I forzati della crescita, lo sviluppo sostenibile e Rio +20

28 / 2 / 2012

Spesso la nomenclatura economica è data per scontata: parole come "crescita", "innovazione" "competitività", "sviluppo sostenibile" occupano la centralità della nostra costellazione semantica.  Non c'è politico, manager, amministratore pubblico che non ne faccia uso in maniera assillante, come se dietro questi nomi ci fosse la soluzione magica di tutti i problemi.  Tuttavia sarebbe opportuno riflettere cosa si nasconde dietro tali termini la cui ambiguità può evidenziare brutte sorprese. Negli anni 80 del secolo scorso, si faceva strada la necessità di porre un argine agli sconvolgimenti ambientali provocati da una crescita economica indifferenziata, per questo fu coniato il concetto di sviluppo sostenibile, contenuto nel rapporto Our Common Futur del 1987, redatto dalla World Commission on Environment and Development, nota come Commissione Brutnland.  

Ciò nonostante, nello stesso periodo storico la macchina del finanzcapitalismo ha raggiunto la sua apoteosi asservendo a se gli strumenti basilari dell'economia classica tradizionalmente legati alla "produzione di valore", in altre parole la produzione di merci e servizi, in cambio di rendite e profitti. Come scrive Luciano Gallino nella sua ultima opera "un simile successo non è dovuto a un'economia che con le sue innovazioni ha travolto la politica, bensì a una politica che ha identificato i propri fini con quelli dell'economia finanziaria, adoperandosi con ogni mezzo per favorire la sua ascesa. In tal modo la politica ha abdicato al proprio compito storico di incivilire, attraverso il governo dell'economia e la convivenza umana. Ma non si è limitata a questo. Ha contribuito a trasformare il "finanzcapitalismo" nel sistema politico dominante a livello mondiale, capace di unificare le civiltà preesistenti in una sola civiltà-mondo, al tempo stesso, di svuotare di sostanza e di senso il processo democratico". Tale ipertrofia dei sistemi finanziari ha avuto il suo epilogo con l'esplosione della bolla immobiliare nel 2007, propiziata dalla crisi dei mutui sub prime, il successivo contagio ai paesi dell'Unione Europea e il conseguente avvitamento della crisi stessa. Gli effetti dirompenti sulle banche commerciali è stato dirompente e, a catena, sono stati coinvolti i risparmiatori, le medie e piccole imprese, e persino i debiti sovrani. A dire il vero, tale crisi ha messo in luce gli effetti devastanti della deregulation dell'economia e dei mercati degli ultimi venti anni. Se questo è il quadro della nostra storia più recente... altro che sviluppo sostenibile!

Ignazio Licata, Direttore scientifico dell'Institut for Scientific Methodology nella sua ultima pubblicazione dedicata alla cultura della complessità, scrive di "una spirale ipertroficamente competitiva e unidimensionalmente moneto-centrica - che - ha ridotto l'economia da ‘scienza dei desideri umani' ... a uno stato esiziale, con l'espulsione progressiva della sostenibilità e dei valori di reciprocità". 

Affermazioni, queste, molto dure che accendono una profonda riflessione sulle improbabili vie di uscita da una economia e una finanza che stanno scardinando il rapporto dell'uomo con la natura e le sue risorse, che stanno annichilendo i principi basilari della convivenza civile, entro gli Stati tra gli Stati. A ragion veduta Gallino usa il termine di "estrazione di valore", quale principale attività del finanzcapitalismo il cui intento è "massimizzare e accumulare - denaro con denaro - sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi - abbracciando - ogni momento e aspetto dell'esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all'estinzione". Negli ultimi venti anni, l'obiettivo delle imprese si è focalizzato sulla massimizzazione del valore per gli azionisti a breve termine, molte grandi aziende hanno deviato il loro business verso il settore della finanza, propiziando il fallimento di molte imprese virtuose; hanno favorito incrementi esorbitanti dei salari dei grandi manager i cui valori di retribuzione raggiungono 400 volte i salari medi - negli anni 50 del secolo scorso il loro valore oscillava tra 20-40 volte il salario medio. Tale perverso sistema ha favorito l'arricchimento dell'1% della popolazione americana, dove circa tre milioni di persone hanno accumulato una ricchezza superiore al doppio del restante 80% della popolazione; inoltre, con la globalizzazione dei mercati molte aziende esternalizzano i costi di produzione con drammatiche ripercussioni sull'occupazione. 

