Tutto nasce da Wukan, il villaggio del Guangdong dove nei mesi scorsi l’intera comunità ha lottato e vinto contro la sacra alleanza di funzionari locali e palazzinari che volevano espropriarla dei terreni. Una storia simile a mille altre, in un Paese dove gli “incidenti” – rivolte, jacquerie, repressione e vittime – sono ormai quasi 100mila ogni anno. Ma a Wukan, la popolazione è riuscita a scongiurare la repressione dura e pura, dimostrando che la propria lotta non intendeva destabilizzare il Paese, attaccare il partito o la struttura fondamentale dello Stato. Era una protesta radicale, irriducibile, ma non “politica”, bensì molto pratica.
“Gli appelli degli abitanti del villaggio di Wukan nascono dalla preoccupazione per il proprio sostentamento, non da qualche forma di astio contro il partito o il sistema politico cinese”, scrive Ou Ning – poliedrico “lavoratore della cultura” (come ama definirsi) basato a Pechino ma originario di un piccolo villaggio proprio del Guangdong – in un articolo che vede nel caso Wukan una pietra miliare: qui, infatti, si assiste secondo lui all’ingresso sulla scena di nuovi, inediti, protagonisti e alla dimostrazione che l’autogoverno delle comunità rurali non è necessariamente sinonimo di caos.
Abbiamo già incontrato e intervistato Ou, per Inside Beijing,
un progetto di E il Mensile sulla capitale cinese. Ma oggi la sua mente
sembra lontana dalla metropoli: vaga nelle campagne, che da un po’ di
tempo sono tornate al centro della sua riflessione politica, prima
ancora che culturale.
“Spero che più gente lasci la città per
tornare in campagna, in modo che si crei un rapporto più intimo tra
queste due realtà”, ci confessa.
Per lui, a Wukan, è stata
vincente la compresenza nella lotta di giovani migranti, tornati al
villaggio dopo l’esperienza in città, e di un vecchio quadro di partito
con trascorsi da businessman.
“Hanno formato un gruppo chiamato ‘Il
Corpo dei Giovani dal Sangue Caldo di Wukan’ – scrive Ou nel suo
articolo – hanno discusso la natura abusiva delle requisizioni di
terreni, hanno lamentato il fatto che la commissione del villaggio non
aveva tenuto elezioni da quarantuno anni, si sono scagliati contro la
mancanza di trasparenza negli affari di governo e della finanza
pubblica, e hanno organizzato una petizione alle autorità superiori per
indirizzare le proprie rimostranze. Quando il confitto è esploso, sono
tornati a casa uno dopo l’altro e sono diventati il nucleo propulsivo
delle proteste. Hanno registrato account sui social media per fornire
notizie aggiornate di quanto stava accadendo in Wukan. Hanno fatto video
e li hanno diffusi online su ampia scala. Hanno parlato ai giornalisti
locali e internazionali. Quando il paese era sotto assedio, hanno anche
organizzato spontaneamente una squadra di guardie di sicurezza per
mantenere l’ordine. Questi rimpatriati erano già profondamente legati
alla loro terra natale, ma le conoscenze e le competenze che avevano
acquisito lontano da casa sono state ciò che ha dato coordinamento e
potenza alle proteste. Hanno fatto di Wukan un modello per
l’organizzazione dei movimenti sociali a livello di villaggio”.
Quanto all’altra componente: “L’uomo eletto capovillaggio è lo stimato e fidato leader delle proteste Lin Zuluan. Lin, 65 anni, membro del Partito comunista ed ex soldato, aveva servito come funzionario a Wukan e nella vicina cittadina di Donghai prima di lasciare la burocrazia per entrare negli affari. Per molti versi assomiglia a un membro della piccola nobiltà rurale tradizionale. La sua appartenenza al partito e gli anni trascorsi come funzionario hanno garantito che sapesse come aggirare il sistema politico cinese. Anche se è da tempo tornato a casa per andare in pensione, ha sempre mantenuto una sorta di legame emotivo con il regime. Gli anni nel business gli hanno dato una rete di relazioni sociali che hanno permesso che la sua visione del mondo non diventasse stantia. Queste sono le qualità che oggi, nelle campagne cinesi, tendono a conferire autorità e dare un sostegno popolare, e che hanno permesso a Lin di dare razionalità alle proteste e di fare le cose per bene. La partecipazione di Lin ha dimostrato il ruolo enorme che figure assimilabili alla gentry possono avere nel garantire il successo dei tentativi di autogoverno delle campagne”.
