Il 15 ottobre scorso a Roma la rabbia di chi era deciso a manifestare
la propria indignazione puntando ai "Palazzi" e ai simboli del potere è
stata assai più facilmente "sfogata" a spese e contro il corteo e gli
obiettivi di centinaia di migliaia di altre persone. Facendosene scudo e
prendendole in ostaggio; e beneficiando, tra l'altro, di comportamenti
delle forze dell'ordine che hanno enormemente facilitato quest'esito.
Quelle persone si erano invece convocate e riunite per manifestare in
tutt'altro modo: cioè pacificamente; e con tutt'altro obiettivo: quello
di dare, innanzitutto a sé stessi, e poi al mondo intero, una immagine
circostanziata e "aggiornata" delle forze e delle idee che si
contrappongono alle scelte che stanno portando le loro vite, quella del
nostro paese e quella dell'intero pianeta a imboccare una deriva senza
ritorno.
Iniziative che si concludono con scontri con le forze
dell'ordine e con assalti più o meno devastanti ai simboli del potere
non sono un'esclusiva del nostro paese, né di questa stagione: hanno
spesso accompagnato, e a volte caratterizzato, alcune delle scadenze
con cui, nel corso degli ultimi dodici anni, il movimento
altermondialista ha cercato di rendere visibile al mondo il suo totale
dissenso dalle scelte compiute dai cosiddetti Grandi della Terra. Ed è
probabile, quale che ne sia la valutazione che ciascuno ne dà in base
ai propri principi morali o alle proprie valutazioni politiche, che
iniziative più o meno analoghe si faranno più frequenti negli anni a
venire, in concomitanza con l'aggravarsi della stretta finanziaria,
economica e ambientale che sta distruggendo la convivenza umana
sull'intero pianeta. Lo confermano le recenti vicende della Grecia,
giunta ormai a una fase della crisi che per molti versi anticipa e
prefigura quello che sembra destinato a succedere in molti altri paesi,
tra cui il nostro. Questo è uno degli aspetti della crisi con cui
bisogna imparare a convivere, adoperandoci, se e perché lo si ritiene
rovinoso, o pericoloso, o anche solo sbagliato, per limitarne le
dimensioni e gli effetti.
A Roma la scelta di chi ha voluto a ogni
costo dare a questa giornata un esito violento a spese di tutti gli
altri è stata "giustificata"- quando lo è stata - con motivazioni che
denotano una totale subalternità alla cultura e ai pregiudizi
dominanti. Per esempio quella di "far saltare" un presunto accordo, con
finalità elettorali, tra il centrosinistra - o una parte di esso - e
alcune delle organizzazioni che hanno promosso la manifestazione;
oppure (si è letto e sentito anche questo) quello di dare corpo alla
rabbia dei precari contro la o le generazioni precedenti - largamente
rappresentate nel corteo - che avrebbero rubato il loro futuro con i
loro "diritti acquisiti".
La prima motivazione evidenzia come,
anche tra i segmenti più ai margini - e che per questo si ritengono più
"radicali" - si siano ormai insediati approcci tutti interni agli
schemi della politica più deteriore: quella interamente costituita dal
mercanteggiamento delle scomposizioni e ricomposizioni degli
schieramenti che tutti i giorni ci viene esibita dal ceto politico. La
seconda motivazione riprende il cliché che mira spiegare e affrontare
la crisi in termini di scontro generazionale e non di conflitto tra
sfruttati e sfruttatori; tra lavoro e capitale; tra poveri e ricchi;
tra chi paga le tasse e chi le evade; tra chi cura l'ambiente e chi lo
devasta; tra ricostruzione e distruzione dei legami sociali.
In
entrambi i casi - e, probabilmente, in molti altri che occorre
affrontare con pazienza e umiltà, nelle sedi più aperte e più
appropriate - la posizione di chi ha voluto portare la giornata del 15
ottobre all'esito che ha avuto è simmetrica e speculare a quella di
tutti i media e i giornalisti che la hanno commentata. I quali si sono
limitati a distinguere - nel migliore dei casi - o a confondere - in
tutti gli altri - un ridotto gruppo di vandali "violenti" e una
stragrande maggioranza di manifestanti "pacifici". Ma non hanno colto,
per malafede, per mancanza di cultura, per incomprensione, le
caratteristiche principali di quella giornata. Sicché la cultura degli
uni - i media - spiega molto del comportamento degli altri: i
"violenti". Poche osservazioni bastano a evidenziarlo.