I cosiddetti investitori istituzionali, tra cui le compagnie di assicurazione, i fondi pensione, i fondi comuni d'investimento, i fondi comuni speculativi, controllano le borse di tutto il mondo e sono divenute le maggiori potenze economiche; essi gestiscono sessanta trilioni di dollari, in altre parole l'equivalente del PIL mondiale e influenzano le sorti delle imprese e dei bilanci degli Stati.

Herman Daly, fondatore dell'economia ecologica, da parte sua, sostiene che "il tumulto che sta affliggendo l'economia mondiale ... non è una crisi di ‘liquidità' come spesso viene chiamata. Una crisi di liquidità indicherebbe che l'economia è nei guai perché le imprese non possono più ottenere crediti e prestiti per finanziare i loro investimenti. In realtà, la crisi è il risultato della crescita eccessiva delle risorse finanziarie rispetto alla crescita della ricchezza reale - in pratica l'opposto della scarsa liquidità". L'economista aggiunge che bisognerebbe fare un passo indietro rispetto ai colleghi e commentatori ossessionati dalla crescita. Ricordo che fu proprio Erman Daly a ricondurre lo sviluppo sostenibile a tre condizioni generali circa l'uso delle risorse naturali da parte dell'uomo; in altre parole il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; l'immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell'ambiente non deve superare la capacità di carico dell'ambiente stesso; lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.

Orbene, dal 20 al 22 giugno prossimo si terrà il summit mondiale Rio+20, promosso dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove i governi di tutto il mondo si riuniranno, a distanza di 20 anni dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992. All'epoca furono sanciti ventisette principi riguardo il progresso dello sviluppo sostenibile,  facendo perno su un uso oculato delle risorse naturali, sulla limitazione dei rifiuti prodotti e sul contenimento  capitale costruito dall'uomo a scapito della biodiversità e del paesaggio. 

Tali obiettivi furono verificati dieci anni dopo a Johannesburg, dove si dovette costatare che i risultati realizzati erano molto lontani dalle attese: gli aiuti allo sviluppo invece di crescere si erano ridotti, passando dallo 0,32% allo 0,22% del Pil dei paesi ricchi; la diminuzione dei gas serra risultava molto inferiore a quanto ci si era prefissato e alcuni paesi firmatari della Convenzione del 1992 avevano persino aumentato le proprie emissioni; in dieci anni, tra il 1990  e 2000, in America Latina è stata distrutta una superficie forestale pari al doppio della regione Lombardia (45.878 kmq). 

Altri summit mondiali hanno polarizzato l'attenzione di esperti e degli Stati, tra questi il noto protocollo di Kyoto, sottoscritto nel 1997, entrato in vigore nel 2005, il successivo vertice di Cancun del 2010 e la più recente conferenza di Durban. Purtroppo si è dovuto accertare che le emissioni mondiali di CO2 sono cresciute del 45% in venti anni e rispetto all'era preindustriale la C02 atmosferica è cresciuta di circa il 40%.  

Per quanto riguarda il summit Rio+20, i temi principali su cui si concentrerà riguardano la transizione verso la Green Economy e una nuova Governance istituzionale per l'attuazione di sviluppo sostenibile. Il Parlamento Europeo, fra l'altro, ritiene la Conferenza un'opportunità unica per i leader mondiali di definire l'agenda della sostenibilità per i prossimi dieci anni, per questo ha manifestato la necessità che il vertice si traduca in azioni concrete e obiettivi quantificabili, non solo in dichiarazioni di buona volontà.

Nella prefazione al volume "Futuro sostenibile" pubblicato nel 1997 dal Wuppertal Institut si afferma che "il termine sviluppo sostenibile è diventato una sorta di collante utilizzato per tenere insieme interessi contrapposti e mischiato a ogni genere di strategie commerciali". Al di la delle buone dichiarazioni di principio, considerati i precedenti vertici e la disparità nelle forze in campo, non c'è molto da sperare circa i risultati che potranno derivare dal prossimo vertice Rio+20; la posta in gioco è troppo elevata e gli interessi contrapposti a un futuro, di riconciliazione con la natura, di equità e solidarietà sociale, sono ancora molto ben annidati nell'establishment della politica.

Aldo Di Benedetto, già Direttore Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise

Tratto da: