Chen torna all'ovile, Pechino esige scuse

3 / 5 / 2012

Furono necessari un anno di trattative segrete e l'intervento di Henry Kissinger, il diplomatico statunitense che Deng Xiaoping definì «un vecchio amico», prima che il 25 giugno 1990 l'astrofisico Fang Lizhi lasciasse l'ambasciata statunitense di Pechino - nella quale si era rifugiato subito dopo la repressione della rivolta di piazza Tiananmen - e assieme alla moglie fuggisse a bordo di un C-130. L'allora ambasciatore Usa nella Repubblica popolare, James Lilly, descrisse lo scienziato democratico come «un simbolo vivente del nostro scontro con la Cina sui diritti umani».
Ieri pomeriggio, quando Chen Guangcheng è uscito dalla rappresentanza diplomatica a stelle e strisce, erano passati solo sei giorni da quando l'attivista contro la politica del figlio unico aveva trovato riparo tra le braccia degli americani, alla vigilia del vertice bilaterale Cina-Stati uniti che si apre oggi a Pechino. E per Chen, si è raggiunto un compromesso ben diverso dalla permanenza «per cure mediche» negli Usa che fu accordata a Fang dopo che quest'ultimo, prima di scappare dalla Cina, fu costretto a «confessare» i propri «crimini».
Da giorni ormai tutti sapevano dov'era Chen, ma Cina e Stati uniti mantenevano il più stretto riserbo, per evitare di scivolare su una buccia di banana mentre il Partito comunista è alle prese con i postumi dell'epurazione di Bo Xilai e Obama con la campagna per le presidenziali di novembre.
Il colpo di scena è arrivato intorno alle 15: Chen ha lasciato la rappresentanza diplomatica Usa e - accompagnato dall'ambasciatore Gary Locke - si è recato nel vicino ospedale Chaoyang dove è stato sottoposto a check up medico e ha potuto riabbracciare la moglie e i suoi due figli. Secondo l'agenzia di Stato Xinhua, l'attivista per i diritti umani se n'è andato dalla sede americana «di sua spontanea volontà». Negli ultimi giorni sui weibo (il twitter cinese) si erano rincorse indiscrezioni secondo le quali Chen, evaso la settimana scorsa dagli arresti domiciliari a Dongshigu, il suo villaggio nella provincia dello Shandong, non intendeva chiedere asilo politico agli Usa, ma ottenere garanzie per la sua incolumità e quella dei propri cari. Ieri però alcuni suoi sostenitori hanno detto che Chen avrebbe infine rinunciato a chiedere asilo proprio per il timore di ritorsioni nei confronti della sua famiglia. Preoccupazioni che in tarda serata lo stesso Chen avrebbe confermato all'agenzia Ap.
Subito dopo che Chen era entrato nell'ambasciata, i suoi amici di ChinaAid (una ong cristiana con sede negli Usa) avevano messo su internet un video nel quale il quarantenne attivista denunciava i maltrattamenti subiti da lui e dalla sua famiglia e chiedeva al premier Wen Jiabao di punire i funzionari locali responsabili delle violenze oltre a protezione per sé e per i suoi cari. Ai domiciliari dal 2010, Chen aveva precedentemente scontato quattro anni di carcere per il suo attivismo contro la politica del figlio unico e gli aborti forzati.
Secondo le notizie fatte filtrare nel pomeriggio da funzionari statunitensi alle agenzie internazionali, all'avvocato autodidatta sarebbe stato garantito un domicilio sicuro per sé e i per i propri cari, oltre alla possibilità di frequentare quell'università le cui porte gli erano rimaste chiuse a causa delle discriminazioni subite da chi, come lui, è non vedente fin da bambino. L'avvocato di Chen, Li Jinsong, aveva fatto sapere che il suo assistito si sente finalmente un «cittadino libero», protetto dalle leggi nazionali.
Contemporaneamente alla notizia della svolta, era arrivata la reazione del governo di Pechino. «Ci teniamo a far notare che Chen Guangcheng, un cittadino cinese, è stato portato dagli Usa nell'ambasciata statunitense in maniera anomala e che la Cina è fortemente scontenta per questa mossa» aveva dichiarato il portavoce del ministero degli esteri Liu Weimin said. La Xinhua aveva però aggiunto che gli Stati Uniti «hanno promesso di prendere le misure necessarie a evitare il ripetersi di eventi simili».
Al di là delle proteste formali - come sottolineava ieri più di un blogger -, a Pechino premeva dimostrare che Chen ha lasciato «di sua volontà» l'ambasciata ed evitare l'imbarazzo di una frizione diplomatica con gli Usa nei giorni dello «Strategic and economic dialogue».
Anche l'Amministrazione Obama aveva bisogno di sbloccare quanto prima l'impasse, senza formalmente venir meno - nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali di novembre - al ruolo di difensore planetario dei diritti umani. Una situazione che ieri il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha spiegato così: l'uscita dall'ambasciata di Chen «rispecchia le sue scelte e i nostri valori» e comunque «il governo Usa e il popolo americano continueranno a sostenere Chen e la sua famiglia nei giorni, settimane e anni a venire».
Sempre che Chen non sveli che le cose non sono andate esattamente così.