Il prosieguo di un movimento per la democrazia: i presidi, i forum, le soggettività

Per allargare il respiro

L'agosto di Istanbul

18 / 8 / 2013

La battaglia d'Istanbul in difesa di seicento alberi,
novecento arresti, mille feriti, quattro accecati per sempre,
la battaglia d' Istanbul
è per gli innamorati a passeggio sui viali,
per i pensionati, per i cani,
per le radici, la linfa, i nidi sui rami,
per l' ombra d' estate e le tovaglie stese
coi cestini e i bambini,
la battaglia d' Istanbul è per allargare il respiro
e per la custodia del sorriso.

(versi pubblicati da Erri De Luca sul suo profilo di Facebook durante le giornate di scontri a Taksim)

Nonostante sia un calda giornata di estate inoltrata in una Istanbul sovraffollata come e più di sempre, il 17 agosto i parenti delle vittime della violenza brutale della polizia di Erdogan e degli arrestati a Gezi Park si riuniscono su Istiklal, la via principale che conduce a Taksim. Quella via che abbiamo visto gli scorsi mesi essere teatro di immensi cortei e infiniti scontri tra manifestanti e polizia. Non è un evento particolare. Questo presidio da settimane si tiene ogni sabato e il suo interesse consiste nel fatto che esprima lo spirito e la composizione sociale che anima il movimento di Gezi.

Fin dalla mattina il clima tra le forze dell' “ordine” è teso e confuso. Si muovono disordinati e sempre in gruppo cercando di bloccare le strade attorno a Taksim, senza logica, senza un disegno preciso. La loro presenza imponente occupa un raggio di chilometri larghissimo. Sulle strade dello shopping, stracolme di turisti, sono disposti mezzi di ogni tipo. È evidentemente un messaggio: ora come prima e più di prima è ripristinato il divieto assoluto di manifestare. Questo almeno è quello che comanda il presidente, con la complicità del sindaco della città e dei vertici di polizia.

Questo tuttavia non è quello che le migliaia di donne e uomini che hanno abitato e difeso Gezi, che hanno combattuto strenue battaglie contro una polizia spietata, hanno intenzione di accettare. Ecco perché spesso le strade del centro attorno a Taksim continuano ad essere animate da cortei e manifestazioni, il più delle volte gasate a freddo e senza alcuna ragione.

Le settimane di mobilitazione, come ci raccontano gli attivisti (che ironicamente si autodefiniscono «capulcu» ovvero «roditori pietosi» sbeffeggiando l'espressione con cui li ha appellati il premier), hanno insegnato giorno dopo giorno, le tecniche della resistenza. Tanti e tante che all'inizio avevano paura e se ne stavano dietro sperando di sfuggire ai gas, hanno cominciato col passare del tempo e con l'acuirsi della repressione, a scendere equipaggiati. Prima l'aceto, poi gli occhialini e, infine, la fila per comprare una maschera anti-gas. Ecco perché non sorprende affatto ritrovarsi d'improvviso, tra le musica a palla di un locale pop e la fiumana di arabi in vacanza qui, tra centinaia di persone che gridano cori carichi di rabbia. Lo striscione attorno a cui si raccolgono porta stampati sei volti. Sono i volti delle sei persone rimaste uccide durante gli scontri in tutta la Turchia. Sono volti sorridenti. C'è il giovanissimo Mehemet, quello di una signora di mezza età nascosto da un paio di grandi occhiali da vista il cui nome era Zeynet, e poi altri ragazzi più o meno giovani. Il presidio è festoso e determinato. Non ci sono lacrime. E' evidentemente una dimostrazione di quel coacervo di diversità armonizzate nella lotta, di cui ci hanno parlato tutti quelli con cui abbiamo chiacchierato in questi giorni. Ci sono i curdi, tanti, insieme con i kemalisti, con i tifosi del Carsi, con la società civile più progressista tra cui spiccano gli architetti che hanno lanciato il primo allarme in difesa del parco, con i ragazzi e le ragazze dei collettivi lgbtq e quelli delle reti universatarie che già lottavano e continuano a farlo per una maggiore democrazia nei luoghi della formazione e soprattutto per la libertà di scegliere i propri piani di studio al di fuori di quella che definiscono «una rigida perimetrazione delle discipline».

