delle parti in causa persegue i propri interessi, ma solo una riesce a portare le altre sul proprio «terreno di gioco», a costruire cioè le condizioni per cui le altre classi o gruppi perseguano i propri obiettivi all’interno di una serie di metodi e regole fissate da chi detiene l’egemonia. 

«Lo stato è egemonia corazzata di coercizione» ha scritto Gramsci. Pertanto è egemone chi definisce la forma che lo stato assume, quali sono i suoi valori di fondo e i suoi meccanismi di funzionamento. Per questo motivo i capitalisti possono ad esempio veder colpiti momentaneamente i propri interessi, ad esempio con una maggiore tassazione sui redditi da parte di un governo «progressista» o dalla vittoria dei lavoratori e delle lavoratrici in una vasta serie di vertenze, ma rimanere comunque «classe egemone»; perché tali «conquiste» della controparte si svolgono sempre all’interno di una forma di stato, e quindi di un sistema di scambi internazionali e di una serie di ideologie, che non intaccano realmente l’egemonia della classe dominante.

Infatti la storia ci insegna che le «conquiste» delle classi lavoratrici all’interno dello stato-nazione e della democrazia liberale sono sempre e solo delle momentanee «concessioni» che il capitale si rimangerà non appena avrà la necessità di uno dei suoi momenti di «distruzione creatrice», tramite cui esso ciclicamente rinnova la propria capacità di mettere a valore l’esistente.

Questo ci deve mettere in guardia sia dall’utopismo anarcoide che dall’utopismo riformista. «Alzare il livello del conflitto» oltre un certo limite se non vi sono le oggettive condizioni che consentono di diventare egemoni è un suicidio collettivo. Queste condizioni oggettive consistono nella possibilità di costruire una nuova forma di stato, a partire da nuove istituzioni popolari, sorte sul terreno del contro-potere, dotate di un seguito di massa ed un’effettiva operatività. Questa operatività si determina quando vi è un certo grado di divisione nelle classi dominanti ed il passaggio nel campo rivoluzionario di un numero adeguato di figure «tecnico-intellettuali» capaci di far funzionare mezzi di produzione e servizi pubblici. 

L’«operare forzature» di ampia portata quando queste condizioni oggettive non sussistono è jaquerié, rivolta senza speranza destinata ad essere spazzata via dai plotoni e dai blindati della Celere esattamente come le rivolte dei contadini medioevali venivano facilmente represse dalla cavalleria pesante nobiliare. È quanto accaduto al termine del «biennio rosso» e degli anni Settanta. In entrambe i frangenti la debolezza politica di fondo delle classi lavoratrici, cioè il loro isolamento rispetto alle altre classi, rese inutile o dannosa l'azione di chi cercò di «alzare il tiro» sul piano militare. Al contrario, durante la resistenza (e in precedenza laddove gli Arditi del popolo riuscirono a svolgere un'azione unitaria), la forza politica raggiunta grazie all'unità antifascista si tradusse in forza militare.

È però suicidio collettivo anche l’utopismo riformista, sia che si esplichi come «centrismo liberale» che come «massimalismo socialdemocratico». Un esempio della prima variante l’abbiamo al massimo grado nel Partito Democratico italiano. Il PD ha governato nella maggioranza degli anni intercorsi dalla sua fondazione ad oggi, ha espresso ben due capi dello stato e tre primi ministri. Eppure ha visto continuamente ridursi i propri consensi ed il suo risibile «peso» nell’attuale governo Draghi mostra chiaramente come esso non sia realmente «organico» a nessun settore degli apparati dello stato, della finanza o dell’imprenditoria. Di fatto è un progetto politico fallito.

Ma risultati migliori non ha dato neppure il «massimalismo socialdemocratico» di Corbyn o Tsipras. Pensare di usare la struttura dello stato-nazione borghese contro gli obiettivi di un capitalismo che agisce su scala globale e attraverso centri di potere continentali non può che portare alla sconfitta, disperdendo così forze che sarebbero state più utilmente utilizzabili in lotte sociali, magari più limitate, ma più concrete. 

