Se la vanno cercando

13 / 9 / 2010

Angelo Vassallo se l’è andato a cercare, quel brutto ammazzamento. Come se l’era andato a cercare anni fa l’avvocato Ambrosoli. Andreotti dixit. Un pescatore cilentano e un borghese milanese. Ma lo si potrebbe dire anche di Peppino Impastato e di tanti altri. Chi glielo ha fatto fare di mettere il naso nei poteri finanziari e mafiosi? A dire il vero, in una logica di belve stuzzicate (animali da circo, non predatori allo stato brado), si possono pure capire i Badalamenti e i Sindona, fa invece problema il cinico commento di Andreotti, il manager e domatore del serraglio, il cui incipiente Alzheimer non deve indurci a compassione. Anche perché i suoi allievi scorazzano la scena politica italiana, pretendendo con arroganza quell’impunità che i dirigenti della I Repubblica si procuravano con gesuitica riservatezza e tenendo conto, a guisa di compensazione, di qualche interesse nazionale o sociale. La deregulation ha cancellato il sistema di contrappesi e il declino della Stato-nazione ha reso desueto perfino l’interesse di classe complessivo della borghesia rispetto all’avidità dei singoli gruppi finanziari. E comunque è sempre la stessa razza quella degli Andreotti, Berlusconi, Verdini, Dell’Utri. Ieri con Provenzano, Sindona e Calvi, oggi con Balducci e Anemone, sempre con la finanza vaticana e gli affaristi ciellini. Loro non sono violenti, oddio qualche ammazzatina appaltata agli uomini di mano, qualche spoliazione di ingenui acquirenti di bond, c’est la vie. I violenti sono altri, quelli che fischiano i servi di Tremonti e di Marchionne, gli squadristi che hanno a che ridire sulla Gelmini e magari bloccano lo Stretto, che contestano le presentazioni dei diari- patacca mussoliniani e dell’autobiografia blairiana o si avvicinano troppo ai sensori dei robot di Melfi. Terroristi, racaille, mob. Con immancabili cattivi maestri fra le quinte.

Quel linciaggio perbenista, in cui si è distinto il Pd, può funzionare quando le pance sono piene e i pensieri distratti, floppa quando i posti di lavoro sono in bilico, i consumi si contraggono, per anni e anni un’occupazione che non sia precaria manco la si è sbirciata. E allora riemerge una “pericolosa” conflittualità o –detto in altri termini– stavolta sì che il ceto politico se la va cercando. E “andarsela a cercare” (diciamolo ai non romani) vuol dire esattamente quello che sembra a prima vista. Che si possono aspettare scendendo sul tappeto rosso Bonanni, Bondi o Brunetta, che accoglienza può sperare la Gelmini da quei teppisti di precari della scuola?

Non si tratta però di deprecazioni obbligate, del panico degli oppositori “democratici” di essere scambiati per oppositori veri: certi schiamazzi sono un sintomo preciso della sopravvenienza di qualcosa di imprevisto: non sono più le case al Colosseo o a Montecarlo o i patemi d’animo degli autori Mondadori, le cucine Scavolini e le pale eoliche sarde, è il sordo mormorio di un’Italia che si sta incazzando di brutto, che trascura le buone maniere quando non arriva a fine mese, che non va in orgasmo alla parola flessibilità. L’autunno caldo non passa solo per gli scioperi e la normale dialettica sindacale (sempre più bloccata da divisioni interne e ricatti occupazionali), ma soprattutto per forme incontrollabili di protesta. A newco, new voice. A deroghe padronali, deroghe nelle forme di lotta. A strappo, fumogeno, e così via. Mica è una soluzione, d’accordo, ma un buon inizio. Ce n’est qu’un début...E poi si videro i sorci verdi. Per una felice coincidenza, ogni proclamazione della fine della lotta di classe è seguita da una spiacevole ripresa della stessa. Con le immancabili condanne dello squadrismo rosso –beh, allora fu Habermas, oggi Brunetta e Ichino: quanto siamo caduti in basso, gente.

Paragonati a questi sussulti (oh certo, minoritari, discontinui, emotivi) che miseria la baruffa tra PdL e Fli, che pena il dibattito interno del Pd (primarie sì, primarie no, carenza del servizio d’ordine o passività della polizia, alleanza con Casini o con Fini, neo-Ulivo o neo-Unione?). Di Pietro o De Magistris? E per gli appassionati del carotaggio archeologico: D’Alema o Veltroni? Ripertichiamo Diliberto? E l’avveniristico Rizzo, allora? All’improvviso è entrata in scena la realtà, vitale e confusa, ma irriducibile alla ripetitività politichese. Vi scandalizzate della violenza? Ma non leggete il «Giornale» e «Libero»? E pensate che le Squadre verdiniane della Libertà e le ronde padane aiutino le vecchiette a traversare la strada? Dunque: sul piano della politica-spettacolo l’irruzione della materialità della protesta ha sparigliato le carte, ha funzionato molto meglio delle fiacche repliche politicamente corrette ai gestacci di Bossi e alle arringhe sempre più incoerenti del Papi. Quanto tenuto fuori-conto fa saltare il conteggio ordinario, il senza-parte mette a nudo il gioco delle parti. Però non illudiamoci: se è un primo passo di riequilibrio mediatico, un segnale delle tensioni profonde con cui ben presto tutti i contendenti in gara dovranno fare i conti, non è ancora l’ingresso in campo di un nuovo protagonista politico.