È uno spaccato che descrive efficacemente la composizione del movimento di Gezi, così come ce ne hanno parlato in questi giorni. Un movimento animato da tanti dei frammenti che compongono questo puzzle culturale e politico che si chiama Turchia.

I curdi hanno un ruolo essenziale, non soltanto perché sono una minoranza tartassata storicamente dalla repressione di tutti governi turchi e dunque sono ben determinati contro il Governo Erdogan, ma anche perché sono abituati ad uno scontro quotidiano con la polizia nei loro stessi quartieri. Questo ha fatto sì che dal primo giorno, insieme con i tifosi delle tre squadre di Istanbul, assumessero un ruolo determinante rispetto all'efficacia e alla organizzazione della resistenza. Proprio questo eroico protagonismo, insieme con la costante brutalità della repressione poliziesca hanno contribuito a creare ponti e sinergie tra i curdi e quella parte di popolazione della città abituata a considerare, nella migliore delle ipotesi, la questione curda come lontana, identitaria e poco diversa dai mille conflitti che hanno sempre animato il paese. Gezi Park ha mostrato invece come la propaganda di un regime, sedicente democratico, possa obliare completamente la drammaticità di conflitti lunghissimi e ha smascherato l'esistenza di una vera e propria guerra combattuta da decenni nelle province sud-est del paese.

Come i curdi, anche gli ultras sono stati tra i protagonisti delle giornate di rivolta. La stampa internazionale ne ha parlato abbastanza perché sulle barricate sono saliti assieme i supporter dei tre team della città, mettendo da parte la rivalità calcistica. Gli stessi ultras tuttavia oggi sono tra i maggiori animatori e partecipanti di una delle più grandi conquiste di questo movimento: i forum di quartiere. Sono sostanzialmente delle assemblee che hanno cominciato a tenersi nei parchi o nelle piazze pubbliche dei tantissimi quartieri della città dalla stessa sera in cui si è scelto di lasciare Gezi. Sono luoghi intergenerazionali in cui si parla di tutto e si ragiona della possibilità e delle modalità di proseguimento della mobilitazione, così come delle più banali questioni territoriali. E' un atto di riappropriazione di un pezzo di democrazia di cui i cittadini e le cittadine turche erano stati progressivamente privati. Proprio la pianificazione urbana assume un valore fortemente simbolico a tal proposito: basti pensare al fatto che la passione di Erdogan per consumo e capitale gli ha fatto sviluppare una specie di ossessione per centri commerciali e megagalattici poli residenziali di lusso. Per costruirne sempre di nuovi, prima dell'attacco al Gezi, sono stati abbattuti – ovviamente senza sentire il parere degli abitanti che anzi hanno spesso opposto radicale resistenza – interi quartieri delle maggiori città del paese e le popolazioni deportate in palazzoni alla estrema periferia delle aree urbane. Il tema dell'utilizzo di pezzi di città a piacimento suo e dei potentati economici che lo appoggiano, tiene di fatti dentro quella che è la più ampia questione democratica in Turchia.

Ed è sul tema della democrazia che, con più freddezza e quindi maggiore chiarezza rispetto alle giornate calde di Piazza Taksim, le donne e gli uomini in mobilitazione pongono oggi l'attenzione. Quando si parla con loro di democrazia si riferiscono con molta semplicità alla garanzia di tutta una serie di diritti, alla libertà di manifestare in varie forme le proprie idee ed anche il dissenso politico, all'assenza di discriminazioni in base ad etnia, religione, lingua, cultura o classe sociale. E' proprio la rivendicazione di democrazia e quindi il malcontento verso l'autoritarismo di Erdogan ad accomunare su una «piattaforma» unitaria tutte le componenti del movimento che, prendendo piede ad Istanbul, ha poi infiammato tutte le principali città turche.

