Pratiche del comune oltre la crisi

Genealogia di una generazione in rivolta

17 / 1 / 2011

Un nuovo ordine del discorso.

Quando il 14 dicembre a Roma sono sbucato in piazza del popolo ho visto centinaia di ragazzi scontrarsi all’imbocco di via del Corso con la polizia e Piazza del Popolo gremita fino all’ultimo centimetro da decine di migliaia di persone che rimanevano lì senza scappare o allontanarsi. Quando mi sono chiesto perché stessero tutti lì a respirare i gas lacrimogeni a pochi metri dagli incidenti, mi sono istantaneamente reso conto di quello che realmente stesse accadendo. Stavano tutti lì non perché le vie di fuga dalla piazza fossero particolarmente strette o perché fossero smarriti, disorientati e in balia degli eventi, bensì perché sceglievano consapevolmente di stare lì, di non dissociarsi da chi metteva in atto l’assedio dei palazzi del potere e di fare la loro parte in quella straordinaria giornata di espressione di dignità e rabbia. È proprio a quel punto che in molti ci siamo resi conto che qualcosa di importante stava accadendo. Questa immagine, questa sensazione che ci portiamo dentro, ha spazzato via i maldestri tentativi di tutta la classe politica e dei media di liquidare ciò che è successo come una manifestazione pacifica rovinata dalla violenza di piccoli gruppi di criminali. Qui in Italia la musica non cambia mai. Gli anni ’70, il G8 di Genova, la manifestazione di Roma. Ignazio La Russa, ex picchiatore squadrista e attuale ministro della Repubblica, zittisce volgarmente su Anno Zero uno studente che cerca di spiegare le ragioni della protesta dandogli decine di volte del vigliacco; il P.D. non perde l’occasione per rimarcare l’abisso che ormai lo separa dai giovani che pongono con serietà delle questioni sociali criminalizzando gli studenti e agitando lo spettro degli infiltrati e dei teppisti che avrebbero rovinato tutto; la destra e il governo fanno la parte di sempre dicendo che alla fine oltre qualche delinquente in piazza non c’era poi così tanta gente; Gasparri ha la grande idea degli arresti preventivi e il sempre più reazionario Saviano alimenta vergognosamente la retorica, oggi finalmente perdente, con cui si tenta di colpire i movimenti usando la solita litania dei buoni e dei cattivi, dei violenti e dei pacifisti. La semplice verità è che più di 200.000 persone hanno manifestato rabbiosamente la loro indignazione bloccando la capitale e mettendo sotto assedio le sedi delle decisioni politiche. lo hanno fatto esprimendo quelle pratiche rabbiose che sgorgano naturalmente e direttamente dal desiderio irrinunciabile di riprendersi la scena e rendere esteticamente visibile, nello spazio pubblico, la propria profonda insoddisfazione. La mistificazione mediatica diretta a ridurre la complessità di quella giornata, e insieme di tutte le mobilitazioni di questo autunno, è durata non più di 24 ore. La prima grandiosa vittoria di questo movimento composto da studenti e precari (senza dimenticare la presenza determinante dei comitati aquilani e di quelli campani) sembra essere proprio quella di aver imposto in termini finalmente allargati un nuovo ordine del discorso nel quale le percezioni, i sentimenti, le scelte e i gesti dei soggetti che lottano stanno assumendo una centralità e una legittimità senza precedenti. Un nuovo ordine del discorso, una nuova narrazione della realtà e infine un nuovo regime di verità nel quale l’immensa potenza dell’intelligenza collettiva si trasforma in scelte, gesti e comportamenti reali e ben visibili e, intorno alla micidiale energia innovatrice che solo la cooperazione può esprimere, spazza via in un colpo solo le rappresentazioni e le retoriche del potere. Altro che black block, ultrà, teppisti e infiltrati. A Roma così come a Londra e ad Atene (senza dimenticare le recenti mobilitazioni a Dublino, Parigi ed Amsterdam) gli scioperi, le occupazioni, i cortei, i blocchi metropolitani dei flussi produttivi,i riots, gli scontri con le polizie e infine la dirompente conquista dello spazio pubblico attuata con gli assedi ai palazzi governativi, hanno prodotto un emersione generale del corpo vivo della società. Della sua rabbia profonda e dei suoi desideri multiformi. Un emersione tutt’altro che scontata considerando quanto oggi risulti fuorviante immaginare che condizioni materiali di vita degradanti o precarie producano automaticamente o “naturalmente” lotte e conflitto. Quella in emersione è una moltitudine composta da un universo eterogeneo, molto giovane, di soggettività che alle politiche di austerity, alle politiche dei tagli, all’impoverimento forzato di fasce sempre più ampio della popolazione contrappongono con determinazione, radicalità e veemenza la loro “indisponibilità” a essere comparse e subire passivamente la gestione della crisi. Rispondono parlando di libertà, di autodeterminazione, di nuovi diritti, di un nuovo welfare e di reddito garantito. Identificano il contesto della crisi strutturale che si sta aprendo nel capitalismo occidentale come un nuovo campo di battaglia disseminato di possibilità nuove. Reagiscono squarciando la nube di ignoranza che da anni copre le città e le metropoli e lo fanno rilanciando il ruolo della cultura, della conoscenza e della ricerca libera ed autonoma per la costruzione di un altro presente e di un altro futuro possibile.

