Dopo le occupazioni delle aule, gli studenti dell'Orientale e della Federico II si prendono uno spazio nel centro storico. Nasce così Zone d'Esperienza Ribelle Zero (ottantuno), il primo centro sociale d'Italia figlio del movimento studentesco del 2010. «Vogliamo avere rapporti con il territorio, il nostro modello è l'autogestione»
Una
piccola folla di ragazzi sistema panche e vivande tra palazzi e
monumenti diroccati e l'ingresso della mensa dell'università
Orientale a piazza Banchi nuovi, cuore antico di Napoli. Monumenti e
mensa sono stati dismessi dalla modernità: nessuno si cura dei
primi, chiusa la seconda. Antieconomico. E allora arrivano gli
studenti antigelmini, la generazione anni zero, per cercare di
rifunzionalizzare struttura, ateneo e quartiere. La prima attività,
dopo l'occupazione dello spazio, è stata il pranzo sociale di
martedì scorso (stasera festa di autofinanziamento a Palazzo Giusso)
mentre si lavora alla totale copertura della rete wireless interna,
rassegna stampa, aula studio. Naturalmente anche a riavviare
l'attività di mensa aperta a tutti. Il nome scelto è Zero - Zone
d'Esperienza Ribelle zero (ottantuno), 081 come il prefisso di
Napoli, «perché da qui non ce ne andiamo».
Giovanni si è
iscritto all'Orientale nel 2005, Scienze politiche, sono in cinque in
famiglia, casa in affitto, due stipendi da impiegati, niente lussi,
eppure rientra nella fascia medio alta, paga di tasse circa 700 euro.
Chi ha i genitori liberi professionisti, che magari evadono un po',
ha tasse più basse. Cinque anni fa sognava di rimanere
all'università, fare il dottorato di ricerca. Si è iscritto il
primo anno di introduzione del 3+2 e quello che ha trovato è stato
un mondo sconvolto da una riforma che non è servita né a formare né
a trovare lavoro: «Otto esami l'anno, un percorso più lungo ma
dequalificante. Ti fanno studiare su dispense, frammenti di libri a
cui incollare i crediti, sanno solo che devi fare presto. Ogni anno
cambiano il percorso di studio cercando di far funzionare una cosa
che non funziona, poi ti dicono adesso fai la tesi, 50 pagine, non ci
mettere tanto che comunque non serve a niente. Ai cortei antigelmini
c'erano tanti studenti medi, la sola cosa che sanno è che non
vogliono fare la nostra fine».
Il senso delle riforme era
sfornare laureati e non formare studenti, come se l'unico problema
dell'università fossero i fuori corso. L'ossessione dei presidi
avere sulla carta alti rendimenti in modo da ottenere una fetta
maggiore di fondi, procedendo lungo una strada che, se non si inverte
la rotta, porterà alla cancellazione delle facoltà umanistiche, di
cui si è già proposto di abbassare il titolo a un rango inferiore.
Gli atenei del sud, poi, sono travolti dalla crisi del territorio.
Per la generazione zero hanno completamente cessato la funzione di
'ascensore' per la scalata sociale. Funzione affidata alle università
private, che ti vendono il loro mondo di relazioni economiche o
l'illusione di esse. La formazione è sparita dall'agenda in ogni
caso. «I professori di ruolo all'epoca dell'Onda erano in piazza con
noi, cercavano di difendere i fondi statali. Poi però la nostra
critica al baronato e la loro capacità di mediare con i vertici li
hanno tenuti lontani quest'anno».
Mario, anche lui iscritto a
Scienze politiche, spiega come le generazioni precedenti non riescono
a capire le loro proteste: «Mio padre faceva due lavori per
mantenersi agli studi. A 27 anni ha avuto un contratto a tempo
indeterminato in un ospedale come tecnico di laboratorio, adesso
sarebbe impensabile. Ha continuato a fare anche il parcheggiatore
fino alla laurea. Per lui fare sacrifici significava spezzarsi la
schiena per un certo numero di anni fino a sistemarsi. Oggi quella
fase si è dilatata fino a inghiottirci». Mario e Giovanni lavorano
in un bar, 30 euro a sera dalle 18 alla chiusura. Il proprietario è
un compagno e li paga meglio della media, 20/25 euro. Qualcuno, per
mantenersi, vende occasionalmente erba, è il loro welfare. Elena è
una loro collega, paga 223 euro uno stanza con altre tre persone, si
mantiene lavorando anche lei in un bar: dalle 10 alle 19 a servire in
un locale senza acqua calda per 31 euro al giorno, se deve restare di
più niente straordinario, niente extra per i festivi, peggio di
Marchionne. Queste sono le condizioni in tutta la piazza, bei bar di
moda che fanno soldi anche con la crisi. «Se fai storie c'è un
esercito di ragazzi disposti a prendere il tuo posto. Abbiamo indetto
una riunione tra noi camerieri sfruttati, proveremo a portare avanti
la vertenza» racconta Elena sorridendo e, intanto, si informa se,
una volta rimessa in funzione la mensa, può venire a lavorarci.