Il tema della laicità è sicuramente compreso tra le motivazioni della contestazione e richiesta di alternativa, ma spesso la lettura europea o più in generale occidentale della tematica, ha dato adito a fraintendimenti. Erdogan è il capo delle correnti religiosamente più ortodosse del “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo” a matrice musulmana anche se liberale. Il primo ministro turco inoltre da anni è stato appoggiato dalle più potenti lobbies (socio-politiche, culturali ed economiche) islamiche del suo paese: dei veri e propri network – di professionisti, docenti universitari (e talvolta il controllo di intere facoltà), vere e proprie scuole private, associazioni studentesche, media, strumenti di assistenzialismo quindi di contatto diretto con i ceti popolari di religione musulmana – che non promuovono forme di integralismo ma puntano all'islamizzazione progressiva della società turca. Sicuramente Erdogan porta la bandiera di queste realtà politiche e sociali, accendendo in tanti islamici osservanti un nuovo orgoglio per i propri costumi (velo compreso, che per anni nella Repubblica di Turchia – Stato senza religione ufficiale – è stato persino vietato nei luoghi pubblici, tra cui scuole ed università), ma sa bene di non poter forzare la mano su questi aspetti. La Turchia infatti è ancora fortemente segnata costituzionalmente dalla rivoluzione laica ed anti-ottomanna di Ataturk, tutt'ora riconosciuto come unico padre della patria (la riproduzione della sua effige è ovunque!), nonostante il partito che è sua diretta emanazione (Partito Repubblicano Popolare, sedicente di centrosinistra seppur fortemente nazionalista) si trovi oramai da tanti anni all'opposizione in parlamento.

Il problema, in buona sostanza, non è una possibile svolta teocratica dell'ordine statale, mai veramente paventata da Erdogan. Piuttosto il connubio che viene messo a critica dal movimento è quello tra il contributo del primo ministro ad una nuova egemonia culturale nonché economica dei poteri islamici e l'estrema frammentazione socio-economica della società accompagnata da una forte repressione: quella poliziesca così come quella che passa per il controllo totale della televisione pubblica che, durante le efferate violenze della «polisei» sui manifestanti ad Istanbul, mandava un documentario sui pinguini (di qui la scelta sarcastica di accompagnare, nel simbolo della protesta, l'alberello col disegno di Penguen).

Una battaglia innanzitutto di e per la democrazia, che non poteva che scoppiare qui, in questa megalopoli affacciata sul mediterraneo orientale, che è di fatti da sempre crocevia di culture assai differenti e che si è ritrovata a prendere atto delle potenza di queste stesse differenze tra gas, fiamme e barricate. Proprio questa vera sostanza moltitudinaria spiega più di ogni altra cosa, a nostro avviso, l'efficacia comunicativa, l'ironia e la lungimiranza tattica di questo movimento. Gezi ha segnato un immaginario, soprattutto generazionale. Si nota e si sente ad ogni angolo di strada, ad ogni incontro, ad ogni chiacchiera scambiata rapidamente con i ragazzi che siedono ai bar. E' un anelito di liberazione che non bisogna azzardarsi a paragonare all'occidentalizzazione o all'europeizzazione di cui goffamente parlava Repubblica, costruendo stereotipi “compatibili” ad un'idea di soft revolution organizzata e voluta dalla creative class col sogno europeo. Qui creative class, mondo lgbtq, artisti, ricercatori, musicisti, si mescolano già da anni strada dopo strada, finestra dopo finestra, alle fasce della subalternità urbana condita di un'etnicizzazione che ha storicamente somministrato un dazio pesantissimo alle minoranze. In questo senso un approccio post-coloniale è necessario. Solo attraverso questa lente diamo il giusto peso alle forme di organizzazione, al processo costituente e dalla costruzione di nuova cittadinanza che si sta sperimentando qui ad Istanbul.

Presidio per le vittime della polizia di Erdogan canta "Bella Ciao"