L’Europa deve scegliere: capitalismo o decrescita? La ripartizione della ricchezza è controversa, ma necessaria

28 / 2 / 2021

Tentare di combattere il cambiamento climatico e al contempo tendere alla crescita economica è come correre contromano su delle scale mobili, che per di più acceleriamo da soli senza sosta. Una simile corsa non può che finire in un collasso.

Quasi alcune settimane fa l’Agenzia europea dell’ambiente ha pubblicato un resoconto chiamato Crescita senza crescita economica. Gli studi che cita confutano la tesi che la crescita economica sia possibile senza aumentare il consumo delle risorse naturali. Il resoconto fa appello alla ricerca di alternative alla crescita. Davvero non possiamo più crescere? Cosa significa questo per la risoluzione della recessione contemporanea, per il Patto Verde per l’Europa o per il capitalismo in quanto tale?

La crescita verde è solo una risoluzione illusoria

Negli ultimi decenni gli impegni globali per l’ambiente si sono basati sulla teoria dello sviluppo sostenibile, che supportava l’idea che possiamo crescere economicamente e insieme proteggere l’ambiente. Questo approccio è basato a sua volta sulla credenza che sia possibile raggiungere un cosiddetto decoupling, cioè che siamo in grado di liberare la crescita economica dal suo impiego materiale. Eppure il messaggio principale del resoconto europeo è che a livello globale non stiamo raggiungendo alcun decoupling.

Se la crescita economica deve reggersi sul consumo delle risorse naturali è possibile ampliare l’utilizzo materiale già in circolo? Purtroppo anche l’economia circolare, una delle principali strategie per il conseguimento della crescita verde, ha i suoi limiti. Per ora anche a livello della ricca Europa, che è uno dei leader dell’economia circolare, si è riciclato un misero dodici per cento dei materiali utilizzati nel 2019. Le possibilità di sviluppo delle innovazioni tecnologiche nella gestione dei rifiuti sono estese e di certo auspicabili, ma le tecnologie da sole non risolveranno il problema del collasso ambientale, poiché la crescita infinita non è possibile neanche a livello teorico. Indipendentemente dalle innovazioni tecnologiche la materia è soggetta alle leggi della termodinamica e il suo ricorrente utilizzo la devalorizza, cioè non è riciclabile all’infinito.

Nel report si scrive che al posto della crescita della quantità di consumo materiale dovremmo crescere come società qualitativamente, cioè sviluppare senso, empatia e solidarietà. Gli approcci da cui possiamo prendere spunto sono la decrescita, la post-crescita e la cosiddetta “economia della ciambella”. La sfida dei prossimi anni sarà quella di introdurre queste considerazioni nel contesto delle normative politiche mainstream e valutare come possiamo implementarle con efficacia, supportando gli obiettivi europei per la sostenibilità.

Mentre l’argomentazione principale del documento è che la crescita non può continuare all’infinito, perché non abbiamo abbastanza risorse naturali per farlo, la critica della crescita economica elaborata dal movimento della decrescita da oltre quindici anni è molto più ampia.

Società senza crescita? Ma in che modalità?

Uno degli argomenti chiave contro la crescita economica è la lotta al cambiamento climatico. Separare la crescita economica dalle emissioni di gas serra è possibile in teoria, ma dalle ricerche emerge che il livello attuale di decoupling non si avvicina neanche lontanamente a quello di cui avremmo bisogno per evitare il collasso climatico.

Nonostante negli ultimi cinquant’anni abbiamo visto enormi innovazioni nell’ambito delle tecnologie verdi, non c’è stato un abbassamento delle emissioni di gas serra. Ne sono responsabili sia l’enorme crescita della popolazione che - appunto - l’ancora più rapida crescita economica. Le fonti di energia rinnovabile per ora non possono sostituire i combustibili fossili, come la gente spesso crede. Possono solo coprire la nuova, in costante aumento, domanda di energia. E dietro al livello di decoupling celebrato dall’Unione Europea c’è in gran misura lo spostamento della produzione verso i Paesi del Sud Globale, non la diminuzione dei consumi di europei ed europee.

La pandemia, similmente alla recessione del 2008 e alla Grande Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti, ci mostra che la netta riduzione delle emissioni di gas serra è raggiungibile solo con la diminuzione dell’attività economica globale. “Ecco qui la vostra decrescita, siete soddisfatti?” dicono i sostenitori del sistema capitalistico attuale, in reazione alle conseguenze dalla pandemia. Qui è ovviamente importante distinguere tra la decrescita pianificata ed equanime e l’attuale recessione economica, che rappresenta solo il collasso di un’economia basata sulla crescita.

