Lo sciopero universitario più lungo della storia del Regno Unito

Dal 20 febbraio 2020, le università britanniche sono di nuovo in sciopero con una piattaforma rivendicativa incentrata sulla difesa delle pensioni da un lato e su lotta a declino dei salari reali

5 / 3 / 2020

Dal 20 febbraio 2020, le università britanniche sono di nuovo in sciopero con una piattaforma rivendicativa incentrata sulla difesa delle pensioni da un lato e su lotta a declino dei salari reali, carichi di lavoro eccessivi, precarietà e discriminazione dall’altro. Lo sciopero prevede una fermata di quattordici giornate lavorative distribuite su cinque settimane (l’ultima è il 13 marzo) e si somma allo sciopero di otto giorni avvenuto tra novembre e dicembre 2019 nell’ambito della stessa vertenza. Le ventidue giornate complessive, ovvero un mese lavorativo, costituiscono lo sciopero universitario più lungo della storia del Regno Unito. La mobilitazione si inserisce nel contesto di un sistema universitario allo stesso tempo estremamente precarizzato e altamente profittevole a causa delle alte tasse universitarie per gli studenti e delle partnership con grandi società private. Si tratta di un laboratorio di frontiera nella mercificazione dei saperi e gli scioperi attuali possono essere letti anche come un’opposizione all’avanzare della logica del mercato nel sistema educativo. Pubblicato originalmente da Plan C. Traduzione a cura di Lorenzo Feltrin.

On the move

La Ucu (University and College Union) è mobilizzata. Meno di sei anni fa, la segreteria nazionale del nostro sindacato dichiarava scioperi da due ore. Una manciata di docenti, bibliotecari, tecnici, ecc. se ne stava tremante ai margini dei campus. Sembrava poco più che una pausa pranzo allungata. Tale esperienza è stata non soltanto assai demoralizzante – perché, ovviamente, quasi del tutto trascurabile – ma per molti anche umiliante ed economicamente dannosa quando la direzione ha deciso di decurtare il salario di un’intera giornata lavorativa per ogni “interruzione” di due ore. Il sindacato si rivelò inutile anche nel tentativo di prevenire o far rientrare tali decurtazioni illegali.

Per contro, tra febbraio e marzo 2018, 42.000 membri della Ucu – docenti, ricercatori e personale amministrativo – fecero 14 giorni di sciopero su un periodo di quattro settimane in 64 università. Secondo l’Office for National Statistics, l’agenzia britannica per le statistiche, nel 2018 sono state perse solo 273.000 giornate lavorative a causa di scioperi, il sesto totale annuo più basso da quando i dati hanno cominciato a essere registrati nel 1891. Ma due terzi di queste giornate lavorative sono andate perse nel settore educativo, soprattutto le università. I membri Ucu hanno scioperato nuovamente a fine 2019, con otto giorni di sciopero di fila in 60 università. Il 20 febbraio, è cominciato un altro sciopero di 14 giorni spalmati su cinque settimane, che tocca 74 università.

Il settore educativo nel Regno Unito è una frontiera dello sviluppo capitalista e un fronte di lotta. Nelle università britanniche, sistemi di misurazione della produttività intellettuale, classifiche varie e league tables sono ovunque. Gli studenti sono incoraggiati a vedersi e comportarsi come clienti. I dirigenti – chiamati vice-chancellors (rettori) o VCs – fanno un uso crescente di lavoro precario sia per l’insegnamento che per la ricerca e incrementano il carico di lavoro per tutti. Un deterioramento della salute fisica e mentale è l’inevitabile risultato. L’università è diventata una ‘anxiety machine’.

Il capitale ha esplorato questa frontiera per decenni. Studiosi critici, marxisti e non, hanno parlato di “commercializzazione globale delle università”, “capitalismo accademico” e “proletarizzazione del personale accademico” per almeno un quarto di secolo. Perché la resistenza è esplosa solo negli ultimi due anni? Difficile dirlo. Una possibile ragione è l’arrivo di giovani lavoratori che avevano attraversato il movimento studentesco del 2010 e hanno portato con sé le proprie esperienze di militanza. Una ragione complementare è che le università britanniche sono oggi molto più internazionali rispetto a una ventina di anni fa. I lavoratori migranti portano con sé esperienze di lotta da altri contesti. Questa diversità ovviamente ha il potenziale di arricchire le mobilitazioni e, in particolare, le lotte in altri paesi sono in molti casi più radicali di quelle britanniche. I compagni migranti hanno spesso notato l’esitazione e la cautela delle vertenze britanniche. Nel 2018, alla University of Leicester (dove entrambi gli autori di questo articolo lavorano), circolava la battuta che l’ingrediente necessario per un buon sciopero fosse il contributo di militanti italiani. Una terza possibile ragione – anche questa complementare rispetto alle prime due – è il semplice fatto che c’è una soglia di tolleranza. Dal 2008 in poi, la vita è diventata più dura per quasi tutti. Nelle università – e senz’altro in molti altri settori – l’erosione del reddito è stata accompagnata dall’aumento dello stress dovuto all’intensificazione del lavoro e all’insicurezza. C’è voluto un decennio, ma alla fine è arrivato il momento dell’“adesso basta”.

