Non c’è risposta più concreta alla strage di Lampedusa di quella arrivata in queste settimane intorno all’universo CIE, l’altra faccia di quel confine che costringe l’isola a vivere una vita di frontiera. Perché se è vero che di confini si muore, è vero anche che il destino di chi li attraversa è indelebilmente segnato dalla minaccia, concreta o evocata, dell’internamento nel circuito dei centri di identificazione ed espulsione europeo.
Senza le luci dei riflettori puntati, il
sistema del confinamento, nonostante la continua nascita di zone di
detenzione informale, ha subito in queste settimane dei colpi letali.
La sua mappa rappresenta così la cartografia di una sconfitta
strutturale per chi pensava di affermare il primato del controllo della
mobilità su quello della libertà di circolazione.
Alla data di oggi non c’è un solo CIE in Italia che possa vantare un
funzionamento a pieno regime. I centri di Lamezia Terme, Brindisi,
Serraino Vulpitta, Crotone e Modena sono chiusi da tempo, così come
quello di Bologna, dove è in corso una battaglia per la non riapertura
della struttura che ha fatto schierare anche le istituzioni locali
contro il lager di via Mattei. Non vanno poi dimenticate le battaglie
che nel Veneto e nelle Marche hanno reso impraticabile la costruzione
dei centri prevista da tutti i piani proposti in questi anni dal
Ministero dell’Interno. Un percorso di lotte che viene da lontano e si è
intrecciato a quelle di chi in quei centri è stato internato.
A questo bollettino di sconfitte vanno aggiunte l’ultima rivolta che ha
di fatto reso inagibile la struttura di via Corelli a Milano e la bandiera bianca issata dal Viminale sui tetti del CIE di Gradisca,
dove, dopo l’ennesima rivolta, il centro, considerato il peggiore
d’Italia, sempre che sia possibile fare una graduatoria delle brutalità,
ha dovuto chiudere i battenti per inagibilità. Si tratta ora di lavorare perché non riapra mai più.
Ad
un mese dalla drammatica notte del naufragio di Lampedusa , mentre cala
piano piano il sipario sulla “frontiera Sud”, quel mare scomodo che ha
consegnato al mondo intero la verità di trecentosessantasei corpi
inghiottiti in una notte, accendendo i riflettori sulle brutalità delle
politiche di controllo delle frontiere europee di questi anni, è
possibile quindi tracciare un primo bilancio.
A poche ore da quella strage sembrava che tutto potesse cambiare. In
questo mese trascorso la politica istituzionale ci ha lasciato invece
l’amaro in bocca di qualche passerella celebrativa, di un consiglio
europeo fallimentare e dell’unica scelta concreta, tutta italiana, che
ha imposto un’operazione umanitaria/militare dal nome “Mare Nostrum”.
L’Europa, Italia compresa, non riesce insomma ad uscire dalla logica dei
pattugliamenti, del rafforzamento di Frontex, dell’egoismo degli Stai
membri, del confinamento e delle politiche che condannano i migranti
alle morti in mare o a vivere una cittadinanza differenziata. C’era da
aspettarselo.
Ciò che invece non era affatto scontato è quel che è avvenuto nell’esperienza di chi quelle politiche le subisce e non ha mai smesso di osteggiarle. L’indizione delle mobilitazioni contro le grandi opere che connette Gradisca a quelle di Susa, Pisa e Napoli, l’enorme partecipazione dei migranti alle mobilitazioni per il diritto all’abitare e all’ondata di occupazioni che da Roma a Nordest, passando per le Marche, ha caratterizzato queste settimane, le iniziative degli studenti francesi contro le espulsioni, quelle dei rifugiati per il diritto ad una accoglienza degna ed alla mobilità europea, a Padova come ad Amburgo, indicano la possibilità di costruire uno statuto materiale della cittadinanza europea che va ben oltre le gabbie imposte dall’Unione.
Le vicende di queste settimane ci dicono quindi che chiudere i CIE è possibile. Allo stesso modo ci consegnano l’ipotesi, sempre più praticabile, di uno spazio euromediterraneo dei movimenti che assuma il confronto e lo scontro con l’istituto del confine e le sue proiezioni interne come terreno immediato di contesa sull’Europa, per trasformarla. Su questo, non solo i migranti, ma tutti noi, siamo evidentemente coinvolti.
Si tratta di non commettere l’errore di chi usa il lessico del cambiamento rimuovendo dal discorso il suo motore principale: il conflitto. Le occupazioni delle piazze e delle case, così come le rivolte ed i sabotaggi dei CIE lo confermano. Al tempo stesso è evidente la necessità di uno sforzo ulteriore, di rompere per primi anche i confini che troppo spesso rendono frammentate le singole battaglie, per cercare di costruire punti di convergenza e perché no, spazi comuni di mobilitazione.
Da Lampedusa a Gradisca abbiamo insomma riscoperto l’attualità del conflitto intorno alle frontiere ed i diritti di cittadinanza.
Ora proviamo a trasformarlo in un movimento euromediterraneo. Le occasioni non mancano ed è possibile già tracciare un’ipotetica agenda per i prossimi mesi. Dal prossimo 18 dicembre, fino alle alle mobilitazioni europee della primavera ventura, passando per Francoforte e l’appuntamento della “Carta di Lampedusa”. Un’occasione per scrivere insieme il futuro dello spazio euromediterraneo. Il nostro futuro.