Regime di cuori

7 / 2 / 2011

Nient’altro che le parodie di Elio e le Storie Tese (grandi!) si adatta ormai alla cronaca italiana, lacerata fra le gesta delle olgettine e l’indignazione degli uomini e delle donne perbene (proprio una bella partita), sospesa nell’attesa frenetica delle foto del Premier nudo e abbioccata dagli inverosimili videomessaggi dello stesso in versione bin-berl. È subito naufragato il rilancio di Berlusconi statista, tentato da Giuliano Ferrara con scarsa convinzione e generosa adozione del calunnioso metodo Boffo –ipotizzando che qualcuno nel Pd voglia la patrimoniale, anzi che qualcuno nel Pd voglia qualcosa. L’idea di portare la crescita annua del Pil italiano al 4% modificando l’art. 41 della Costituzione in senso deregolazionista è apparsa deprimente perfino alla Confindustria e si è immediatamente accompagnata al rimpastino del gabinetto con immissione di liberali e liberisti notori come Storace a F.S. Romano, mentre l’appeasement con il Quirinale si è incagliato sul pasticcio del federalismo comunale. Continua dunque la paralisi del Governo sul piano interno e internazionale, con il comico affaccendamento del verme Frattini a Santa Lucia mentre Nord Africa e Medio Oriente bruciano e il solenne riconoscimento della maggioranza della Camera al decisivo intervento sulla Questura di Milano per salvare, esfiltrando Ruby, i rapporti diplomatici con lo zio Mubarak. Citiamo però, fuoriuscendo dallo scherno scontato, la più grave delle assenze: il mancato intervento sulla fuga della Fiat dall’Italia. Intendiamoci, non è che il governo non abbia seguito l’affare, anzi ci ha inzuppato il pane fin quando si è trattato di fiancheggiare Marchionne per spezzare le reni al sindacato, promuovendone la divisione e bastonando selvaggiamente la Fiom, ma non si è coperto le spalle garantendo i 30 denari a Bonanni e Angeletti, tanto meno una bella figura a Sacconi qualche briciola ai metalmeccanici di Mirafiori e Pomigliano. Infatti la prospettiva, se non di un abbandono completo, certo di una marginalizzazione del settore italiano nella fusione Chrysler-Fiat è ormai palese e ridicolizza (tragicamente) i referendum coatti, i cedimenti dei sindacati padronali, il trattativismo a vuoto della Cgil camussiana (ah, quella firma “tecnica”!), le fanfaluche sacconiane su produttività e sviluppo. Soprattutto mostra l’assenza di una strategia industriale del Governo –una politica filo-padronale, beninteso, alla Merkel, ma insomma una politica, un interventismo che difenda gli interessi nazionali di parte borghese– ciò che rivela la base strutturale della penosa assenza di protagonismo italiano sul piano europeo e mondiale.

Per altro verso, la vicenda Fiat illumina di un bagliore sinistro la confusione e il servilismo perdente del Pd, corso con zelo a rimorchio di Marchionne proprio quando il boss aveva deciso di sfilarsi da Torino –alla vigilia delle elezioni comunali, vedi la sfiga! I “modernizzatori” Chiamparino, Fassino e Veltroni ci sono rimasti con un palmo di naso e invocano “chiarimenti” –una variante del celebre «fate luce» a propositi dei chiarissimi misteri d’Italia ai tempi delle stragi. La crisi industriale è gravissima, ma almeno il tentativo di isolare la Fiom è fallito e sarà difficile, con questi chiari di luna, riprovarci a breve scadenza. Anche la Camusso l’ha capito: niente sciopero generale ma neppure più pressioni su firme tecniche e altri trucchetti ai tavoli di produttività e rappresentanza. Anzi, è stata costretta a legittimare rifiuti di firma anche nel settore del Pubblico Impiego. Sconfitte, certo, ma senza leccare la mano del nemico e dei suoi servi sciocchi.

Più in generale lo smarrimento crescente all’interno del Pd è uno smorto riflesso del “disastro antropologico” con cui la Chiesa bolla (a suo uso e consumo) l’Italia berlusconiana. Per riassumere (e omettendo per carità la cammurriata delle primarie napoletane): la linea esposta all’assemblea nazionale consiste più o meno nella proposta di consultazioni subito (se Berlusconi non si dimette) e di un largo fronte elettorale che vada da Vendola a Fini. Con il, sottinteso non esplicitabile dell’abbandono delle primarie e della candidatura Casini a Premier. Il Pd ha il terrore delle urne, ma deve richiederle (e con quel fronte ampio) per spaventare Berlusconi ed evitare che vi ricorrano lui o Bossi. Allo stesso tempo corteggia la Lega, promettendo un federalismo senza limiti purché Bossi molli Berlusconi. Naturalmente tale sotto-strategia è incomponibile con la prima, dato che Casini conta su un elettorato anti-leghista e non ha problemi di recupero fra ceti operai e artigianali del Nord. Ma soprattutto Casini e Fini non hanno nessun interesse a un fronte ampio sino a Vendola, che spaventerebbe la loro base e consentirebbe una facile propaganda terroristica al sultano di Arcore. Probabilmente non hanno interesse neppure a un’alleanza ristretta con il Pd tagliando fuori IdV e Sel e realisticamente puntano (se non riescono a fare un centro-destra senza Berlusconi e senza elezioni) a un esito di ingovernabilità conseguente al premio di maggioranza al PdL alla Camera ma non al Senato, quindi a Casini come unico possibile mediatore. In tutti questi giri e raggiri Fini resta fuori gioco, magari candidandosi a futuro Presidente della Repubblica.

In parallelo a un dibattito in cui il Pd si sfarina, strattonato fra sollecitazioni esterne (Marchionne, centristi, camorristi, ecc.) di cui si fanno portavoce leader di corrente e battitori liberi, cresce il pressing, tutto esterno, di De Benedetti e del gruppo Repubblica-Espresso che ha già designato in Roberto Saviano il papa straniero che dovrebbe prendere in mano (e gestire per conto terzi) il corpaccione sfatto del partito. Operazione agevole in quanto la vuota retorica e lo spessore politico nullo di Saviano ne fanno un fantoccio perfetto per le ambizioni mediatiche e di potere dei burattinai. Operazione tuttavia perdente, malgrado il chiasso innocuo di Libertà&Giustizia e gli applausi di Vieni via con me e del Palasharp, nella misura in cui non riesce a comporsi anzi si scontra con i movimenti reali della società –vogliamo ricordare il flop sulle agitazioni studentesche e l’opacità sui referendum Fiat? Pare che gli esempi nord-africani non facciano scuola o si pensa di imitarli con i cordoni viola davanti ai cancelli di Arcore e i cortei delle donne perbene? Magari dissociandosi dalle manifestazioni non autorizzate manganellate dalla polizia. Anche qui abbiamo un regime di cuori, versione anime belle invece che carni libertine. Un astratto vendibile a un “popolo” generico e voyeur.

In ogni caso è sintomatico che la campagna di Repubblica si sganci tanto dalla linea filo-centrista di Bersani e rivali quanto dall’abortita operazione primarie-Vendola, testimoniando l’irrimediabile subalternità e vocazione alla sconfitta dell’area di “sinistra” –unico vero puntello all’agonica sopravvivenza berlusconiana cui, se la fortuna ci assiste, succederà un altro e più efficiente governo di centro-destra. È ora di uscire da una logica da vittime lagnose e giustizieri da ridere e passare alla ribellione. La paura e l’apatia si dissolvono con grande rapidità. Questa è la prima lezione dei tumulti nord-africani. La seconda, è che a volte si vince.

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