Il potere emotivo dello sciopero

Scioperare può essere una potente esperienza affettiva. Uno “sciopero moscio” – come gli scioperi da due ore del 2014 – demoralizza, dà un sentimento di debolezza e impotenza. È viscerale: non ti va di andare ai picchetti, non vuoi essere visto lì, ti viene voglia di rimpicciolire. Uno “sciopero combattivo” produce risultati opposti. Dà un sentimento di potere collettivo, espande la sensazione della possibilità di cambiare il mondo. È un potente “momento di eccedenza”. Sono queste le emozioni che stiamo vivendo nel corrente ciclo di scioperi. Emozioni che non provavamo dalle mobilitazioni no global contro i G8 nei primi anni 2000, o ancora prima nelle azioni di Earth First! Il senso di entusiasmo, urgenza, eccitazione quando precipiti dal letto, fuori è buio ed esci nella luce metallica dell’alba.

Il potere emotivo dello sciopero, tuttavia, non si è dispiegato uniformemente. In circa ottanta università non è stato raggiunto il quorum per scioperare (la legge sui sindacati del 2016 dice che lo sciopero è legale solo se almeno il 50% dei membri del sindacato votano). Anche nelle università in cui lo sciopero è stato dichiarato, non tutti i membri Ucu (per non parlare dei non iscritti) hanno in effetti scioperato. Probabilmente non tutti i dipartimenti hanno sofferto un vero impatto. Bisogna però notare che anche quando le lezioni e i seminari si sono tenuti “normalmente” (perché i docenti hanno fatto i crumiri) spesso gli studenti non erano tanti: molti studenti appoggiano attivamente gli scioperi e non oltrepassano i picchetti, altri studenti immaginano semplicemente che le lezioni siano cancellate e senza dubbio alcuni hanno trovato nello sciopero una buona scusa per fare altro.

In certe università, gli scioperi sono stati relativamente solidi con buona parte di lezioni e riunioni cancellate, ma le mobilitazioni sono rimaste sottotono. In Leicester, invece, abbiamo messo in campo cortei lungo il campus ogni giorno – con slogan e una banda – concludendo con canzoni, discorsi e altri tipi di performance davanti all’ufficio amministrativo principale. Queste attività interne hanno alterato la quotidianità dell’università, anche per quanto riguarda le lezioni che non sono state cancellate. Abbiamo anche rimarcato un importante messaggio per noi e per i padroni: l’università è nostra!

Far fronte alle difficoltà

C’è quindi una piccola esplosione di militanza nelle università britanniche. Non crediamo che l’energia rilasciata si disperderà presto. Ma non riteniamo nemmeno che andrà molto più in là in assenza di cambiamenti culturali più ampi. Come spiegato sopra, il potere degli scioperi non è distribuito uniformemente. Dobbiamo essere onesti e riconoscere che il crumiraggio è probabilmente diffuso. Dobbiamo anche riconoscere che non tutti i crumiri sono necessariamente individualisti egoisti. Una delle ragioni per cui i lavoratori dell’istruzione sono restii a scioperare è perché vogliamo evitare di danneggiare i “nostri” studenti. Uno dei compiti dei militanti nei campus è quello di stimolare un cambiamento culturale tale per cui non oltrepassare i picchetti – sia quelli fisici che quelli digitali – sia naturale per la maggior parte dei lavoratori.

In primo luogo, il fatto che i dirigenti universitari facciano ampio uso di forza-lavoro precaria – forse metà della docenza è portata avanti da precari – significa che molti militanti Ucu non vedono più gli studenti come “loro”. Ciò è rafforzato dalla narrazione mercificante – spinta dai dirigenti e accettata da alcuni studenti – secondo la quale gli studenti sarebbero clienti. Il risultato è che oggi il tipico docente universitario sente un senso di responsabilità nei confronti dei propri studenti molto diverso da quello che esisteva una ventina d’anni fa. È chiaro inoltre che, nella classe precarizzata dell’università neoliberale, ci sono molti altri fattori di danno all’istruzione e l’assenza del docente a causa dello sciopero è una quisquilia a confronto.