Movimenti in divenire.

Lo dicevamo ai tempi dell’Onda Anomala e lo abbiamo ripetuto senza sosta negli ultimi mesi, il processo in atto oggi eccede, nella sua composizione e nella qualità della sua espressività, la contestazione di una specifica legge o di una specifica riforma, nel nostro caso quella universitaria. Dire questo però non è più sufficiente. L’elemento ricompositivo, che dopo molti anni si palesa ai nostri occhi in diverse parti d’Europa, non afferisce soltanto a una generalizzata risposta popolare alle condizioni materiali a cui le politiche dell’austerity condannano una generazione intera, precaria, povera e comunque senza futuro. La ribellione che sta scuotendo in profondità decine di città europee mette in mostra un nuovo straordinario processo di soggettivazione che per le sue caratteristiche ci fa pensare a questo movimento come al primo movimento di lotta al modello di sviluppo neoliberale connotato da un alto grado di consapevolezza, maturità e radicalità. La resistenza dei movimenti degli anni ’80 e ’90 ha tenuto in vita e ricostruito su basi nuove la straordinaria ribellione del lungo ciclo italiano ’68-’77 trovando nei centri sociali un riferimento fondamentale. La cosiddetta fase “no-global” ha espresso, intorno a eventi come Seattle, al G8 di Genova e in risposta alla globalizzazione neoliberista, un protagonismo sociale indimenticabile intorno alla parola d’ordine e all’immaginario diffuso “un altro mondo è possibile”, presentandosi come il primo movimento globale post-ideologico e reticolare. La contestazione moltitudinaria alla guerra in Iraq e molte lotte contro la precarietà, il razzismo e il disinvestimento sulla formazione e sulla ricerca hanno negli ultimi anni continuato a farci pensare che il campo di battaglia fosse ancora aperto e il movimento dell’Onda ha dato una scossa breve, ma intensa, al torpore a cui le nostre città e le nostre vite sembravano condannate. Soltanto ora però, osservando e sentendo l’enorme potenza soggettiva sprigionata da ottobre a oggi, sembra finalmente aprirsi in termini maturi la possibilità di una ricomposizione sociale e politica di uomini e donne che sfidano apertamente un paradigma di produzione, di gestione della forza lavoro e di produzione e controllo delle soggettività che ha cominciato a prendere forma sulle ceneri del fordismo e che oggi vive uno dei suoi momenti di crisi più profonda. E a quest’altezza che questo movimento va osservato. Sembra per esempio matura e generalizzata l’idea che la condizione di precarietà sia una condizione di controllo e ricatto da cui partire per innescare nuove lotte sul lavoro, o meglio contro il lavoro, dove la richiesta di reddito diventa assunta da sempre più persone. Nessun piagnistei vittimistici dunque, ma l’assunzione della propria condizione innanzitutto come possibilità di espressione di antagonismo e di costruzione di innovazione. Altrettanto matura e interiorizzata ci pare essere la decisione di mandare in corto circuito il tentativo di cattura, assoggettamento e messa a valore delle nostre intelligenze e delle potenzialità illimitate che i nostri linguaggi e le nostre relazioni portano con sé. E’ proprio al cuore del cosiddetto capitalismo cognitivo - e quindi a partire dalla sfera mai del tutto disciplinabile della conoscenza, della cultura, della comunicazione, della produzione di senso e di simboli, delle relazioni e delle reti sociali - che viene mossa l’offensiva biopolitica delle moltitudini di studenti, precari e salariati. Se è vero che le recenti tecnologie e dispositivi di produzione e controllo delle soggettività si attestano, sempre in bilico, su una soglia fragile dove per il capitale garantire la massima produttività del general intellect e contenerne nello stesso tempo le