Spieghiamoci. L’incartamento della situazione italiana dipendeva, in assenza di una vera opposizione, dalla lacerazione del centro-destra al potere (al potere e non solo al governo) fra l’intronato Berlusconi e l’emergente ma debole Fini. La ruvida presenza della Lega offriva il principale sostegno al Premier. Un sostegno, però, tipo quello della corda all’impiccato. Berlusconi si è reso conto della situazione e, quando Bossi e Calderoli hanno cominciato ad armeggiare con la leva della botola, ha cercato di sfilarsi il cappio dal collo, disposto perfino a sopportare i finiani pur di non vedere Tremonti al suo posto, dopo una disastrosa tornata elettorale anticipata. Chissà se riuscirà a mantenere la calma e a far prevalere l’interesse oggettivo sull’odio per Fini, ma non è questo il problema. Dietro quelle maschere grottesche da commedia dell’arte –i voltafaccia giornalieri del Cavaliere, le frasi smozzicate del Senatur, le vacuità professorali del Commercialista di Sondrio, i pareri mai ascoltati dell’emiliano Balanzone– non c’è niente, o piuttosto c’è la crisi che in Italia irrompe nella forma di ristagno endemico del Pil, crollo della produzione industriale e dell’occupazione. E a poco serve la manipolazione dei docili dati Istat contro le previsioni Ocse (ah, i criteri internazionali di valutazione, sempre invocati nelle affabulazioni meritocratiche) o la miserabile ricerca di un sistema schiavistico di relazioni industriali. Wolfsburg è lontana, per salari e per vendite. Se le grandi strategie di controllo della crisi fanno acqua negli Usa e in Germania, in Italia non se ne parla nemmeno. Si galleggia, quando va bene, altrimenti si va sotto: -0,3% del Pil nel maledetto III trimestre. Aumentano solo i morti sul lavoro, meno male che la violenza burocratica della legge sulla sicurezza, la 626, è stata stigmatizzata da Tremonti. Un lusso e un impaccio.

A un nuovo protagonismo di sinistra (sbarazzato di tutta la squallida dirigenza parlamentare ed extra) occorreranno anni per elaborare una strategia –cioè un calcolo a partire da un ruolo sociale e politico consolidato– ma al momento servirebbe almeno una narrazione progettuale, qualcosa di intermedio fra un’efficace ribellione simbolica e una capacità operativa adeguata alla gravità della crisi italiana e alla prospettiva di un rilancio europeo. Una narrazione che strutturi uno spazio pubblico, che sostituisca quello asfittico delle faide fra giornali-partito o dell’opinione polarizzata fra Tg1 minzoliniano e giustizialismo annozero. In altre parti del mondo la costruzione di un racconto apre la strada alla controrivoluzione o, più modestamente, alla gestione reazionaria della crisi, vedi il Tea Party negli Stati Uniti, replica astiosa all’immaginazione imperial-riformista di Obama. Una dimostrazione per assurdo dell’efficacia di tale approccio.

Proviamo a citare qualche elemento aggregativo. Il reddito di cittadinanza contro la moltiplicazione di forme salariali e assistenziali che puntano ad abbassare la quota spettante al lavoro comunque dipendente sul Pil e a dividere la classe in segmenti per tipologia retributiva e fiscale. Il rovesciamento del meccanismo di formazione permanente, moltiplicazione degli stages e tenure track fasulla, senza accantonamento di posti, con cui viene massacrata una generazione di precari distruggendo nel contempo il sistema educativo nazionale e la ricerca. Una politica di investimenti contro l’ossessione (europea) del contenimento dei deficit statali: la difesa dell’occupazione, l’aumento dei salari, la convergenza fra istanze sindacali e movimenti sono precondizioni per un’embrionale strategia economica alternativa. La radicale presa di coscienza di come e quanto velocemente stia cambiando il contesto in cui ci muoviamo. Basti pensare che nel primo anno delle elementari abbiamo a oggi l’11% di bambini stranieri (all’80% nati in Italia), con proiezione al 17% nel 2015. E stiamo ancora a discutere sui tempi della cittadinanza, sul tetto del 30% agli scolari migranti, se fare i Cie-lager dentro i nostri confini o in Libia, come sgomberare i rom facendoli girare in tondo sul Gra romano o sul litorale adriatico... Il ritiro dall’Afghanistan, come richiesto da Emergency per motivi etici e di bilancio. Le battaglie sull’acqua e i beni comuni, sul clima, contro la violenza di genere (e quanto sta dietro).

Costruire un senso comune su questi e altri temi è il primo passo da compiere per andare oltre la sacrosanta indignazione che le proteste di questi giorni rivelano. Non ci siamo inventati niente che non sia già nella pratica dei movimenti, inclusa l’esigenza di una definizione organizzativa fuori da partiti, cespugli e illusioni confusive; solo che tutto si è ora fatto più urgente, configurando l’unica via d’uscita dalle sabbie mobili. L’unica legalità è quella di un drastico cambiamento.