1. Si è
manifestato nello stesso giorno in più di 80 paesi e in più di 500 - o
900? - città: contro gli stessi eventi, le stesse entità, con le stesse
parole d'ordine; con uno slogan che, come ha ricordato Naomi Klein
parlando a Zuccotti Park, è partito l'anno scorso dal movimento degli
studenti italiani («Noi la vostra crisi non la paghiamo») e, a un anno
di distanza, è rimbalzato in tutto il mondo nella forma: «Il debito non
si paga». Vorrà pur dire qualcosa questo obiettivo, se è così condiviso
da milioni di manifestanti, nonostante sia così osteggiato
dall'establishment accademico, politico, finanziario e mediatico, che
non riesce nemmeno a prenderlo in considerazione come ipotesi. O no? E,
quale che ne possa essere la realizzazione, non sarà questo obiettivo
altrettanto rilevante, e molto di più in termini prospettici, delle
"violenze" che si sono viste in piazza a Roma?
2. La manifestazione
di Roma è stata di gran lunga la più ampia del mondo: dieci o venti
volte di più della maggiore di quelle che si sono svolte nelle altre
città. Qui non interessa la "conta"; Maurizio Landini ci ha insegnato,
giusto un anno fa, a non impuntarsi su conte del genere, dove la meglio
l'ha sempre e comunque chi controlla i mezzi di comunicazione di massa.
Ma nessuno, sembra, si è chiesto come mai fossimo in tanti. Non certo
per la presenza dei black bloc, o di chiunque sia stato designato con
questo termine! È il fatto di essere stata voluta, convocata, preparata e
condivisa da un numero di persone che già pochi mesi fa ha dato
un'idea della propria consistenza con i referendum contro la
privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici locali, contro il
nucleare e contro l'immunità di Berlusconi.
3. Questa
manifestazione, infatti, non è stata convocata da nessun partito, da
nessuno dei sindacati cosiddetti maggioritari - quelli che siedono, o
sedevano, al tavolo delle trattative nazionali - da nessuna delle
istituzioni che pretendono di rappresentare il paese o una sua
componente. È stato il frutto di mille, diecimila iniziative dal basso,
alcune esclusivamente locali, altra ormai consolidate, o
temporaneamente coordinate, a livello nazionale; che si sono
riconosciute in un comune sentire: quello dell'indignazione, per usare
un termine che, più che scelto, gli è stato appiccicato addosso:
benvenuto! Non solo contro Berlusconi (negli altri paesi questo
problema non esiste). Ma contro la finanza internazionale, le sue
scelte e le sue imposizioni; che è invece un problema comune a tutti.
Tutte queste persone si sono riconosciute anche in alcuni obiettivi
generali - il ripudio del debito, la lotta contro precarietà,
disoccupazione, incultura, deprivazione - e in un percorso da costruire
in comune: attraverso un confronto e una consultazione aperta e senza
pregiudizi. E innanzitutto, a Roma come a New York, a Madrid come a
Barcellona, nella gioia di essere veramente "insieme"; o, come dice
Naomi Klein, di poter dire al vicino «mi importa di te».
4. Non era
un corteo di giovani, come tutti i commentatori hanno continuato a
designarlo. Nella manifestazione erano presenti i temi più diversi:
dall'acqua ai diritti dei lavoratori, dalla difesa della cultura a
quella dell'ambiente, dalla promozione delle energie rinnovabili alla
salvaguardia di scuola, università e ricerca, dall'agricoltura biologica
alla lotta contro la vivisezione; ma nessuno - tranne, certamente, la
volontà di farla finire in uno scontro - è stato vissuto come
incompatibile con gli altri. Soprattutto, erano presenti, in modo
massiccio e ben rappresentato, forse per la prima volta, tutte le
generazioni: nonne e nonni, madri e padri, figlie, figli e nipoti; un
vero family-day, di una famiglia molto allargata. E una risposta
eloquente - come si è detto - a tutti i tentativi di analizzare la crisi
in termini di conflitto intergenerazionale.
5. Che cosa sarebbe
successo, infine, se quel corteo avesse potuto proseguire
tranquillamente il suo percorso e concludersi, come avremmo voluto, in
Piazza San Giovanni? Nessuno, nei media, se lo è chiesto. Ne sarebbe
seguita un'acampada di centinaia di tende - e non di quelle poche decine
che hanno fortunosamente trovato un'alternativa in Piazza Santa Croce
in Gerusalemme - tante da rendere difficile il loro sgombero e quasi
automatica una loro crescita e un continuo rinnovamento. Un problema in
più per l'establishment! Tale da poter concludere che, da come sono
finite le cose, gli è proprio andata nel migliore dei modi.
La lezione del 15 ottobre
21 / 10 / 2011