La sfida è che molti lavoratori universitari sono “filosofi”, siamo amanti del sapere. Abbiamo intrapreso la carriera accademica perché ci piace fare ricerca e condividerla. Quando scioperiamo smettiamo di fare ricerca e di insegnare, ovvero smettiamo di fare ciò che ci piace. Non siamo i soli ad avere questo dilemma. Vale anche per altri lavori di cura, come certo personale medico. Come possiamo danneggiare il nostro datore di lavoro senza far male agli studenti o ai pazienti, ecc.?

Molti scioperanti universitari hanno incanalato le proprie energie in “contro-lezioni” e nella produzione di materiali e analisi sugli scioperi. L’autogestione è qui una caratteristica fondamentale: nessun poter esterno impone i curricula, monitora la “qualità” o tenta di misurare la “soddisfazione” degli studenti. In questo senso, gli scioperanti continuano a fare quel che gli piace, ma meglio, giacché grazie all’autogestione possono espandere gli aspetti che più amano. Sappiamo anche che molti colleghi hanno partecipato a poche attività legate agli scioperi ma hanno comunque spento le loro e-mail universitarie e si sono chiusi in casa persi tra i propri libri, un’attività per la quale pochi di noi hanno tempo quando lavorano “normalmente”.

Molto bene. Ma quando scioperiamo perdiamo reddito perché i padroni ci tagliano il salario. Molti lavoratori universitari faticano a permettersi di scioperare, per questo abbiamo bisogno delle casse di resistenza. Abbiamo anche assolutamente bisogno di tattiche che: 1) minimizzino la nostra perdita di reddito; 2) massimizzino il danno ai padroni; 3) allevino il danno ai soggetti che ricevono il nostro lavoro di cura.

La congiuntura politica del Regno Unito nei prossimi anni aggiunge le ulteriori sfide di un nuovo governo conservatore capitanato da Boris Johnson e l’uscita del paese dalla Ue. L’istruzione superiore è un settore cruciale per l’export britannico. Gli studenti stranieri generano almeno venti miliardi di sterline all’anno. Un rapporto per la House of Lords sul “valore per il Regno Unito dell’istruzione superiore come export” sottolinea anche i benefici non monetari: a quanto pare “il settore educativo costituisce un contributo significativo al soft power del Regno Unito” (1). Dopo la Brexit, l’importanza delle università come generatrici di valuta estera non potrà che aumentare. Ma il mercato globale dell’istruzione è altamente competitivo e lo diventerà ancora di più quando le università cinesi e indiane diventeranno “world class”. In ultima istanza, la competizione verte su quali padroni saranno in grado di estrarre più plusvalore dai propri lavoratori, facendoli lavorare più produttivamente per salari più bassi. Le università non fanno eccezione. Un forza-lavoro poco disciplinata non fa bene agli affari. Durante lo sciopero di febbraio e marzo 2018, l’ambasciata cinese nel Regno Unito ha espresso le proprie preoccupazioni al governo britannico per quanto riguarda “i legittimi diritti degli studenti cinesi che studiano nel paese”. Ci sono più di 120.000 studenti cinesi nel Regno Unito – un terzo del totale degli studenti non europei – e pagano in media 52.000 sterline per il loro periodo di studi. Chiaramente, mettere in discussione questa fonte di introiti rende gli scioperi più potenti, ma potrebbe anche attirare una reazione più dura da parte dei rettori, probabilmente appoggiata in tutto e per tutto dal governo.

Una seconda e doppia minaccia riguarda la questione della “libertà accademica”. Da un lato, ci sono limiti crescenti su ciò che gli accademici possono e non possono dire. Criticare in pubblico il proprio datore di lavoro o un suo partner (per esempio uno sponsor o un finanziatore) può portare a misure disciplinari per aver danneggiato la reputazione dell’università. Anche il programma Prevent limita fortemente la libertà accademica (2). Dall’altro lato, nel contesto di un più ampio attacco dei conservatori alle università – che la stampa di destra (come Daily Mail, Telegraph e Times)considera “roccaforti del pensiero di sinistra” (magari!) – è probabile che vedremo nuovi scontri premeditati in merito a diritti (o “diritti”) di intellettuali alt-right quali Jordan Peterson o femministe radicali per l’esclusione de* trans (TERFs) di avere una piattaforma nelle università.