Possiamo dire che da un lato gli anarcoidi e i socialdemocratici massimalisti fanno le addizioni, cioè continuano a proporre dei velleitari «+1» rispetto a quanto è possibile raggiungere all'interno dello stato-nazione. I riformisti centristi fanno invece le sottrazioni, cioè attuano tutti i «-1» (e spesso anche -10, -100, -1000...) richiesti dallo stato-nazione e dal capitale. L'una e l'altra prassi politica sono indice di subalternità perché non scuotono l'egemonia delle classi dominanti. Un reale movimento rivoluzionario invece non fa né le addizioni né le sottrazioni, ma piuttosto le moltiplicazioni. Porta cioè il discorso su un nuovo piano, un piano sul quale sia possibile realmente risolvere le urgenze di fondo di un determinato periodo storico e su quel piano realizza la più ampia unità di tutte le forze progressive. Unità che per l'appunto non determina una sommatoria ma una moltiplicazione di forze. Il nuovo piano su cui si opera questa moltiplicazione è il piano dell'egemonia e quindi della forma di stato, strumento per risolvere concretamente i problemi di un periodo storico. 

Per questo occorre avere uno sguardo attento agli equilibri strategici, puntato sulla dimensione continentale dei processi. È l'incapacità delle borghesie nazionali a creare un vero stato europeo a creare quella contraddizione tra struttura economica continentale e sovrastruttura politica nazionale che determina un deficit oggettivo di democrazia e quindi, a lungo andare, una debolezza di tutto il loro apparato di potere. 

L’organizzazione di movimento come intellettuale collettivo

Come si è visto ciò che rende possibile la ricomposizione delle classi dirigenti italiane ed europee e ciò che impedisce o ostacola la ricomposizione delle classe diseredate è la «forma politica» assunta dalla sedicente «Unione Europea» come sommatoria di stati-nazione tenuti insieme dall’ortodossia liberista o dalle decisioni del principale polo capitalistico del continente, quello tedesco. Allo stesso tempo questa «forma politica» è intrinsecamente fragile e incapace di risolvere stabilmente le contraddizioni del capitalismo a livello continentale, di trovare un equilibrio duraturo che garantisca nel contempo una piena integrazione tra i diversi settori delle classi possidenti europee e la loro egemonia sulla popolazione dei singoli stati (garantita comunque in misura ancora importante dalle strutture materiali e dalle ideologie dei rispettivi stati-nazione).

Da tutto ciò ne consegue che solo all'interno di una reale unione del continente potrà svolgersi l'emancipazione delle sue classi lavoratrici e solo quando le classi lavoratrici condizioneranno con le proprie lotte l'agenda politica europea si potrà davvero unire il continente. Solo quando si parlerà seriamente di salario minimo europeo, di welfare europeo, di diritti civili e sociali europei, di libertà di movimento per i migranti, di reale giustizia ambientale europea ed internazionale, sarà possibile iniziare a costruire la vera Europa Unita. Un'Europa nella quale le autorità democraticamente elette o delegate potranno davvero esercitare un reale controllo sui capitali, sui servizi pubblici e sui mezzi di produzione del continente; nella quale le identità «nazionali» passeranno in secondo piano rispetto alla coscienza della comunanza di interessi tra le classi lavoratrici e l'organizzazione politica del continente sarà formata da un reticolo di autonomie locali confederate  attorno a comuni valori.

L'Europa unita sarà socialista, ecologista e trans-femminista o non sarà, e la rivoluzione socialista, ecologista e trans-femminista sarà a livello europeo o non sarà, almeno non in questo continente.

Uno dei più grandi meriti che abbiamo come Centri Sociali del Nordest è quello di non essere provinciali, di avere uno sguardo europeo e globale, di aver posto sin dal 2015, con il documento «Apocalisse o rivoluzione» l'urgenza della lotta per la giustizia ambientale e di aver contribuito, con il Climate Camp di Marghera nel 2020, all'incontro su questo terreno di quanto vi è di vitale nei movimenti italiani, confederandolo con gli altri movimenti europei ed in primo luogo con quelli tedeschi, con le loro lotte «nel ventre della bestia».

Dobbiamo però essere consapevoli del fatto che non vi è ora in Europa un movimento capace di agire davvero in maniera coordinata su scala continentale, di cambiare l'agenda politica con la propria forza, di porsi come classe dirigente e quindi di iniziare il processo di superamento degli stati-nazione. 

