‘Sta storia dei giardini e dei ricchi, fase ∞

Il terzo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

26 / 5 / 2020

Il terzo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

Da quanti anni avevo perso l’automatismo “cena a casa-accensione tv”? Non vivo più con i miei genitori dal 2011, ho cambiato tre case in cui la tv era spesso niente più di un monolite impolverato destinato a giacere su qualche mobile che sarebbe stato molto più utile se sgombrato dal tubo catodico. 

Con Fobio e Jacopo, i fragili e valorosi custodi della mia quarantena, abbiamo sostato innanzi al piccolo schermo un quantitativo di ore limitato, ma, appunto, per la prima volta da quando condividiamo queste quattro mura ci siamo ritrovati a commentare lungometraggi, ridere delle fiction melense, infuriarci contro il Mario Giordano di turno, ripassare i più efferati delitti d’Italia. Spesse volte ci siamo arenati in passiva contemplazione, complici l’ora tarda e qualche bagordo, altre volte le immagini e le prese di parola in cui ci si siamo imbattut* sono diventati trampolino di lancio per diffuse riflessioni sulla politica della colpa e del debito, sull’elicottero a gittata stercoraria che ha sorvolato i nostri cieli interiori e che sta riorganizzando materialmente lo sfruttamento delle nostre vite, sul piano produttivo e riproduttivo. 

Ci siamo scoperti particolarmente sensibili innanzi agli spot pubblicitari e alla loro capacità di modificarsi velocemente, fase dopo fase, in una temporalità estranea al nostro sentire: mentre il capitale annuncia migliorie progressive e invita alla ripartenza, della produzione e dei consumi, a noi la vita, la realtà quotidiana, ha già spoilerato il gran finale della serie, poiché tutto sta precipitando: i nostri piani di medio periodo per vivere con dignità, le nostre prospettive di realizzazione professionale per le quali abbiamo sputato sangue, il nostro sforzo quotidiano di sottrarci al ricatto di lavori sfruttati senza poi arrovellarci nel senso di colpa per non aver accettato le logiche dominanti del “meglio di niente”. 

Invidiamo i cani e i gatti delle pubblicità degli antipulci, mediamente inconsapevoli e liberi di giocare in giardini privati che sembrano praterie rasate di fino. Desideriamo dare fuoco a tutto ogni volta che il cane di un noto motore di ricerca per polizze assicurative invitava a restare a casa, perché “il divano è così comodo”: lo inviterei sul nostro, una specie di ex pancale di legno targato Ikea, dimenticato dalla padrona di casa, buono solo se l’intento è quello di resistere ai colpi di sonno, dato che non ci si addormenterebbe serenamente nemmeno un eremita stilobate, abituato a ben più ardue posizioni corporee. 

Odiamo con livore le belle case da pulire con i panni elettrostatici, quei bei parquet appena posati, lo yoga in saloni pieni di luce - ti alleni meglio con questo o quest’altro integratore tutto naturale! - e le macchine parcheggiate in ampi garage - parecchio più grandi e ristrutturati delle nostre stanze - le immaginiamo in fiamme, come lungo certe strade attraversate dai riot degli anni passati. 

Appena abbiamo l’occasione di guardare un talk show o un programma con ospiti in diretta, attendiamo l’apertura della finestra Skype o Zoom sulla casa del guest con inedito voyeurismo, facciamo scommesse sulla grandezza della libreria che vedremo alle sue spalle e se sarà un umile Billy o mobilio in legno massello, ci interroghiamo sulla scelta della location per parlare in pubblico dividendo drasticamente il mondo in “ricchi-privilegiati” e “intellighenzia-poser”. 

Ma è un attimo rimescolare il calderone e ricomporre anche questa frattura attorno all’amara constatazione che questa pandemia non farà altro che approfondire le disuguaglianze che percepiamo e alla paura che il mutamento sociale prodotto dal distanziamento disinneschi la nostra capacità di organizzarci per cambiare l’ordine delle cose. Una frustrazione in cui elementi pre-politici, che spero si possano accogliere e comprendere nella loro lacunosa sinteticità, e consolidati elementi ideologici, forgiati da studio e attivismo decennali, si esacerbano quando persone a noi vicine ci invitano a darci la proverbiale calmata. 

“ ‘Sta storia dei ricchi e dei giardini” è un segmento di un messaggio whatsapp che riassume molti degli appelli alla lucidità, a guardare il bicchiere mezzo pieno, a reinventare ciò che si è interrotto, che ho ricevuto in questi tre mesi. 

Il livello di buona/malafede insito in queste manifestazioni di vicinanza è variabile e facilmente interpretabile, se solo la mia mente non fosse troppo spesso irrigidita da quello che ormai è l’incipit di qualsiasi discorso: “vabbè, ma lei/lui è garantit*/ ha la casa gigante col giardino/ è mantenut* ancora dai suoi”. 

Che poi da che pulpito, come se prima dell’ultima crisi io stessa non abbiamo goduto di un welfare familiare che mi ha permesso di laurearmi e di sostenermi mentre attraversavo lavori poveri o gratuiti, mentre cedevo agli stage che fanno curriculum, mentre scoprivo un’Europa che mi sta in larga parte tradendo. Il giorno del mio compleanno, trascorso in quarantena, i miei compagni hanno registrato un mio scomposto delirio a tema “nessuno pensa mai agli ultimi! Che poi, io, mica sono una degli ultimi...”, ma quanto mi ci sento, quanto profondamente si insinua questa parziale falsa coscienza! Come professionista della musica dal vivo e come educatrice dell’intercultura, ho diritto di sentirmi un po’ come a educazione fisica alle superiori, quando, se non sei brava a pallavolo, vieni scelta per ultima nel momento in cui si fanno le squadre? 

In effetti ho un tetto, alcuni privilegi che corrono lungo la linea della razza, piccolissimi risparmi, degli affetti granitici... e tuttavia queste certezze non fanno grip, non fungono da ancora, al massimo, dopo un duro lavoro di recupero di lucidità, organizzano la resistenza. Non è poco, me ne rendo conto, ma non è sufficiente, non si addomestica il senso di colpa. I divani sono sfondati, i prati inesistenti, le case troppo spesso violente e asfittiche. Il futuro? Una trappola, come diceva una bella canzone dei Ministri. 

Ma ora sono con Emma, ha 18 mesi, smetto di scrivere ché si è svegliata. Mentre la cambio le faccio ascoltare Brian Eno, Lucio Dalla, Manu Chao, Clash, Alabama Shakes. Ha un'evidente anima soul, non come me, vecchia punk romanticona, che non le sussurra nessuna rassicurante parola, che non le dice “come andrà”, certa che lo capirà da sola. 

E magari lo “farà andare lei”, per noi, come una piccola Futura.