La fede nella modello economico attuale è addirittura così forte che neanche uno dei 116 scenari del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) lo mette in dubbio: contano tutti con diverse intensità di crescita fino alla fine del loro periodo di predizione, cioè fino al 2100. La crescita però è esponenziale. L’attuale aumento del PIL del tre per cento annuo significa che in soli vent’anni l’attività economica raddoppierebbe ed entro il 2100 decuplicherebbe (sarebbe cioè dieci volte tanto). La domanda se un’economia dieci volte più ampia di quella di oggi possa essere verde è dunque piuttosto retorica.

L’IPCC tuttavia non riflette la possibilità di diminuire l’attività economica nei suoi scenari. Preferisce affidarsi a un decoupling da realizzarsi in maniera impossibile e a soluzioni problematiche come l’energia nucleare o le tecnologie di immagazzinamento della CO2 dalla combustione di alberi (le BECCS), che sono in una fase prematura di sviluppo e comportano molti rischi. Uno di questi è il fatto che l’area necessaria alla piantagione di un’adeguata quantità di alberi dovrebbe essere due o tre volte tanto quella dell’India, con conseguenze negative sul costo dei terreni agricoli e dunque degli alimenti.

I motivi del fallimento della crescita economica

Della fine della crescita economica non parlano più solo il movimento della decrescita e gli ambientalisti, ma anche gli economisti mainstream. Dal punto di vista dell’offerta la crescita del PIL ha già raggiunto il suo picco, poiché l’economia ha massimizzato l’utilizzo dei fattori produttivi disponibili e la capacità produttiva.

La popolazione dell’Unione Europea non si allarga più e il massiccio aumento della produttività correlato allo sviluppo delle tecnologie è anch’esso in calo. Altro importante limite alla prosecuzione della crescita è la mancata disponibilità di energia a basso costo. Per ottenere unità d’energia dalle fonti rinnovabili abbiamo bisogno di consumare più energia di prima, quando il petrolio, il carbone e il gas naturale erano merci di facile reperibilità. Un più basso rendimento energetico significa una minore produttività e dunque meno crescita.

In altre parole la crescita economica richiede un’incessante espansione del sistema economico, cioè una trasmutazione della natura in energia e prodotti e una trasformazione delle relazioni umane e dei loro bisogni in servizi. Lo spazio per un’ulteriore commodificazione ed espansione però scompare in fretta.

Ciò si può vedere anche nell’ottica della domanda. I trend economici critici affermano che i nostri bisogni non sono infiniti, come sostiene l’economia mainstream, e anche per questo le aziende devono oggi investire sempre più risorse nella loro pubblicità, grazie alla quale sottopongono alle persone prodotti e servizi di cui non hanno realmente bisogno. Lo confermano gli investimenti nel marketing che crescono a ritmo sostenuto. Dai 400 miliardi di dollari nel 2010 ai 560 miliardi di dollari nel 2019.

La fine della crescita è inevitabile e auspicabile

La gente affianca la crescita economica alla lotta contro la povertà e all’innalzamento della qualità della vita. “Se l’economia crescerà, staremo tutti bene. Non c’è bisogno di ridistribuire la ricchezza, poiché ciò potrebbe solo rallentare la crescita.”

Questa narrativa della crescita economica come un’onda che alza tutte le barche è stata confutata dalla ricerca. La qualità della vita in molti Paesi ricchi, per esempio in Germania e negli Stati Uniti, non è più in salita da diversi di anni, nonostante le loro economie si siano più che raddoppiate, e le ineguaglianze continuino ad aggravarsi, sia tra gli Stati che al loro interno. Siamo arrivati così lontano che 2153 individui oggi detengono un patrimonio superiore al sessanta per cento della popolazione mondiale.

Anche se il report da un lato riconosce che il sistema economico crea disuguaglianze, afferma allo stesso tempo che sia stata proprio la crescita economica globale ad abbassare il numero di persone che vivono sotto la soglia della povertà estrema (1,9 dollari al giorno) dal trentasei per cento nel 1990 al dieci per cento nel 2015. Definisce così il capitalismo come un progetto ben riuscito, che ha soltanto bisogno di qualche riforma.

Dalla prospettiva della decrescita una simile argomentazione trova subito alcuni inghippi. Il primo di questi è il presupposto che più dollari al giorno possano soddisfare più bisogni primari. Se si arriva alla commodificazione e all’esclusivizzazione dei beni comuni, due o tre dollari in più non sono di aiuto a chi ha perso terreno agricolo come conseguenza della privatizzazione, non lo aiutano a pagare l’educazione dei suoi figli o le cure sanitarie.