Il contributo che possiamo dare al suo sorgere non è solo tenere materialmente i collegamenti con gli altri movimenti europei, ma sopratutto «tradurre» in maniera concretamente applicabile alla realtà italiana tutte quelle analisi, riflessione e pratiche che emergono a livello europeo e internazionale. 

Questo non significa limitarsi a tradurre in italiano volantini o articoli in inglese e tedesco, riprodurre pari-pari nella nostra realtà slogan e pratiche che si danno in altri paesi, o ambire a farlo. La «nazione» intesa come pretesa unità mistica di territorio, popolo e stato, sempre monolitica ed eguale a sé stessa è un’astrazione borghese, tipico esempio di un pensiero semplificante che fa violenza alla complessità del reale. Ma i popoli, con la loro lingua, cultura e storia esistono davvero. Poneteli uno accanto all’altro sullo stesso territorio, come accade tra italofoni e germanofoni in provincia di Bolzano e vedrete sia fenomeni di ibridazione che un rimarcarsi delle specificità. Ed allo stesso modo esistono le diverse storie, culture, realtà materiali regionali, provinciali e cittadine. Occorre studiare a fondo le diverse realtà ed adattare ad esse un pensiero rivoluzionario elaborato e praticato su scala globale.

È quello che fece Gramsci. Prima di lui in Italia vi erano state solo due figure in grado di tradurre il pensiero socialista in riflessioni e prassi originali, adeguate alle realtà in cui si trovavano ad operare: Andrea Costa e Giacomo Matteotti (quest’ultimo un caso più unico che raro di riformista al servizio dell’autonomia di classe). Ma entrambe si erano dedicati più alla prassi che alla teoria, non riuscendo mai a sviluppare un pensiero ed un’azione che andassero oltre la dimensione macro-regionale (la Val Padana). Per il resto non avevamo avuto altro che imitatori, più o meno maldestri, dei socialdemocratici tedeschi o dei bolscevichi russi. Gramsci fu invece il vero padre della «via italiana al socialismo» perché adattò il metodo di Marx alla realtà concreta del nostro paese e facendolo arricchì di nuove prospettive il bagaglio teorico dei rivoluzionari e delle rivoluzionarie di tutto il mondo.

Si può dire che lo stesso abbiano fatto nelle proprie realtà gli zapatisti e il movimento rivoluzionario curdo. Hanno preso quanto di più avanzato veniva prodotto a livello mondiale e lo hanno ibridato con la cultura e le esigenze delle proprie realtà, producendo a loro volta nuove riflessioni di valore universale.

Questo è quello che dobbiamo fare anche noi. Per questo trovo poco interessante domandarci «siamo davvero transfemminstə? Siamo antispecistə? Siamo confederalistə democraticə? Siamo zapatistə?». Occorre piuttosto che da un lato impariamo a conoscere approfonditamente transfemminismo, antispecismo, confederalismo democratico, zapatismo e tutte le più avanzate correnti culturali e sociali del mondo di oggi. Ma occorre anche che ci chiediamo: «cosa e come posso mettere in pratica elementi di questo nella mia realtà? Cosa di queste riflessioni si traduce in azione concreta utile alle persone, alle altre forme di vita e all’ambiente del posto in cui vivo?». 

La nostra elaborazione non serve come recinto per distinguere «i puri dai reprobi», ma ha un senso se riusciamo a renderla concretamente e realisticamente operante prima nei nostri spazi, nelle nostre scuole di italiano, nei nostri sportelli di mutualismo, nelle lotte in cui siamo presenti e poi trasmetterla alla società circostante. Per questo occorre un continuo confronto, un continuo dibattito sulla teoria e sulla prassi. Dobbiamo divenire l’intellettuale collettivo (per dirla sempre con Gramsci) che porta la società italiana a contatto con quanto di progressivo viene elaborato nel mondo e questo richiede concretezza, realismo, conoscenza della realtà circostante, volontà di cambiarla e non semplicemente di distinguerci da essa.

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Per un'analisi della storia e dell'identità europea in una prospettiva post-nazionale e post-coloniale rimando ad un mio scritto del 2019 in merito al dibattito sul «Manifesto di Ventotene».