Le forme di distress ambientale e i modi per uscirne, insieme

Una serie di tre articoli sulle forme di disagio psicologico direttamente legate alla crisi ambientale.

8 / 5 / 2023

Ecoansia, solastalgia, etc: la crisi ambientale ci tocca ormai tuttə da vicino, ne vediamo la minaccia esistenziale, ma possiamo imparare a conoscerne l’impatto sulla salute mentale e a costruire sistemi e culture risananti, collaborative e rigenerative, grazie a strategie di coping e di lavoro in gruppo, a competenze comunicative, nuove istituzioni ed infrastrutture.

Lo stress può avere effetti sia benefici che nocivi per il nostro organismo, nel primo caso parliamo di eustress, nel secondo di distress. Il termine “distress ambientale” fa quindi da ombrello a tutte quelle forme di disagio psicologico in relazione alla crisi ambientale, che si tratti di perdita delle specie e della biodiversità o di impatto del cambiamento climatico sul territorio e sulla nostra pelle.

Li chiamano “wicked problems” non a caso, sono intrighi diabolici[1], più grandi di noi, complessi da capire, elaborare, gestire, come gli ecosistemi, che pure influenziamo consistentemente da migliaia di anni. Se poi pensiamo alla velocità con cui stanno scomparendo le specie o con cui stiamo riscaldando il pianeta e l’atmosfera è chiaro che ci possiamo sentire travolti.

A queste forme d’ansia, di depressione, di trauma personale e collettivo, si aggiungono tutti gli altri vissuti individuali (o meno) opprimendo la salute mentale e fisica delle singole persone in maniere contorte e spesso difficili da diagnosticare e da affrontare con consapevolezza non solo psicologica, ma anche politica.

Molti studi e sondaggi[2] mostrano come le forme di distress ambientale siano un fenomeno in crescita tra studiosə, attivistə, contadinə, ed in misura preoccupante tra lə bambinə, con insonnia e depressione cronica sin dalle età più tenere (anche bambinə di 8 anni). Per questo istituzioni come l’American Psychological Association e la Climate Psychology Alliance stanno cercando di colmare la carenza di attenzioni che questi disagi si meriterebbero nella pratica psicoterapeutica, in società e nella ricerca.

Le soluzioni concrete dovranno poi essere diverse per ognunə. Per qualcunə potrebbe significare ritirarsi un po’ dalla valanga di “bad news”, per qualcun’altrə unirsi ai movimenti in lotta, per esempio nei centri sociali, che hanno un approccio intersezionale a tante problematiche, per altrə può significare trovare supporto in un servizio comunale. Scienziatə, psicologhə ed organizzazioni psicologiche consigliano molte soluzioni a livello di sistema come strutture di supporto, azioni collettive, reti sociali, senza dimenticare che gli strati sociali più colpiti sono quelli già per altri motivi più fragili. Al contempo sottolineano il bisogno di interventi di risoluzione dei problemi ambientali, come l’inquinamento dell’aria o lo sfruttamento del suolo, per ottenere un reale cambiamento.

Le due cose si possono unire in esempi di comunità di supporto allargate e mirate a riprogettare insieme sistemi abitativi, infrastrutture, educazione, occupazione e altro ancora insieme all’amministrazione locale, ai quartieri, allə espertə. Oggi a questo tipo di comunità possono tornare utili strumenti come il design dei servizi, eventualmente il transition design, oppure esempi di riconversione economica e sociale come le transition towns e accanto ad essi nuove pratiche democratiche di vario tipo, come il world café e le assemblee cittadine.

Tra lə promotorə delle assemblee e del visioning troviamo lə attivistə di Extinction Rebellion, che prestano particolare attenzione alla facilitazione orizzontale, fondamentale per la democratizzazione della società,e alle culture rigenerative. Con gruppi di supporto e pratiche di cura del sé promuovono dinamiche relazionali non-tossiche e presentano una catalogazione delle diverse manifestazioni del distress ambientale, ispirata sicuramente a Glenn Albrecht e le sue “Earth emotions”.

Oltre ad Albrecht, che ha anche operazionalizzato una Scala del distress ambientale, si sono dedicatə a questa catalogazione o distinzione delle emozioni e dei sintomi in contesto ambientale alcunə studiosə come Ashlee Cunsolo, Susan Clayton o Panu Pihkala. Quest’ultimo, per esempio, ha elencato la differenza tra le varie forme di ecoansia: l’ansia esistenziale per il rischio d’estinzione, l’ansia da respingimento delle emozioni, i disturbi d’ansia e l’ansia sociale dalla sensazione d’isolamento. Albrecht ha creato il termine solastalgia ad indicare quella nostalgia provata pur stando a casa, nostalgia del luogo in cui si è cresciuti e in cui si vede un cambiamento (generalmente in negativo) dell’ambiente a cui siamo affezionati, oltre ad esserci legati per ragioni pratiche di sostentamento e sopravvivenza.

Ci sono poi forme di rielaborazione del lutto, il cosiddetto ecological grief, che può riferirsi alla perdita di persone vicine o lontane, di specie animali e vegetali. Alcunə scienziatə per esempio lavorano e vivono a stretto contatto con alcune specie e la loro salute mentale viene anche fortemente impattatə dalla scomparsa dei soggetti e compagni di studio. L’espressione ecological grief infatti risale al 1992, quando l’ecologa Phyllis Windle si rese conto di quello che provava rispetto alla perdita di una specie vegetale.

Le tanatologhe Marie Eaton e Kriss Kevorkian hanno descritto i motivi per cui i sentimenti di perdita e disperazione relativi all’ambiente naturale possono essere più intensi del lutto per una persona cara, per esempio il fatto che la morte di una persona è più o meno attesa e che spesso non muore per colpa nostra. Possiamo parlare, nel contesto ambientale, di trauma, di trauma collettivo, di sfera del trauma, continuamente triggherato, e di disturbo pre-traumatico da stress.

Abbiamo bisogno perciò di tanti modi e tanti metodi. Alcuni studi sottolineano l’importanza di essere educatə ad una comunicazione chiara ed efficace sulle tematiche ambientali, che alzi la capacità di controllo (sulla situazione) percepita (il cosiddetto locus of control). Migliorare gli strumenti del pensiero critico, per saper bene argomentare nelle conversazioni e sapere come comunicare con il pubblico. Altri studi parlano della necessità di interventi sanitari e dell’istituzione di infrastrutture per le emergenze, per gestire l’impatto di eventi catastrofici e per avviare la successiva ripresa.

Infine, alcune autrici ed attiviste si sono concentrate sui metodi di lavoro in gruppi di supporto non-terapeutici. Parlo del Good Grief Network, delle Carbon Conversations (ora Climate cafés) e della Speranza Attiva, ma ve ne parlerò di più nel prossimo articolo di questa serie di tre. Intanto una cosa è chiara: il distress ambientale non può essere trattato come un problema individuale. 

* Neré (all’anagrafe Silvia Pezzato) ha scritto una tesi di laurea magistrale su questi temi, alla Masaryk University, e nella parte più empirica della sua ricerca-azione partecipativa ha facilitato un piccolo gruppo di supporto per studentə con distress ambientale. La tesi è in lingua ceca, ma verrà prossimamente tradotta e riadattata in italiano.

Immagine di copertina: da climatejusticeleague.weebly.com.


[1] Da “wicca” - “witch”, problemi come quelli legati alla sostenibilità o alla sanità pubblica.

[2] Per esempio il sondaggio di Atherton per la BBC sulla Climate Anxiety e la serie di sondaggi annuali Climate Change in the American Mind, di Leiserowitz et al.