Lotta senza o oltre lo sciopero

Abbiamo aperto l’articolo ricordando i pietosi scioperi da due ore del 2014, ma non abbiamo obiezioni di principio contro le interruzioni brevi. Come ha detto l’attuale segretaria generale Ucu Jo Grady durante le elezioni interne, le università sono per molte ragioni diverse dalle fabbriche. Tuttavia, è interessante pensare a come gli operai di fabbrica mettessero in atto numerose forme di lotta diverse dallo sciopero: rallentamento dei ritmi, salto della scocca, scioperi dello zelo o scioperi a scacchiera (anche da poche ore) in cui diversi reparti effettuavano brevi interruzioni a turno.

Gli operai usavano tali tattiche con efficacia perché conoscevano a menadito i loro posti di lavoro e il ciclo produttivo e sapevano quali erano i punti vulnerabili. Anche nelle università è necessario fare un lavoro di inchiesta per mappare i punti deboli dei padroni. Come possiamo, per esempio, colpire il brand delle università, così importante per attrarre le tasse universitarie degli studenti e i finanziamenti degli sponsor? Come possiamo mettere in crisi la collaborazione delle università con organi repressivi quali l’Office for Students o l’Home Office?

Secondo il nostro modo di vedere, uno degli aspetti più importanti degli scioperi veri e propri è il loro potere affettivo, la loro capacità di generare solidarietà collettiva. Ma abbiamo anche un urgente bisogno di altre tattiche: forme di lotta che fanno più male ai padroni e costano di meno a noi, ovvero che non comportino la perdita di molti giorni di salario per migliaia di lavoratori.

Crediamo che sia altrettanto importante sviluppare politiche e pratiche più costituenti nelle università, che rendano cioè le università più conformi ai nostri bisogni. In primo luogo, le università devono essere una sorta di santuario. Dobbiamo difendere la libertà intellettuale, ma quest’ultima dipende dalla sicurezza materiale. Oltre a lottare contro la precarietà dei lavoratori e l’indebitamento degli studenti, ciò significa attaccare il regime di controllo migratorio del Regno Unito e il meccanismo Prevent, anche interferendo con il normale funzionamento delle università. Inoltre, nelle università c’è grande varietà in quanto a insegnamento e ricerca. Alcuni aspetti possono servire i nostri bisogni, ma altri sono chiaramente nell’interesse del capitale e contro di noi. I militanti universitari devono prendere posizione contro le collaborazioni accademiche con il Ministero della difesa, le società che producono armi e combustibili fossili, ecc.

Al giorno d’oggi, nessuno crede veramente che le università siano torri d’avorio. Esse sono infatti parte integrante della società. Nel Regno Unito, impiegano quasi mezzo milione di lavoratori, quasi l’1.5% dell’impiego totale. Inoltre, in 2.3 milioni lavorano nelle università come studenti. Gli attuali scioperi riguardano i salari, le ineguaglianze e le condizioni di lavoro di una sezione dei lavoratori delle università. Ma queste ultime sono completamente attraversate da lotte di classe, dall’alto, dal basso e in obliquo. Quasi tutte le grandi lotte del momento trovano una propria manifestazione nei campus britannici. Prevent, il debito, la libertà d’espressione, i diritti e la dignità dei generi non egemonici, ecc.

Non stiamo dicendo ai militanti che devono iscriversi per forza al sindacato, che si tratti di Ucu o di altri. Ma invitiamo i militanti – soprattutto quelli che lavorano nell’istruzione superiore – a interessarsi alla ricchezza e alla diversità delle lotte che percorrono il settore. Alcune sono organizzate attraverso il sindacato, ma la maggior parte non lo sono. Gli scioperi hanno sempre il potenziale di andare oltre la piattaforma rivendicativa formale. Non si tratta mai solo di salari e orari di lavoro, a prescindere dall’opinione o le dichiarazioni dei leader sindacali. Questa è un’altra ragione per non ignorare o minimizzare gli scioperi, e quelli ora in corso nelle università britanniche non fanno eccezione.


(1) I dati provengono da un rapporto del 2018 prodotto dal London Economics for Higher Education Policy Institute e Kaplan International Pathways. Il rapporto per la House of Lords è disponibile qui.

(2) Prevent è un elemento della strategia antiterrorismo dell’Home Office (Ministero degli interni) britannico che chiede ai docenti di segnalare studenti sospettati di essere in fase di radicalizzazione. Nel gennaio 2020, hanno fatto scalpore dei materiali formativi Prevent che includevano anche tutti i gruppi della sinistra radicale UK e organizzazioni ambientaliste come Greenpeace ed Extinction Rebellion. Sulla libertà accademica, si veda questo rapporto del Universities Superannuation Scheme.