potenzialità conflittuali era ed è tuttora di vitale importanza. Se è vero che la produzione di relazioni, affetti e informazioni, l’uso dei linguaggi e lo scambio di segni e codici sono così centrali per i processi di valorizzazione e quindi al centro di nuove forme di disciplinamento che tuttavia ne sappiano mantenere aperto il carattere flessibile e dinamico per garantirne la messa a valore, allora la diffusa e dirompente centralità assegnata nelle mobilitazioni alla potenza innovatrice e conflittuale dell’intero apparato cognitivo e relazionale (verrebbe da dire dell’intero bios) è un attacco estremamente radicale nella prospettiva materialista di un profondo affrancamento dalle attuali forme di sfruttamento. Non può certo essere un caso che lo spazio della formazione, delle scuole e delle università e quindi uno dei più avanzati terreni di produzione della conoscenza e del sapere, abbia assunto una tale importanza nelle lotte degli ultimi anni, una centralità irriducibile a un anacronistico e improduttivo studentismo, ma aperta a un confronto senza sosta tra ciò che accade tra le mura delle facoltà e l’intero spazio urbano e metropolitano. Altamente matura sembra essere anche l’idea di individuare non solo l’università e i sempre più frammentati luoghi “classici” del lavoro, ma l’intero spazio sempre più liquido delle città e delle metropoli per rendere visibili i volti e le tensioni di questa offensiva incontrollabile e per mettere in atto una forma altamente ricompositiva di conflitto attraverso il blocco della rete e dei flussi produttivi. Nuove forme di sciopero generalizzato che nella pratica del blocco metropolitano mettono insieme l’importanza strategica mai tramontata di inceppare se non bloccare del tutto gli ingranaggi della produzione e la consapevolezza che essi sono dislocati ben oltre l’ambito spaziale in cui avveniva la classica prestazione lavorativa. Una nuova importante consapevolezza diffusa giunge poi sul piano dei rapporti con le istituzioni e in particolare su temi come la delega e la rappresentanza. Questo movimento spazza via, e senza titubanze, l’idea che la trasformazione del presente e l’emancipazione delle nostre vite possano essere delegati e messi nelle mani dei partiti e dei sindacati. Non a caso l’unica alleanza strategica, capace finora di produrre buoni risultati avviene con la Fiom e cioè con la parte per ora più viva e meno concertativa della CGIL. Uno dei patrimoni più preziosi del movimento studentesco e operaio degli anni ’70 e cioè la irrinunciabile tendenza ad autogestire ed auto-organizzare collettivamente le lotte sociali, ripresa nell’ultimo decennio con a volte troppa timidezza, diventa oggi uno dei punti di forza mai messi in discussione in centinaia di assemblee svoltesi negli ultimi mesi in Italia. Nessuna mediazione, nessuna delega, nessun filtro artificiale. Corpi e menti che scoprono insieme di essere ancora vivi e potenzialmente capaci di combinare di tutto. Un liberatorio funerale di un già deteriorato e morente ruolo di partiti e sindacati, con eccezione dei settori che ci auguriamo si lasceranno anche in futuro trasportare e contaminare dalla forza e dalle istanze dei movimenti. Mai come oggi risulta chiara la tensione aperta tra vecchie e logorate forme partitiche di governo e controllo, impregnate della corruzione e del clientelarismo tipicamente italiano, e l’espressione diretta, vivida, immediata e a tratti folgorante delle soggettività che riprendono la parola. Pratiche di espressione del sé e di costruzione del comune che rimandano direttamente al significato più virtuoso dell’agire politico, mortificato a lungo dall’arroganza autoritaria, populista e razzista della destra e dall’autoreferenzialità triste di quel che rimane del centro-sinistra.

