“La guerra contro le donne, un’emergenza globale”

Nell'ambito del Internazionale Festival a Ferrara abbiamo partecipato a incontri e dibattiti intervistato l'attivista egiziana Mona Eltahawy

8 / 10 / 2013

Si è svolta in quest’ultimo fine settimana la rassegna di incontri ed eventi che ha avuto luogo a Ferrara dal 4 al 6 ottobre: è stata la settima edizione dell’atteso Festival dell’Internazionale, una kermesse immersa nel cuore della deliziosa cittadina emiliana, che ha spinto centinaia e centinaia di persone a brulicare per le vie del centro e a disporsi pazientemente e ripetutamente in coda per seguire il calendario anche quest’anno ricco di appuntamenti, con i suoi 198 ospiti provenienti da 30 paesi del mondo.

La cornice tematica sono stati i Diritti Umani e i temi più caldi d’attualità, snocciolati però su aree diverse di approfondimento, rivolte ad esempio all’emergenza del fenomeno migratorio, oppure alle politiche europee, alla libertà di stampa e d’informazione, al futuro dei media, alle battaglie delle donne, alla crisi economica, all’ambiente, alla democrazia, alla scuola, alla cultura, alla guerra.

Anche noi siamo andate a imparare, in questo piccolo spaccato del globo, in questo concentrato multiculturale in fermento, cercando di addentrarci nel vivo dell’evento fin dal primo giorno.

Rispetto alla gran quantità di informazioni e contatti raccolti, abbiamo poi selezionato il materiale più interessante per condividerlo.

Riportiamo qui di seguito le parti salienti del dibattito moderato da Riccardo Iacona, tenutosi il 4 ottobre nel Teatro Comunale, “La guerra contro le donne, un’emergenza globale”.

Ospiti dell’incontro: Chouchou Namegabe, giornalista radiofonica congolese e coordinatrice dell’Association des femmes des médias du Sud Kivu., insignita, durante l’inaugurazione del Festival, del premio Anna Politkovskaja, a riconoscimento del valore delle sue audaci inchieste e del suo impegno sociale; Urvashi Butalia, attivista indiana nel movimento per i diritti delle donne, autrice di libri pluripremiati, direttrice e fondatrice della prima casa editrice femminista in India “Kali for Women”; Rebecca Solnit, attivista e scrittrice statunitense, conosciuta per le sue battaglie contro la violenza sulle donne; Mona Eltahawy, giornalista indipendente e attivista egiziana in difesa della dignità delle donne arabe, nota per avuto il coraggio di denunciare la sua storia personale di aggressioni subite in carcere.

Il confronto tra esperienze geograficamente distanti, ha posto inequivocabilmente in luce come il fenomeno della violenza sulle donne sia trasversale, pur assumendo sfaccettature differenti in base al contesto storico, culturale e politico dei territori. La cruda verità di un mondo pervaso ancora dall’ingiustizia sociale e da sistemi patriarcali obsoleti, in cui atrocità e vessazioni vengono compiute da sempre e in maniera ubiquitaria (con poche eccezioni spazio-temporali) su una categoria di genere, quello femminile, non debole, ma reso vulnerabile dalla costante e storica lesione dei diritti dei soggetti che vi appartengono e dalla crisi globale che acuisce i fenomeni di sopraffazione e di riduzione della libertà, è stata qui illustrata attraverso le narrazioni di quanto accade nei diversi paesi d’origine delle ospiti del dibattito. E’ questo il filo che unisce le protagoniste dell’incontro e ciò che esse rappresentano: un problema comune e un comune tentativo di risoluzione di questo problema, per mezzo delle loro tenaci lotte e delle loro denunce, dello sforzo di infrangere i tabù e di sovvertire lo sguardo ed i rapporti di forza di un conflitto incredibilmente persistente.

Dall’America dell’emancipazione femminile e della libertà, all’India messa sotto i riflettori mondiali per il caso della studentessa ventitreenne morta a seguito delle violenze di branco subite su un bus di New Delhi, il 16 dicembre 2012, al Congo logorato da una guerra che ha fatto saltare ogni rispetto per la dignità umana, all’Egitto attraversato dalla rivoluzione contro Mubarak e dalla voglia di cambiamento che ha visto le donne come protagoniste in piazza, scorre la medesima drammatica realtà della disuguaglianza e del pericolo di sistemi culturali che specularmente si riflettono nelle legislazioni, negli abusi di potere, e nelle atrocità con cui ogni giorno e con frequenza sconcertante le donne di ogni luogo sono costrette a convivere.