È un’alleanza nuova
che si contrappone a quella di palazzinari e funzionari corrotti, che ha
devastato le campagne per farle diventare un’immensa periferia urbana.
Con il risultato che i problemi sono poi rimbalzati nelle stesse città a
causa dell’inevitabile migrazione.
“Ho fatto ricerche sulla città –
dice Ou a “E” – poi ho capito che città e campagna sono due facce della
stessa medaglia. Ad esempio c’è il problema della terra che si riduce
sempre più per fare posto alle nuove costruzioni. Allora i giovani
vengono in città alla ricerca di reddito, ma sono in condizioni
difficili , disprezzati, e allora si creano problemi anche in città”.
Dopo anni in cui si è riflettuto soprattutto sulle metropoli, le campagne tornano quindi al centro della scena.
Per Ou Ning questa è una vera e propria rivoluzione dal basso in cui
molto concretamente sono gli interessi immediati – teoricamente
riconosciuti e tutelati dalle stesse leggi cinesi– a fare da leva per
una mobilitazione che sfugge anche al controllo dispiegato
“tradizionalmente” (ne caso di Wukan, l’assedio al villaggio da parte
delle forze di sicurezza).
E nel momento in cui il villaggio chiede
nuove elezioni per fare piazza pulita dei funzionari corrotti –
ottenendole ed eleggendo il signor Lin – l’impolitico si fa politico.
Come andare oltre Wukan? Si tratta di riprodurre le condizioni di questa rivoluzione pacifica che, nelle parole di Ou “può essere una tempesta di idee, piuttosto che una chiamata alle armi. La rivoluzione non deve essere necessariamente la sepoltura di un sistema; ma può significare il suo rinnovamento. La rivoluzione non deve necessariamente significare caos, ma può anche significare ordine”.
Nella provincia
dell’Anhui, un tempo una delle più povere della Cina, Ou sta cercando di
riprodurre per certi versi l’esperienza di Wukan, favorendo un ritorno
alla terra di conoscenze e competenze: “Ho preso una vecchia casa – dice
– dove vorrei abitare almeno per un po’. Ho avviato una ricerca storica
sui problemi di quella terra da un centinaio di anni a questa parte”.
In una provincia di quella Cina che spesso rimuove il proprio passato,
lui ha costruito un database di tutte le tradizionali competenze locali:
la produzione alimentare, di tessuti, l’arredamento d’interni,
l’architettura e la carpenteria. Ha rintracciato le persone che ancora
le possiedono. La sua idea è quella di partire da qui per creare una
base economica per i paesi, aiutandoli a realizzare quei prodotti che il
nuovo ceto medio urbanizzato vorrebbe acquistare. Ed è qui che entrano
in gioco i suoi amici “cittadini”, quelli con cui lui ha lavorato negli
ultimi 20 anni: artisti, scrittori, designer e architetti. Coloro che
conoscono la città, possono aiutare i contadini a conquistarla. Possono
ristabilire un ponte “armonico” tra le due civiltà.
“Vorrei fare un esperimento che va al di là di una semplice comune di artisti: trasferire lavoro da Pechino alla campagna in modo che più gente possa ritornare alla terra. Già lo fanno molti giovani, e qualche volta anche gli intellettuali. Io vorrei coinvolgere queste due componenti nel mio esperimento dell’Anhui”.
Un ritorno alla terra in cui gli intellettuali, come in tutte le rivoluzioni, giochino un ruolo fondamentale. Il recupero della storia non fine a se stesso, ma per produrre l’innovazione – anche politica – di cui il suo Paese ha così bisogno. Perché “se tutto è urbanizzato, diventa insipido, tutto uguale, e non c’è diversità”.