La Repubblica delle macerie

2 / 6 / 2020

Da qualche anno a questa parte il 2 giugno è tornato ad essere un giorno festivo in Italia. Come in tutte le società democratiche, le feste civico-politiche rappresentano un osservatorio privilegiato soprattuto per un’analisi politico-sociologica dei processi che si svolgono all'interno delle società stesse. L'identità e la memoria di una nazione si risaldano e si trasformano proprio grazie a questi momenti simbolici.

Le feste, i rituali sono plasmati e si intrecciano strettamente con il clima politico-culturale che percorre una società in quel determinato momento.

Nelle feste nazionali si incontrano il potere politico con l'identità politica della cittadinanza; si incontrano la costruzione del consenso e del dissenso, la giustificazione e legittimazione del potere, il senso di appartenenza che identifica, unisce o divide i membri di una comunità politica.

La Repubblica italiana nasce all’indomani della Seconda guerra mondiale, costruita sulle macerie di un Paese distrutto dalle sue fondamenta, dopo vent'anni di fascismo e un conflitto rovinoso, ma anche dopo una gloriosa lotta di liberazione.

La Repubblica nasce - però - senza nessuna unitarietà politico-territoriale, così come era avvenuto per l’unificazione statuale 85 anni prima. La struttura istituzionale del potere legittimo è in frantumi, divisa tra Repubblica sociale di Salò, monarchia, Comitato di liberazione nazionale (CLN), partiti, occupazione alleata. Anche la società è stremata. La popolazione è avvolta tra la miseria e il lutto. La Repubblica nasce in un Paese sfigurato dalla miseria materiale, sospeso tra impoverimento morale e un fermento politico generatosi dalla Resistenza. Il posizionamento geopolitico nello scacchiere della Guerra Fredda fa io resto.

La data del 2 giugno è quella che richiama il referendum, il primo a suffragio universale, che si tenne il 2 e 3 giugno del 1946. Circa 25 milioni di italiani vennero chiamati alle urne per decidere quale forma di stato tra repubblica o monarchia dare all'Italia.

Il simbolo "dell'Italia turrita" superò con oltre il 54 per cento (12.717.923 di voti) lo stemma sabaudo. Un risultato che venne ufficializzato, non senza polemiche e alcuni scontri, il 10 giugno dalla Corte di cassazione.

La prima celebrazione della festa della Repubblica si tenne nel 1947, l'anno seguente alla nascita della nazione moderna e nel 1948 ecco la prima parata lungo i Fori Imperiali. Solo nel 1949 il 2 giugno venne dichiarato festa nazionale con l'istituzione del cerimoniale che prevede la "passata in rassegna" delle forze armate davanti al Presidente della Repubblica.

Nel corso degli anni si è fatto di tutto per far diventare il 2 giugno un giorno “importante” per il Paese; soprattuto nel corso degli ultimi decenni gli italiani sono stati chiamati a esprimere il proprio sentimento di appartenenza all’Italia. La politica ha sempre utilizzato parole come libertà, democrazia, convivenza pacifica per esaltare questo giorno. Si è utilizzato il tricolore come emblema di libertà e di appartenenza amplificato, negli ultimi anni, dal passaggio delle frecce tricolori, la Pattuglia Acrobatica Nazionale dell’Aeronautica Militare Italiana.

Come si può festeggiare una Repubblica che non riesce neppure a far rispettare la propria costituzione, che non cuce quelle differenze territoriali che sin dal suo principio porta con sé, che calpesta quotidianamente i diritti di tutte e tutti?.

Quello che è accaduto in quesi mesi ci ha mostrato che il sistema democratico può cambiare, anzi sta cambiando. La Festa della Repubblica all’epoca del Covid-19 diventa così l’occasione propizia per interrogarci sul suo stato di salute e sulle sue possibili evoluzioni.

In questi mesi di lockdown si è tanto parlato di unità nazionale. “Insieme ce la faremo” è stato il motto sponsorizzato da tutti. Adesso che entriamo nella fase 3, con la riapertura dei “confini” regionali, risaltano al pettine tutte le incogruenze. A dir la verità, anche durante il lockdown abbiamo visto quanto il sistema di welfare del nostro paese sia in crisi. È difficile dire se – una volta passata l’emergenza – il nostro sistema di welfare avrà sviluppato “anticorpi istituzionali” duraturi, capaci di rafforzarlo e renderlo più resistente nel lungo periodo. La crisi sta certamente rendendo visibili problemi del nostro sistema di protezione sociale noti ma latenti, sta risvegliando questioni “dormienti”, ponendo all’attenzione collettiva temi spesso marginali nel dibattito pubblico. Mattarella oggi sarà a Codogno, città simbolo dell'emergenza sanitaria italiana. Il Presidente ha sottolineato quanto in questo periodo ci sia stata una risposta unitaria che è stata semplicemente decisiva. Il pensiero di Mattarella è però in netto contrasto con la paura, che alcuni presidenti di regione hanno esplicitato sulle riaperture del 3 giugno. L'asse Nord-Sud sembra essersi invertito. I giornali in questi giorni hanno titolato a caratteri cubitali come Sardegna e Sicilia non vogliano i lombardi.

In tutto questo caos, a ridosso della festa del 2 giugno, ci sono stati movimenti alquanto strumentali nelle piazze italiane.

A Roma circa 200 manifestanti, con tricolori sulle bandiere e sulle mascherine, hanno cercato di dirigersi verso palazzo Chigi intonando il coro «Libertà, libertà» e l’inno di Mameli. La manifestazione è stata organizzata contro il governo Conte, colpevole secondo alcuni dei partecipanti «di affamare gli italiani con la scusa del coronavirus» considerato da diversi un’invenzione.

Sulla stessa lunghezza d'onda a Milano si sono ritrovati i “Gilet Arancioni”, capeggiati da un ex generale dei Carabinieri con l’abitudine della protesta di piazza contro il governo di turno. Pappalardo, vicino al movimento dei Forconi, si è fatto portatore e paladino di istanze che vanno dall’anti-politica al covid-scetticismo, alla rabbia sociale, alle aspirazioni autarchiche.

I Gilets arancioni sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del governo per come ha gestito l’emergenza sanitaria Covid-19, soprattutto nelle sue pesanti ricadute economiche. Il tutto rigorosamente senza mascherine, perché «il virus è un trucco» usato per imporre un nuovo ordine sociale.

Per completare il quadro, il 6 giugno scenderanno in piazza gli “ultras neri” sotto la sigla “Ragazzi d'Italia”. Secondo gli organizzatori sarà una manifestazione pacifica. La definiscono non un’iniziativa politica, ma un megafono delle vertenze di operai, piccoli imprenditori, agricoltori, ristoratori, avvocati, chiunque voglia venire a protestare contro il governo.

Per carità, stiamo parlando di “movimenti” farseschi, ma preoccupa la loro iper-mediatizzazione. Il 2 giugno di quest'anno, più che sottolineare una sorta di unità nazionale, fa emergere quanto sia importante il vuoto di potere e quanto questo possa generare fenomeni perversi quando non viene attraversato da movimenti reali e da istanze di emancipazione collettiva.