Tragicatori e precari

14 / 4 / 2011

Mario Deaglio ha dedicato qualche acuta riflessione, sulla «Stampa» del 10 aprile, alla protesta dei precari che si era svolta il giorno precedente. Con un approccio riformista illuminato (accontentiamoci, nella città di Fassino e Marchionne) constata che con la crisi economica la durata del precariato si è allungata e anche la sua natura è cambiata. I precari diventano lavoratori-cuscinetto che parano i colpi della crisi assorbendoli e forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Insomma –e questo fa problema anche per la Cgil, che pure e da sola rispetto agli altri sindacati ha appoggiato la protesta– i precari sono i primi ad essere licenziati (vedi Alitalia). Secondo i più recenti dati della Confartigianato, quasi un milione di lavoratori sotto i trentacinque anni (la tipica fascia di età dei precari) ha perso il lavoro nel 2009-2010, mentre è aumentato il numero degli occupati più anziani. La condizione di disagio del precariato si è allargata a categorie che una volta ne erano immuni: giovani medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, informatici, insegnanti. La riduzione di un terzo della capacità di risparmio delle famiglie italiane nel periodo 2002-2010 (dati Istat della settimana scorsa) è avvenuta proprio qui, così come gran parte della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane, nell’ultimo trimestre del 2010 inferiore del 5,5 per cento al livello pre-crisi. Di qui le solite domande se mai i precari avranno possibilità di metter su famiglia o di impostare un qualsiasi piano di vita. Notiamo con piacere che Deaglio omette di suggerire come soluzione lo sciagurato piano “liberale” Ichino-Montezemolo-Ferrara-Fini di un contratto unico a tempo indeterminato compensato dal licenziamento selvaggio per soppressione dell’art. 18 dello Statuto dei Diritti.

Continua l’articolista: «Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese «normale», composto prevalentemente di persone sopra i quarant’anni, e un Paese «precario», composto prevalentemente di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi; tra chi sta a casa quando ha il raffreddore perché il posto è comunque garantito e chi va a lavorare con la febbre perché altrimenti il posto è perso». E conclude con saggia profezia: «Si tratta di una frattura molto pericolosa che presenta una somiglianza di fondo con la frattura sociale alla base delle «rivoluzioni» in atto sulla Riva Sud del Mediterraneo, dove fasce sociali di basso reddito, prive di veri meccanismi di rappresentanza, sono state spinte, da un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari, alla rivolta contro élites molto anziane, da lungo tempo prive di ricambio politico. Siamo proprio sicuri di essere immuni da questo contagio?». L’Italia ha saltato una generazione, spingendo i giovani a un precariato perenne. Ma in tal modo diventa essa precaria, cresce stentatamente e viene marginalizzata a livello internazionale. Scritto un attimo prima degli schiaffi europei sulla politica migratoria. Chapeau!

Un rilievo va peraltro mosso a Deaglio: la drammatizzazione della spaccatura fra garantiti e non-garantiti, in stile Asor Rosa 1977, offusca due dati sociologici. Il primo è il fatto che la condizione non-garantita ha invaso quella presunta garantita (un tempo si diceva la società dei 2/3, sottostimando a un terzo quella a rischio), non solo le categorie immuni dei ceti medi declassati citate nell’articolo, ma gli stessi nuclei “stabili” di classe operaia, come hanno dimostrato le vicende Fiat (forse Deaglio ne ha sentito parlare), e in tendenza perfino la Pubblica Amministrazione, se Brunetta riuscirà a importare da noi il modello Cameron. Il blocco della mobilità ascensionale collegata agli studi conferma il carattere di strappo generazionale, per l’assommarsi di precarietà e sua imputazione demografica (3/4 dei nuovi assunti hanno contratti atipici), ma il ricatto di Marchionne agisce in senso precarizzante su una fascia d’età superiore, che confina insidiosamente con quella fascia over 50 dove l’uscita dal posto di lavoro comporta l’impossibilità quasi automatica di recuperarne uno equivalente. La frattura fra i due settori è piuttosto una frontiera assai permeabile verso il basso, è cioè facilissimo (tranne al momento per i dipendenti pubblici, ma in Inghilterra neppure per loro) scivolare nella disoccupazione secca o nell’inferno precario. Esemplare è la situazione dei metalmeccanici di Pomigliano, Melfi e Mirafiori (e nei prossimi giorni della Bertone), privati di contratto nazionale, sottoposti al pizzo marchionnesco e minacciati tanto di licenziamento individuale (di non riassunzione nella newco) quanto di disoccupazione tecnologica, in caso di trasferimento degli impianti produttivi in aree più “docili”. Parlare di “privilegiati” non avrebbe senso, anzi si configurano situazione espulsive tipiche, quali la cassa integrazione in deroga e il pre-pensionamento. Resterebbero i contributi maturati e qualche spicciolo a fare la differenza con i precari alla caccia del primo impiego. Ma con il carico di mantenere una famiglia già costituita e la salute compromessa da anni di lavori usuranti.

Quelli poi che si dilettano a contrapporre anziani e giovani, percettori di (in genere misere) pensioni e atipici che mai le vedranno, operai protetti dall’art. 18 e co.co.pro., mirano solo ad accelerare lo smantellamento delle garanzie esistenti e accentuare così la deregulation delmercato del lavoro laddove già impera la flessibilità selvaggia. Mettono zizzania fra i poveri –dopo che li hanno impoveriti e frammentati– con un miscuglio di notizie imprecise, speculazioni e proposte non finanziate. Personaggi del genere in linguaggio carcerario si chiamano “tragicatori” e non godono simpatia. Gli squilibri normativi e monetari esistenti riflettono una struttura retributiva e sociale distorta in cui la funzione dei dipendenti e pensionati “garantiti” (questi ultimi solo se hanno una favorevole proporzione fra anni migliori di regime retributivo e anni peggiori di contributivo) è essenzialmente quella di alloggiare e mantenere figli e nipoti con trasferimenti e integrazioni di reddito. La scomparsa fisiologica di quegli strati o l’anticipata espulsione dal lavoro spinge lentamente le successive generazioni precarie al di sotto dei livelli di sussistenza, rivelando la mostruosità autodistruttiva di un sistema di abbassamento sistematico dei salari erogati e differiti (servizi sociali presenti e pensioni future). La stessa proposta Rossi-Ichino-Montezemolo di un salario minimo garantito come ammortizzatore universale per i lavoratori licenziati copre soltanto l’area ex garantita ed elude i nuovi assunti atipici e gli inattivi (in maggioranza donne e meridionali) per cui caso mai servirebbero forme di allocazione universale o reddito di cittadinanza.

Dobbiamo renderci conto che l’affinità fra precariato ormai generalizzato e forza-lavoro migrante è più che una fraseologia retorica e solidarista. Il paradigma migrante (ricattabilità integrale sul posto di lavoro e sui diritti civili) è ormai dominante. Quanto è successo nella galassia Fiat è il perfetto equivalente del nesso esistente fra permesso di soggiorno e condotta lavorativa del migrante regolare: o mangi questa minestra o esci dalla finestra. Esci tu per espulsione, esce l’impresa per delocalizzare. Migrazione delle persone ed esodo dei capitali si incastrano perfettamente e questa è la ragione per cui, dentro una diversa composizione demografica in cui purtroppo i giovani rivoltosi in Europa sono molto meno che in Africa, i tumulti dilagano contagiosi su entrambe le sponde del Mediterraneo.

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