La “risoluzione” viene dalle piazze e dai popoli in lotta

Il 25 marzo 2024 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione richiedendo un cessate il fuoco temporaneo nel conflitto tra Israele e Hamas. Per la prima volta gli USA non pongono il veto.

di Zan
30 / 3 / 2024

«Il bagno di sangue è durato troppo a lungo» rimprovera il vecchio Amar Benjama. Sono le 10.40 di lunedì mattina e l'Ambasciatore algerino sta parlando dal suo scranno alle Nazioni Unite. Poi si rivolge al popolo palestinese: «La comunità internazionale non vi ha abbandonato». Pochi minuti prima è avvenuto qualcosa di – a suo modo – storico. L'astensione degli Stati Uniti ha permesso alla Risoluzione 2728 di essere approvata dal Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.

Il testo della Risoluzione esprime grande apprensione per la situazione umanitaria a Gaza. Dopo cinque mesi di guerra le città della Striscia sono state praticamente rase al suolo; il tentativo più o meno dichiarato di Israele di sterminare il maggior numero possibile di palestinesi ha provocato più di 30 mila morti, ai quali si deve aggiungere il numero inquietante di migliaia di dispersi, decine di migliaia di feriti e mutilati, e soprattutto quello di quasi due milioni di profughi costretti ai limiti della sopravvivenza, messi all'angolo dalla minaccia permanente di invasione a Rafah e di espulsione in Egitto.

Di fronte a questa catastrofe le tre richieste approvate sono il cosiddetto minimo sindacale: un immediato cessate il fuoco per la fine del Ramadan, la liberazione degli ostaggi catturati il 7 ottobre da Hamas, nonché l'accesso incondizionato agli aiuti umanitari e la protezione dei civili palestinesi. «Gli Stati Uniti sostengono pienamente questi obiettivi cruciali» sostiene Linda Thomas-Greenfield, Ambasciatrice da Washington. Poi è il turno dell'Osservatore Permanente per lo Stato di Palestina, Riyad Mansour, figlio di un operaio metalmeccanico profugo della Nakba ed emigrato negli USA: «Questo deve essere un punto di svolta che deve segnare la fine delle atrocità contro il nostro popolo». Ma non si dimentica di sottolineare che i crimini israeliani hanno di fatto distrutto la credibilità del diritto internazionale.

La risposta isterica e furiosa di Israele non si fa attendere. Il primo a farsi avanti è proprio l'Ambasciatore israeliano Gilad Erdan, una delle facce divenute più celebri negli ultimi anni: studente nella religiosissima Bar Ilan di Tel Aviv, inizia la sua carriera in opposizione agli Accordi di Oslo, scodinzolando appresso al criminale di guerra Ariel Sharon. Erdan non perde l'occasione di giocare il Joker ormai grottesco del 7 ottobre, arrivando a definire questo e il testo della Risoluzione «una disgrazia».

Così, nelle successive ventiquattro ore, arriva la decisione di Netanyahu di ritirare sia la delegazione israeliana in visita a Washington sia la squadra incaricata di proseguire i negoziati con Hamas, mediati dal Qatar a Doha. «Il mancato blocco della proposta da parte di Washington danneggia gli sforzi bellici contro Hamas, così come gli sforzi per liberare gli ostaggi prigionieri a Gaza». La sua è una evidente prova di forza. Ma anche Ismail Haniyeh, uno dei capi dell'ala politica di Hamas, prende la parola. Lo fa mercoledì mattina durante la sua visita a Tehran: «Israele si trova ad affrontare un livello di isolamento politico senza precedenti» e aggiunge che Tel Aviv sta «perdendo la sua copertura politica» al Consiglio di Sicurezza.

Tuttavia sul campo la situazione è distantissima da un cessate il fuoco. I bombardamenti sono ripresi su tutta la Striscia, con almeno settanta morti nella mattinata di mercoledì. A Gaza city i palestinesi annegano nel tentativo di recuperare a nuoto gli aiuti umanitari paracadutati lungo il litorale. L'ospedale di al-Shifa è ancora teatro di feroci combattimenti e l'ospedale al-Amal viene dichiarato ufficialmente fuori servizio. Già lunedì, dopo l'approvazione della Risoluzione, anziché garantire l'accesso a cibo e cure mediche Israele dichiara il blocco totale degli aiuti dell'UNRWA diretti a Gaza nord. Infine continua l'escalation tra Hezbollah ed esercito israeliano lungo il fronte nord, con sette vittime libanesi e una israeliana. Questo non deve sorprendere nessuno. Perché alla fin fine il dato politico più evidente è soltanto uno.

Israele ha una lunghissima storia di risoluzioni delle Nazioni Unite non rispettate o apertamente violate. D'altronde, se così non fosse, non ci troveremmo in caduta libera nel baratro in cui stiamo precipitando. Con ciò, quel che deve farci rabbrividire è che sono stati necessari cinque mesi di una delle tragedie più inumane del XXI secolo – aggravata dalla complicità dell'Occidente – per ottenere una pallida, pavida, insignificante astensione per approvare un testo che si sapeva fin dall'inizio non avrebbe avuto un effetto pratico immediato. Sono stati necessari centocinquanta giorni, 30 mila morti, la devastazione di Gaza, Khan Younis, Beit Lahia, Deir al-Balah, immagini da voltastomaco, l'intera credibilità occidentale spazzata via come se non fosse mai esistita, tutto questo per ottenere un risultato poco meno che formale.

Continua a porsi davanti ai movimenti una necessità incalzante: se non sono le piazze a incendiarsi, se non sono i popoli a insorgere, gli Stati – nessuno escluso – lasceranno marcire la Palestina e i palestinesi tra macerie sgretolate dei bombardamenti, tra le scartoffie dei provvedimenti non rispettati. Non sarà la Risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza a fermare la distruzione e la pulizia etnica di Gaza, non sarà il voto delle Nazioni Unite a liberare la Palestina. È ora di porsi seriamente il problema di una mobilitazione nazionale che vada ad accendere il conflitto sotto i luoghi del potere israeliano. Se abdicheremo, prepariamoci ad essere complici e responsabili di una tragedia gravissima.

Immagine di copertina: foto di Pok Rie.