Guardando la Piazza

Le vite ed il comando. Comincia adesso

16 / 12 / 2010

Martedì ero in Piazza del Popolo. Non sono (più) uno studente, ed ero, ugualmente, in Piazza del Popolo.

C'ero, com'ero al corteo promosso da “Uniti contro la crisi”, con con altre decine di migliaia di persone in un mix inedito che ha racchiuso in forma nuova ed aperta lavoratori della conoscenza, in formazione e della formazione, precari del sapere e del lavoro vivo (ha ancora senso tracciare questa differenza quando il processo produttivo innerva di sapere il lavoro e dall'altra parte il capitale riduce la tendenziale autonomia produttiva del sapere vivo alla durissima legge del valore-lavoro?).

Non solo c'ero. Ho preteso di rimanerci quando i blindati hanno cercato di spazzare la Piazza così come ho preteso di andare sotto i palazzi di carta della rappresentanza politica in crisi.

E pretendo ora la liberazione di tutt* gli/le arrestat*.

Laddove la rappresentanza politica raggiunge forse il suo punto più basso anche per i suoi stessi criteri di misura (valgano gli esempi del mercimonio del voto e la comica situazione che, alla fine della Fiera, proprio gli esuli dall'antiberlusconismo dell'IDV salvano mr.B), essa si racchiude in sé isolando i propri dispositivi di discorso, cioè di potere, dalla critica, dalla contestazione, dalla vita insomma.

E lo fa con l'arroganza violenta di chi sente di potere molto, quasi tutto. L'arroganza chi ritiene di essere difeso dalla sua autosufficienza.

Piazza del Popolo e la sua enorme articolazione interna marcano una linea che dice “che il cerchio non è chiuso”, che l'esito della(e) crisi non è scritto nella pietra dell'austerità, ma che tutto è ancora aperto.

Piazza del Popolo significa moltissimo per questo paese. Altre piazze lo furono (anche se tutto cambia e nulla si ripete uguale a sè stesso, correttamente viene citata Piazza Statuto. Non tanto perchè essa è analoga a quella di martedì, ma per come essa fece paura anche a sinistra, per come essa non venne letta per ciò che indicava).

Per me, essa può essere la possibilità di connettere ciò che crisi s/compone, di interpretare le differenze nella composizione tecnica di classe e nella stratificazione generazionale.

Il comune tra questi frammenti non esiste di per sé, non è autopoietico. Esso si crea soggettivamente e come scelta di parte (partigiana) e collettiva.

Il comune si produce nelle lotte e nella scrittura di un'agenda di lotta nella quale i fili di raccordo siano tanti, molteplici e talvolta -e questo è fantastico- inaspettati.

Gli slogan dei cortei di quest'autunno evocano e reclamano questo comune, anche se siamo ancora all'inizio ed il percorso è complesso e davvero articolatissimo, non gestibile con l'algebra delle somme.

Di fronte a noi abbiamo precarietà&povertà (come condizione definitiva ed immanente che va dalla nuda povertà, ai salari dei working poor, alla gestione feudale del rapporto di lavoro così come progettato dal Collegato lavoro e dalla Fabbrica Italia di Marchionne, all'assenza di futuro per chi ha sbarrata la mobilità sociale ed inibita la contrattazione) ed un comando sempre più autoritario e violento.

Non mi riferisco solo alla gestione dell'ordine pubblico vista (e subita) in questi mesi di cortei. Penso anche a come le nostre città vedano i propri spazi pubblici sempre più ridotti e normati dai decreti emergenziali dei sindaci sceriffi, alle scuole che sembrano istituti correttivi, alle Università in cui l'organizzazione autonoma del tempo e della produzione del sapere è combattuta dalla riduzione del diritto allo studio e dall'aziendalismo cialtrone nostrano, agli impianti industriali in cui al padrone si deve omaggio e devozione ed al caporeparto l'obbedienza di una istituzione totale, al dominio del securitarismo contro la libertà.

Comando contro vita e vite senza futuro degno di questo nome.

Piazza del Popolo non risolve naturalmente queste enormi domande. Ma essa è spartiacque epocale.

Non chiama la sua ripetizione in sedicesimo nei territori, non ci obbliga a limitare la sua narrazione alla retorica del gesto  e dell'evento.

Ci invita ad andare avanti, complici, desiderosi di rinunciare alla povertà che ci accomuna e ci libera verso la ricchezza infinita che siamo. E la cui redistribuzione ci spetta. Ora, non dopo che la "crisi è superata".

La sfida è la ricerca di un'alternativa politica alla crisi di sistema in corso.

Come è stato scritto in un modulo del book block, we shall overcome.