I libici sono soli

10 / 3 / 2011

In questi giorni mi domando con crescente angoscia: perché sinistre, movimenti, sindacati, centri sociali, pacifisti e società civile variamente attiva sembrano più che altro indifferenti a quel che sta avvenendo in Libia? Nel paese nostro dirimpettaio, sul Mediterraneo, un dittatore al potere da più di quaranta anni sta macellando il suo popolo e qui nessuno o quasi sembra turbato.

Non dico convocare una manifestazione di sostegno ai rivoluzionari libici (così loro chiedono di essere chiamati, proprio come i tunisini e gli egiziani) e per fermare il massacro, ma un appello, una indignazione diffusa, articoli di fuoco su giornali e siti di sinistra o dei vari movimenti. Io stesso ho partecipato al primo sit in davanti all’ambasciata di Gheddafi a Roma, intorno al 20 di febbraio: c’era qualche libico che vive qui, qualcuno dei centri sociali, di Rifondazione e della Fiom. Una parte del discorso di Nichi Vendola, nel meeting di qualche domenica fa, era dedicata alla ribellione e al dittatore libico, citato come tale. Poi, quasi più nulla. E quando, domenica 6 marzo, nel Tg3 serale, ho visto Walter Veltroni invocare un mobilitazione a favore del popolo libico, per la prima volta in molti anni ho pensato «ha ragione».

Frequento, un po’ per professione e un po’ per vizio, molti «mezzi di comunicazione» di sinistra o di movimenti vari, e sono stupefatto della sostanziale assenza di reazione. Certo, il manifesto pubblica ogni giorno reportage e commenti, ha anche un inviato (sebbene «embedded» come lui stesso si definisce) a Tripoli. Ma il giornale che sta a cuore a tutti noi e che continua a influenzare l’opinione di sinistra, o almeno a rappresentarne una parte rilevante, sembra finito in una «no fly zone», in una terra morta tra la rievocazione un po’ disperata di quel che fu, ossia delle rivoluzioni militar-progressiste e socialiste nei paesi arabi, e l’allarme per il possibile intervento militare degli occidentali e degli Stati uniti. La vecchia logica per la quale chi è amico del mio nemico è mio nemico sembra irresistibile.

Nel sito di «Mémoires des luttes», la rivista francese che fa capo a Ignacio Ramonet e a Bernard Cassen, che non si può dire non guardino con simpatia ai governi «progressisti» latinoamericani, e a quello di Chavez in particolare, si può trovare un articolo di Bernard Perrin, pubblicato in origine sul sito del quotidiano indipendente svizzero Le Courrier, che giudica uno «stupefacente e inquietante parallelismo» quello tra l’inquietudine di molti governi europei di fronte alla possibilità che Gheddafi venga rovesciato dal suo popolo, e la paura, che si è impadronita dei governi di sinistra dell’America latina, di veder cadere «un compagno rivoluzionario». Infatti, aggiungo io, Chavez ha proposto una mediazione che è piaciuta solo a uno degli agenti in gioco: Gheddafi. Ma anche il governo del boliviano Evo Morales non scherza. Quel che vedono, questi governanti, è solo il tentativo occidentale di accaparrarsi il petrolio libico.

«Finché la sinistra disprezzerà la questione del rispetto dei diritti dell’uomo, considererà che la realpolitik possa giustificare tutto e confonderà la lotta anti-imperialista con la lotta a morte delle élites burocratiche – scrive Perrin citando Hervé do Alto, politologo francese legato all’edizione boliviana di Le Monde diplomatique – non ci potremo aspettare niente di buono da essa». E, sempre citato da Perrin, aggiunge Raul Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano: «Bisogna guardare l’orrore in faccia: talvolta la sinistra non ha voluto vedere né sentire né capire le sofferenze della gente in basso, sacrificata sull’altare della rivoluzione. Ma questa volta non potremo dire che non sapevamo».

Sconcertato dall’atteggiamento del manifesto, sono andato allora a vedere cosa ne scrive Liberazione, il quotidiano di Rifondazione. Nel cui sito si trovano poche e scarne notizie, quasi tutte di carattere diplomatico-internazionale. Potrei sbagliare – non vedo con continuità il giornale diretto da Dino Greco – ma se avessero promosso un appello, una chiamata alla solidarietà con i libici, questo sul sito ci sarebbe certamente.