Potenza collettiva e sfide future.

Quel che però colpisce più di tutto, e qui torniamo di nuovo a un attacco portato al cuore stesso del nuovo paradigma di sviluppo del capitale, è la centralità ritrovata del concetto, anzi meglio della pratica tangibile e corporea, della cooperazione (o dell’esercizio del comune se preferiamo). E’ proprio intorno al dispositivo dell’individualizzazione (e dunque della neutralizzazione della potenza del comune) che si sono create le condizioni per avviare e portare avanti per quasi 30 anni i progetti devastanti di attacco frontale al lavoro vivo. Un dispositivo imprescindibile per dare vita alla deregolamentazione, alle privatizzazioni, alla precarizzazione lavorativa e allo smantellamento del welfare mantenendo livelli tollerabili di conflittualità. Troppo spesso i soggetti sfruttati, ricattati, umiliati, derubati del loro presente e del loro futuro, desiderosi di libertà e autonomia, hanno escluso dal loro orizzonte la potenza della cooperazione come strumento e condizione essenziale per immaginare un’altra società possibile e per avviare biopoliticamente, qui ed ora, il sovvertimento dello status quo. Questa forza è stata scippata progressivamente ai soggetti attraverso la frammentazione delle unità produttive, alla moltiplicazione delle modalità contrattuali, alla dissoluzione della forza politica o meglio della centralità dell’operaio salariato nella lotta di classe e grazie a una massiccia operazione “culturale” con il protagonismo assoluto delle televisioni e il contributo fondamentale delle retoriche della paura e della sicurezza. Dispositivi che hanno pervasivamente dato vita a specifici processi di soggettivazione dove la resistenza individuale e per questo impolitica è stata spesso l’unica reazione sociale al deterioramento delle condizioni di vita di intere generazioni. Una produzione di soggettività che ha oscillato tra un impossibile “assoggettamento totale” e tentativi spesso troppo frammentati di liberazione e affrancamento. Le mobilitazioni di questo autunno hanno innanzitutto il merito di aver prodotto uno squarcio estremamente profondo ed esteso in questo difficile quadro con cui ci siamo così tante volte misurati e preannunciano la possibilità concreta non solo di batterci contro le politiche di Austerity pensate per governare la crisi, ma di andare oltre a questa costruendo l’immaginario e le basi concrete di una società diversa. Lo hanno fatto, e questo è il punto decisivo, attraverso la ritrovata centralità dell’utilizzo sovversivo della potenza collettiva nel nostro fare politica e nella vita quotidiana. Una nuova forma di cooperazione dove la costruzione del comune tiene insieme la potenzialità e la capacità espressiva di ogni singolo soggetto insieme alla forza organizzativa e trasformativa che può spigionare lo spazio collettivo e reticolare della moltitudine. Nessuna esternità del conflitto rispetto alla produzione e allo scambio collettivo di conoscenze, saperi, immaginari, codici, segni, stratagemmi resistenziali e relazioni sociali libere e in questo senso strategiche. Le pratiche di costruzione del comune nel campo degli affetti, delle relazioni, dei linguaggi così come in quello delle risorse materiali e immateriali, sono direttamente e simultaneamente pratiche di conflitto. Il campo dunque è più che mai disseminato di possibilità dentro le quali moltiplicare pratiche collettive di conflitto. Ora la sfida va rilanciata senza timori e con ambizione, individuando ogni piccolo traguardo come occasione per un avanzamento ulteriore. Abbiamo chiaramente sfondato gli argini del fiume e mille rivoli stanno innervando gli spazi sociali che sembravano ormai pacificati. Organizzare questi rivoli assumendo una posizione di totale internità alle lotte e fare sì che l’esplosione di rabbia autunnale si trasformi in fretta in una fitta trama di battaglie radicate nei territori, dove l’espressione del conflitto attuata intorno alle pratiche del comune diventi una realtà con cui il comando del capitale e i suoi dispositivi di controllo debbano fare i conti costantemente. È questo il piano su cui potremmo giocare in termini ambiziosi la nostra battaglia. Farlo non solo ponendo il tema dell’organizzazione all’ordine del giorno della nostra agenda politica, ma allargando senza paure i nostri consueti spazi di comunicazione e azione militante coerentemente alla volontà di mettere al centro dell’attenzione la costruzione politica del comune. Senza rinunce e compromessi al ribasso su importanti temi su cui discutiamo da anni come quello del reddito, del nuovo welfare e della costruzione delle istituzioni del comune. Le nuove forme organizzative che il movimento cercherà di darsi nel 2011 e gli incontri e le alleanze che prenderanno corpo dovranno in ogni caso essere subordinate alla scelta fatta durante l’autunno di stare immersi pienamente nei processi sociali che hanno scosso le nostre città. Deve essere questo posizionamento “interno”, il quale espone noi stessi alla possibilità di rimetterci in discussione e cambiare, la prospettiva da cui immaginare un’agenda politica vincente per i prossimi mesi. Senza paranoie e preclusioni troppo stringenti e nello stesso tempo senza permettere che le pur strategiche relazioni con partiti o sindacati rallentino o snaturino il nostro naturale slancio e la nostra irrinunciabile attitudine alla produzione e organizzazione di autonomia e innovazione. Sempre allergici alla difesa del presente e alla riproposizione di politiche riformiste di limitazione del danno che tradirebbero lo spirito con cui nei mesi scorsi migliaia di persone hanno travolto lo spazio pubblico italiano con la loro indignazione e i loro desideri.