Sono
i ragazzi generazione zero, sono quelli che nelle aule occupate
dell'Orientale e della Federico II organizzano seminari con
ricercatori e professori che la ricerca la fanno sul serio, via Skype
mettono su di battiti sulla crisi da Londra e Atene, in agenda la
Palestina e la Tunisia. Con Luigi Lo Cascio, Claudio Santamaria e gli
orchestrali del Teatro San Carlo discutono di tagli alla cultura. Il
14 dicembre erano a Roma, uniti contro la crisi. Ieri discutevano di
come bloccare la riforma Gelmini e dello sciopero del 28 gennaio. Se
chiedi loro cos'è l'università oggi ti dicono che è un guscio
vuoto, «la possono pure chiudere per come è ridotta». Qualcuno è
emigrato, loro però non vogliono andare via. Pretendono di
contribuire alla costruzione di percorsi formativi reali, l'ateneo
come luogo dove sviluppare rapporti con il territorio, con le
comunità in lotta come a Terzigno e Chiaiano, è il luogo dove
cominciare a costruire il futuro che ora non hanno. «Faremo come in
Argentina con l'autogestione delle fabbriche chiuse dalla crisi,
riapriamo spazi, investiamo soldi e lavoro, chi voleva fare il
formatore può organizzare doposcuola. Non per il profitto ma per
l'esistenza».
Articolo di Adriana Pollice
Napoli i No Gelmini escono dall'ateneo
Francesca Pilla intervista Giso Amendola
Si
sono riuniti martedì per la prima volta all'Istituto Orientale di
Napoli e hanno provato a costruire qualcosa di opposto al modello
Gelmini, liberare il sapere, decompartimentarlo, unirsi per
collettivizzare le informazioni e non renderle funzionali alla
privatizzazione. L'iniziativa è andata bene, ed è stata accolta da
un'aula magna stracolma ed entusiasta all'idea di creare uno «spazio
dove sviluppare un discorso capace di attraversare la linea
immaginaria che unisce tutti i sud dell'Italia, dell'Europa, del
globo terreste». Si chiama Libera università studi suddalterni
(Luss) ed è una rete di ricercatori, studiosi e rappresentanti dei
movimenti che si riuniscono sul confine del fuori e dentro gli
atenei. A curare l'iniziativa Antonio Musella dei centri sociali,
Leandro Sgueglia dei collettivi universitari, Tiziana Terranova
docente dell'Iuo di studi postcoloniali, e Giso Amendola, docente di
sociologia del diritto a Fisciano, con cui proviamo a capire di più
il senso di questo progetto collettivo.
Cerchiamo
innanzitutto di spiegare: cosa sono gli studi subalterni?Si
sviluppano in India nel territorio post-coloniale per contestare
l'idea che la modernità sia un senso univoco e uno spazio vuoto,
dunque non come un'esperienza residua, ma una presa di parola
partendo dalla consapevolezza di essere stati parlati lungamente
dalla lingua degli altri. Da qui il gioco di parole della Luss, dove
subalterni diventa «suddalterni». Questo perché vogliamo leggere
in maniera differente la categoria del Sud in generale, e in
particolare per quello italiano per smontare diversi luoghi
comuni.
Per
esempio?L'intenzione
è quella di mappare il Sud e cercare di comprendere se corrisponda a
realtà il luogo comune generale, imposto dal discorso pubblico, che
tende a rappresentarlo come un'economia arretrata per dimostrare
l'ineluttabile necessità di seguire a tappe forzate il modello
sviluppista. La domanda è: siamo davvero un tessuto marginale oppure
esiste una produzione meridionale originale, specifica e sommersa?
Questo ci darebbe la possibilità di critica verso un'idea del
capitale precostituita che riesce a condizionare anche un certa
sinistra, bloccata dal linguaggio maggioritario. Crediamo che sia
fondamentale attraversare le categorie di modernità e sviluppo
imposte e domandarci, per esempio, se nel conflitto sulla produzione
non esistano altri modelli già presenti sul territorio che vengono
ignorati. Un percorso che in ogni caso non può prescindere dalla
critica sui confini dell'Europa, che non possono essere prestabiliti,
anzi vanno ridisegnati senza limitazioni. Il nord Africa, solo per
citarne uno, non è un altro mondo, ma è parte integrante del nostro
Mediterraneo.
Dopo
l'assemblea di martedì qual è il passaggio successivo?Ci
siamo dati due priorità, iniziare il lavoro d'inchiesta e mappatura,
nonché portare avanti un lavoro seminariale e di ricerca che
sicuramente approderà ad altre assemblee di discussione e magari
anche a delle pubblicazioni sul web. Ma non andremo avanti con metodi
tradizionali, il Sud è stato sempre approcciato dal punto di vista
emergenzialistico, usato come scusa per governarlo. Noi vogliamo
guardarlo anche da un'altra angolazione per rielaborare le istanze
del territorio non in chiave vittimista o marginale, ma con la
capacità di prendere parola soggettivamente. Insomma basta con la
solfa del Sud arretrato, bisogna smontare diversi luoghi comuni.
Come
vi collegate con il movimento anti-Gelmini?Aprendo
la costruzione di reti formate da studiosi e ricercatori sul confine
del dentro e fuori l'Università, e in concreto ampliandola come una
forma di vita che contraddice la compartimentazione funzionale del
sapere culturale che è dentro la riforma. Proponiamo dunque un
metodo di ricerca che coinvolga i ricercatori in orizzontale,
escludendo quel rapporto di docente/discente che si instaura nei
luoghi tradizionali di ricerca. Da qui la stretta interlocuzione con
movimenti, la dialettica tra pratica e teoria, senza barriere o
limiti.