Tutte e quattro erano concordi che non sia più possibile mantenere inalterato questo stato attuale di emergenza sociale arrivato al limite, che sia necessario un cambiamento radicale, che coinvolga sia le donne che gli uomini, che tutti e tutte debbano sentire l’urgenza di un’educazione diversa perché la violenza è un fattore culturale che viene legittimato dall’ambiente, non dalla natura o dalla biologia. Tant’è che, come ci ha raccontato Chouchou Namegabe, la guerra è in grado di rendere ammissibile l’inammissibile: i militari sono arrivati a stuprare in ambiti pubblici le donne, davanti agli occhi dei bambini, i combattenti son soliti lasciarsi andare ai più bassi istinti che di umano non hanno più nulla, e così anche la società civile sente di poter valicare ogni confine. Le donne vengono portate nei boschi, legate a degli alberi, costrette a mangiare le carni dei bambini uccisi.

Queste sono le verità-tabù che l’attivista ha voluto disvelare, rendere pubbliche, attraverso l’informazione, cercando di raccogliere quante più testimonianze possibili, e utilizzando la radio come mezzo privilegiato per ridar voce alle donne, per ridar loro dignità e valore di esseri umani, al posto del senso di vergogna e del rigetto sociale. Chouchou ci ha parlato dell’importanza della comunicazione e dei media, ci ha spiegato quanto creda a questo progetto che ha come obiettivo la denuncia come rottura da questo tremendo “ordine costituito” che si è venuto a creare. Non si può stare zitti, bisogna parlare e fare ascoltare, rendere consapevoli attraverso la dura e imbarazzante verità, per svegliare le coscienze, per riconsegnare il peso della responsabilità e della colpa a chi commette tali disumani orrori.

Anche Urvashi Butalia ha spiegato infatti come la pena di morte non possa essere il metodo migliore per fermare la violenza: per altro “si rischia che per evitarla si giunga più facilmente all’uccisione della vittima”; ma non è solo questo. L’India deve affrontare molteplici problemi politici, sociali, economici e culturali, problemi di radice antica, storica, profonda. Durante la Partizione (la decisione britannica di dividere il Paese in due in base alla religione: l’India per gli indù, e il Pakistan per i musulmani) nel 1947, circa 100.000 donne furono stuprate e ridotte in schiavitù da uomini di religione diversa dalla propria (come pure da uomini della loro stessa religione); lo Stato e i media fino a tempi molto recenti hanno ridotto al silenzio i fatti cruenti che sconvolsero il Paese, ma il ricordo di quegli avvenimenti è conservato nella memoria delle comunità, nei racconti intergenerazionali, nonostante il tentativo di cancellare oltre 60 anni di storia che ha segnato tragicamente i corpi e le anime delle persone, nonché le sorti di un territorio massacrato, che ha dinnanzi molta altra strada prima di ottenere la conquista reale dell’uguaglianza dei diritti, che certamente vedrà ancora una volta le donne come soggetti protagonisti di lotte e rivendicazioni.

Come si vede, due aree geografiche distinte, danneggiate entrambe dal silenzio e da un instillato senso di vergogna “disciplinante”, primi tasselli da distruggere quando le comunità si autodeterminano dal basso e decidono che gli incubi devono finire, cominciando dal permettere alla verità di salire a galla e diffondendo informazione svincolata dai poteri, elementi indispensabili per il cambiamento.

