We want sex...

10 / 1 / 2011

...Equality, a striscione dispiegato. Ma non fa niente, va bene anche solo Sex, siamo nella Londra ruggente dei Rolling Stones, 1968, l’anno che dà ancora gli incubi a Gelmini e Sacconi, l’anno in cui uno sciopero delle 187 operaie del reparto selleria della Ford (modelli Escort, nome ancora non sputtanato dai festini bunga-bunga) si trasformò ben presto da richiesta di innalzamento delle qualifiche a rivendicazione della parità salariale fra i sessi. La dirigenza inglese e americana della Ford, colta di sorpresa all’inizio, si riorganizzò su una linea difensiva dura, minacciando (corsi e ricorsi vichiani!) di chiudere le fabbriche o delocalizzarle, insomma, alla Marchionne, di riportare il lavoro a Detroit. Per ottenere la resa, oltre ai ricatti conclamati, punta a dividere i lavoratori e a ottenere la sconfessione delle ostinate scioperanti mediante un referendum: toh! non a caso a Gian Battista Vico è intitolata la Fiat di Pomigliano. Un ruolo di primo piano svolgono i sindacalisti corrotti e ricattati a busta paga Fiat, pardon Ford, ma il problema è serio perché i dipendenti maschi al montaggio finale sono messi in libertà per il blocco della fornitura sedili e così in famiglia vengono a mancare in simultanea due salari, ma la lotta va avanti, le operaie suppliscono ai sindacalisti esperti inventandosi nuove forme di azione e di emozione, seducono i mass media e finiscono per trascinare i colleghi maschi e le altre fabbriche alla vittoria. Non mancano impreviste solidarietà fra donne di ceto diverso e in generale una mobilitazione sulla giustizia che è tipica di ogni lotta che investa la discriminazione e renda visibili e autonomi i subalterni: quello che allora fu battaglia per la parità salariale potrebbe configurarsi adesso come vertenza di fuoriuscita dalla precarietà, che fra l’altro ha riportato indietro la parità di sesso. Neppure è casuale che la contestazione delle disparità salariali si accompagnasse allora il rifiuto di un sistema educativo classista e repressivo –quanto assomiglia all’oggi! Già i conservatori inglesi avevano scoperto i lavori umili adatti ai ragazzi delle case popolari. Torneranno con Gelmini e Sacconi anche le bacchettate sul palmo della mano?

Chiunque abbia trascorso le sere prima dei cortei a dipingere striscioni e confezionare cartelli e scudi di cartone a libro si rivedrà nell’affaccendarsi di quelle donne, nei picchetti, nelle sfilate, nelle pratiche di autorganizzazione, nel sostituirsi ai rappresentanti autorizzati, nel rivolgersi sfrontato alle autorità, nel prendere la parola e dire l’inaudito senza il fardello di una tradizione o di un’ideologia. Tutti gli uomini del potere (qui fortemente sessuato, per lo specifico della trama, ma lo è sempre) escono fuori di testa perché non sanno come collocare queste scioperanti: non sono laburiste, non sono comuniste del CPGB o trotskiste del SWP, non sono tecnicamente delle femministe, hanno solo deciso di andare sino in fondo senza farsi condizionare da nessuno. Con la stessa tranquilla radicalità con cui hanno sfidato l’establishment e un colosso industriale o (impresa quotidiana ancor più difficile) placato le ansie dei mariti operai, fatti i salti mortali per la spesa, le rate, le bollette, portati i figli a scuola, quelle donne non esitano ad accettare l’invito di una ministra, Barbara Castle, che vuole ascoltare le loro ragioni e offrirà loro un’incoraggiante mediazione. Una storia che ci fa ronzare le orecchie. Con due piccole differenze: 1) che la delegazione quirinalizia di ricercatori e studenti del 22 dicembre non dovette cambiarsi d’abito (scena invece deliziosa nel film, con la trasversalità spettacolare del tempo e della posta in gioco, la sua chiave allo stesso tempo più epidermica e profonda), 2) che quell’inglese fu vera trattativa e nel giro di due anni adempì la rivendicazione paritaria, mentre quella italiana sta ancora a caro amico –comunque meglio di niente.

A 43 anni di distanza cosa si rammemora del 1968 inglese? I complotti dell’ M15 per rovesciare Harold Wilson e sostituirlo con lord Mountbatten? Oppure White Album e il viaggio in India dei Beatles, le grandi manifestazioni studentesche contro l’apartheid rhodesiano e l’intervento in Vietnam e, appunto, lo sciopero della Ford Dagenham, Essex? E cosa passerà alla storia di questo inverno italiano 2010-2011, il bisticcio Fini-Berlusconi, la compravendita di anime morte parlamentari, la «cena degli ossi» fra Tremonti, Bossi e Calderoli? Oppure si ricorderanno le lotte della Fiom, dei liceali, dei precari della conoscenza, i migranti sulle gru e i ricercatori sui tetti?

Si celebrerà, spera Sacconi a chiusura del ciclo iniziato con l’egualitarismo libertario del 1968, «la fine di un controllo sociale rigido sull'organizzazione del lavoro e della produzione», alfine sottoposta all’andamento del mercato, con la democrazia resa «sussidiaria» agli interessi delle parti sociali? Ossia alla «loro duttile capacità di adattarsi reciprocamente», secondo l’affettuoso invito del pescatore al verme: andiamo a pescare? Oppure si ricorderà quest’inverno come l’inizio di una rivolta sociale e politica, la prima del postfordismo come Dagenham e l’autunno caldo operaista suggellarono il fordismo? Stanno finendo i bei tempi in cui Maroni, Gheddafi e Ben Ali si illudevano di controllare i giovani disoccupati e la transumanza dei migranti. L’epoca delle rivolte è iniziata e le due sponde del Mediterraneo, come della Manica, sono scosse da facinorosi irriducibili: liceali della periferia romana, dell’Est End, di Thala, senza-parte delle banlieues e di Bab el Oued. Sarà duro domarli con un controllo sociale rigido di Stato e mercato sui corpi e sui desideri.

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