E allora Global Project, il sito dei centri sociali del nord est: molto ben fatto e pronto a reagire, in genere. Ci trovo solo un articolo, scritto da Giampaolo Calchi Novati per il manifesto, in cui si parla di «impropria alleanza tra giovani ed eserciti», in Tunisia ed Egitto, e ci si preoccupa soprattutto – di nuovo – che gli Stati uniti possano mettere le mani sul petrolio libico. Degli insorti, i ragazzi, gli artigiani, le persone comuni che si stanno difendendo dai mercenari e dai fedeli di Gheddafi, nemmeno una parola. Ma nel sito di Global si trovano anche testi e discorsi video di un seminario in più puntate sul «tumulto», sulla rivolta cioè, che si tiene a Roma. Datato 28 febbraio, c’è un testo di Alberto Do, per altri versi interessante, in cui si parla diffusamente di Tunisia ed Egitto: sulla Libia nemmeno una parola, benché la rivolta sia iniziata il 17 febbraio.

La mia impressione è che la rivoluzione dipende. Se le vie di Tunisi o Piazza Tahrir al Cairo si riempiono di gente che vuole abbattere tiranni esplicitamente amici dell’Occidente, come Ben Ali e Mubarak, allora si inneggia alla ribellione (e Valentino Parlato, per stabilire la differenza tra un dittatore e un altro, scrive che l’«amicizia» tra Gheddafi e Berlusconi è stata «un errore» del dittatore libico); se invece il tiranno è percepito come un avversario degli occidentali, allora la ribellione diventa dubbia. E siccome a tutte le evidenze dubbia non è, anzi è autenticamente popolare, come testimoniano tutti i giornalisti che hanno potuto incontrarne i protagonisti, e sicuramente non è una manovra di Al Qaeda (come strilla il tragico clown di Tripoli), e non è neppure una longa manus dell’imperialismo statunitense, allora i ribelli di Bengasi e compagni cadono in un limbo: non si può sostenerli né parlarne male, quindi si preferisce evitare il tema e ci si rifugia in considerazioni geopolitiche, geostrategiche, geoqualcosaltro. Come dice Zibechi, le sofferenze della gente reale spariscono. E d’altra parte i libici resistono con le armi – quelle che hanno recuperato grazie alle diserzioni nell’esercito – quindi anche i pacifisti, evidentemente, non provano simpatia, anche se la non violenza non consiste semplicemente nel lasciarsi fucilare dai tiranni.

E sì che le rivoluzioni arabe, non solo del Maghreb ma della penisola arabica e dell’Iraq, avrebbero molto da insegnarci. Ignacio Ramonet ha indicato quelle che secondo lui sono le diverse cause di una esplosione imprevista e intimamente democratica. Ci sono cause storiche, scrive Ramonet, ossia la degenerazione di regimi nati come «laici» o addirittura «socialisti» (quello algerino, ad esempio). Ci sono cause politiche, come il fatto che le dittature sono state sostenute dall’occidente in nome della lotta al «terrorismo islamico» e della diga all’invasione di migranti (come Gheddafi, che faceva il lavoro sporco per l’Italia e ora agita la minaccia una «invasione»). C’è la crisi economica globale, che lì colpisce più che altrove. C’è – a sorpresa, per una visione di sinistra – una causa ambientale: la siccità provocata dalla crisi climatica che due anni fa ha ridotto di un terzo la produzione di grano in Russia, la conseguente chiusura delle esportazioni e l’impennata del prezzo degli alimenti di base sui mercati internazionali, che – avverte in questi giorni anche la Fao – sta scuotendo tutte le società del Sud del mondo. E c’è, infine, una causa sociale: il contrasto durissimo tra livelli di scolarizzazione molto alti e livelli di occupazione bassissimi e di bassa qualità, in paesi molto giovani.

Di questo varrebbe la pena discutere. Guardando a quel che succede dall’altra parte del Mediterraneo come a una speranza. Le finte democrazie egiziana e tunisina (e noi italiani di finta democrazia ne abbiamo in abbondanza) non avrebbero consentito cambi sostanziali del modo di vita e della partecipazione democratica. Non parliamo della dittatura «verde» di Gheddafi. Quindi quelle società sono esplose. Hanno mostrato come si possa – in modo pacifico, fin quando non si incontra un tiranno omicida – cambiare le cose. Perciò dovremmo in ogni modo possibile sostenere le persone che l’aviazione di Gheddafi bombarda e i suoi sicari ammazzano per le strade. Perciò mi chiedo, io che insieme a tanti altri reggevo lo striscione della manifestazione contro la guerra in Iraq, il 13 febbraio del 2003, dietro al quale si erano radunate tre milioni di persone, che fine abbia fatto quella aspirazione alla pace e alla democrazia. Per tutti. Libici compresi.