Se però volessimo giocare al gioco dei numeri, il limite odierno del dollaro virgola nove al giorno non corrisponde alla realtà vissuta neanche nei Paesi più poveri. Molto più reale secondo tutta una serie di economisti sarebbe stabilire una soglia globale della povertà di cinque dollari al giorno a persona, che ci farebbe rendere conto che oggi si trovano in estrema povertà 4,3 miliardi di persone, cioè più della metà della popolazione mondiale. E la favola del successo del capitalismo come onda che alza tutte le barche si dissolve all’istante.

L’ultimo report Oxfam per di più mette in allerta riguardo al fatto che a causa della pandemia le ineguaglianze economiche si possono aggravare in tutti i Paesi. È scioccante che dieci degli uomini più ricchi del mondo abbiano visto le loro proprietà salire di mezzo bilione di dollari dall’inizio dell’epidemia. È più di quanto serva a pagare i vaccini per tutto il mondo e a estinguere la povertà, che è invece ora un rischio per un’altra imponente parte della popolazione a causa della crisi pandemica.

Significa che è la fine del capitalismo?

Il movimento della decrescita non reagisce solo di fronte alla crisi ambientale e climatica, ma anche a quella economica, le cui disuguaglianze tolgono il fiato. Il lettore non sarà sorpreso dal fatto che il resoconto dell’istituzione europea che indica la decrescita come fonte d’ispirazione non approfondisca le sue concrete proposte politiche. Scopo di queste misure è infatti ridistribuire la ricchezza esistente, per esempio con un’imposta progressiva dei redditi e dei capitali dei più ricchi, con una politica di reddito massimo o con una riduzione dei debiti alle parti più povere della società. Proprio questa ridistribuzione può abbassare le disuguaglianze nella società e finanziare per esempio un reddito di base incondizionato, che secondo il report è supportato da addirittura il sessanta per cento degli europei e le europee, oppure la necessaria transizione all’energia rinnovabile o all’agricoltura rigenerativa.

La critica alla narrativa sull’auspicabilità della crescita economica era stata finora prerogativa dei dibattiti accademici e attivisti di minoranza. Questo report dimostra che stiamo giungendo ad un’importante tappa: la narrativa della crescita economica sta cominciando ad essere smantellata anche a livello istituzionale.

Non riconosce tuttavia che la crescita economica è dipendente dalla continua commodificazione, espansione e accumulazione privata delle risorse, queste le fondamenta del capitalismo, e neppure che l’economia della decrescita propaga l’esatto opposto, cioè decommodificazione, contrazione dell’attività economica e un supporto molto maggiore ai servizi e ai beni pubblici. Se davvero riusciremo a liberarci dell’imperativo dell’economia della crescita, solo difficilmente potremo poi definire il nuovo sistema come capitalistico.

La domanda è fino a che punto nei prossimi anni i politici europei prenderanno spunto dai dati scientifici e dalle conclusioni dell’Agenzia europea dell’ambiente. Il più grande sforzo europeo per risolvere la crisi climatica è finora rappresentato dal Patto Verde, che viene però delineato soltanto come una riforma del sistema attuale, indirizzata ad un’ulteriore crescita verde. Gli ampi investimenti per diffondere le fonti di energia rinnovabile o per le innovazioni nell’economia circolare sono sicuramente opportuni, ma se non ci liberiamo della dipendenza dalla crescita economica non risolveremo mai le crisi attuali.

L’autore dell’articolo si sta specializzando in Studi Ambientali alla Facoltà di Scienze Sociali della Masarykova Univerzita di Brno, Repubblica Ceca. È attivo nel movimento di lotta al cambiamento climatico, lavora, fa volontariato e si occupa di sensibilizzazione nell’ambito delle economie alternative, dell’educazione globale, della formazione primaria e dell’ambiente per varie ONG e progetti anche a livello nazionale.

Traduzione di Silvia Pezzato, studentessa e compagna di corso di Tadeáš, attivista e linguista.

Articolo originale pubblicato su Alarm è un giornale online indipendente della Repubblica Ceca. Alarm è nato nel 2013 come spazio di commento al bisettimanale di critica culturale A2 e si è poi trasformato in un giornale che si interessa di condizioni lavorative, abitative e sindacali, di notizie internazionali e supporta i movimenti femministi, ecologisti, autonomi e sociali.