Mona Eltahawy (vedi intervista) ci ha illustrato invece la situazione in Egitto, lanciando alla platea curiosa e interessata dei messaggi chiari e netti che abbiamo apprezzato molto, insieme alla sua fiera convinzione nell’esporre le sue idee radicali e rivoluzionarie; ha dunque raccontato che durante l’onda araba, le donne sono scese in piazza Tahrir con i loro corpi, rischiando la vita, per combattere non su uno, ma su due fronti, ovvero contro la dittatura politica e militare, e contro la discriminazione culturale e sessuale. “Ma se la rivoluzione non arriva dentro le teste e dentro le case, il vero cambiamento non può avvenire. Mubarak è ancora nelle nostre stanze da letto, nei nostri soggiorni, è dietro l’angolo quando camminiamo per strada, dentro le nostre teste, la nostra cultura è ancora intrisa degli effetti di una lunga storia di patriarcato, e così non ci siamo ancora liberati!”. Mona ha fatto scalpore per aver rotto le barriere culturali e difeso strenuamente la dignità delle donne, per essersi scagliata contro gli abusi di potere e l’impunità di chi li commette, per essersi schierata contro “l’odio degli uomini arabi verso le donne” che fomenta i peggiori stereotipi e le più pervasive discriminazioni, per aver denunciato il fascismo sia dei musulmani che dei militari, per aver rivendicato con ogni sua forza la libertà femminile sino a dirsi favorevole al divieto del velo integrale in Francia. Il 23 novembre 2011 era stata picchiata e arrestata durante le manifestazioni al Cairo. Appena libera, aveva giurato che avrebbe raccontato tutto. E lo ha fatto. E continua a farlo. “Mi hanno sequestrato all’interno del Ministero dell’Interno. Hanno abusato di me sessualmente, ho perso il conto delle mani che mi hanno toccata e alla fine mi hanno spezzato le braccia”. Prima che la espropriassero del cellulare, era fortunatamente riuscita ad inviare un ultimo tweet con cui comunicava di essere stata messa in carcere. Ma nel suo intervento ha ribadito che non sono i social network a fare la rivoluzione: possono sì aiutare, ma le lotte si fanno in piazza, rischiando la propria vita. Quando le è stato chiesto perché ad oggi siano sempre prevalentemente le donne a combattere per i propri diritti e contro le violenze, e pochi uomini invece se ne preoccupino, Mona ha risposto che la sensibilità degli uomini educati e diversi dai “colpevoli”, che vogliono dimostrare che esiste l’alternativa del rispetto, sta iniziando a manifestarsi, e aggiunge “dobbiamo pensare con quale tipo di uomini vogliamo allearci” per far sì che prevalga un altro modello di relazione e per unirci con loro negli obiettivi. Propone l’esempio interessante dei giovani ultras, categoria di genere per lo più maschile che durante le proteste si associa volentieri agli scontri per via della qualità conflittuale che descrive il loro rapporto con le forze dell’ordine: eppure, se questi giovani assorbissero e diffondessero ideali di uguaglianza e di libertà di scelta, la contaminazione avrebbe certamente effetti non indifferenti, creando dinamiche innovative e ricche di valore: una nuova forma di educazione e l’esempio concreto risultano fondamentali per la trasformazione culturale.

E il linguaggio. Sull’importanza del linguaggio ha discusso la statunitense Rebecca Solnit, descrivendo inoltre la gravità degli abusi sulle donne anche in termini numerici: negli Stati Uniti viene commesso uno stupro ogni sei minuti, e una donna su cinque, nella sua vita, subisce violenza, dati eloquenti che hanno destato un certo effetto negli ascoltatori. L’ha chiamata l’ “epidemia”, a sottolineare il carattere patologico e di diffusione globale che possiede il fenomeno, figlio diretto di un insieme complesso e articolato di fattori (per citarne alcuni, il neoliberismo, la crisi e una cultura maschilista imperniata sull’ingiustizia sociale), nonché la necessità di una “cura” (dunque l’idea che sia possibile uscirne, cambiare). Lei stessa ha affermato “non so se è il termine migliore, ma sicuramente è evocativo, basta coglierne l’accezione che c’interessa. Il linguaggio d’altronde è parte integrante del cambiamento di prospettiva, sono gli uomini che devono sentirsi sbagliati, non le donne! Le donne devono poter parlare e raccontare, trovare i termini per spiegare cosa sentono”.

In questo giro di opinioni e narrazioni pubbliche e al contempo intime, si è percepita come un’atmosfera di familiarità e umanità, che il moderatore del dibattito, Riccardo Iacona, ha trasmesso con serietà e cura, gestendo abilmente le domande del pubblico senza mai togliere voce a nessuno.

A conclusione, ci siamo sentite soddisfatte e un po’ più ricche, con la voglia di incontrare ancora le coraggiose donne che abbiamo ascoltato con attenzione, come se non fosse l’ultima opportunità di entrare in contatto con loro, e speriamo di riuscire a fare in modo che non lo sia. E’ un impegno che ci auguriamo di poter mantenere, mentre dentro quelle stesse lotte scegliamo di starci anche noi. Intanto, grazie.

Intervista a Mona Eltahawy - parte prima

Intervista a Mona Eltahawy - parte seconda