No, non può più essere "normale" morire di lavoro

Alcune note sulla morte dei cinque operai al cantiere dell'Esselunga di Firenze.

19 / 2 / 2024

“Se io non torno, brucia tutto”. Inizia così il post pubblicato dalla pagina facebook del Collettivo di Fabbrica GKN dopo l’ennesima strage sul lavoro, una delle più gravi degli ultimi anni, avvenuta a Firenze per il crollo di un pilone nel cantiere di un supermercato Esselunga. Lo slogan richiama il noto frammento della poesia dell’attivista peruviana Cristina Torres Cáceres “se non torno domani, distruggi tutto”, che poco più di due mesi fa infiammava le piazze di tutta Italia dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin.

Badate bene, non si tratta di uno scimmiottamento, perché stiamo parlando di due facce della stessa medaglia; anzi parliamo proprio della medesima faccia. Il capitalismo uccide in molti modi: tra le mura domestiche, nelle relazioni patriarcali, in fabbrica, in cantiere, a scuola, sui confini o in mezzo al mare. Spesso si tratta di connessioni invisibili, o talvolta è l’abitudine a guerreggiarsi tra poveri che ci fa vedere tutto così distante e frammentato.

Due dei cinque morti di Firenze probabilmente erano “clandestini”, quelli che la retorica reazionaria taccia come nemici giurati del nostro Paese. La magistratura sta indagando, sembra che alle spalle ci sia l’ombra del lavoro nero: ma che scoperta sensazionale! In ogni caso, quattro su cinque erano di origine nord-africana: Mohamed El Ferhane (24 anni), Taofik Haidar (45), Bouzekri Rahimi (56) erano marocchini; Mohamed Toukabri (54) tunisino. Chissà quante volte si saranno sentiti dire “ci rubate il lavoro”, e magari avranno anche provato un assurdo senso di colpa per questo; ora che oltre al lavoro ci hanno “rubato” la morte forse qualcuno starà gioendo, perché anche il senso di colpa va in una direzione sola. L’ultima vittima, la prima a essere trovata, è Luigi Coclite, sessantenne di origine abruzzese, quasi vicino alla pensione: non era straniero, ma aveva anche lui alle spalle una vita di immigrazione mista a fatica e sudore.

La strage di Firenze racconta forse più di altre la tragedia del lavoro in questo Paese, perché ci parla di un quarantennio di politiche volte non solo a smantellare qualsiasi idea di tutela e diritti, ma a relegare la classe lavoratrice in una condizione di sottomissione quasi assoluta. Nella farsa neoliberale la tanto agognata competizione è diventata sempre più competitività, performance. E se talvolta emergono storie di riscatto queste sono sempre individuali, mai collettive; ci si riscatta nel lavoro e mai dal lavoro. Come ha scritto Simona Baldanzi su Jacobin: «Non si considera (..) cosa è diventato il lavoro, cosa sono diventati i rapporti di forza, cosa sono diventate certe vite che per vivere hanno bisogno di lavorare. Abbiamo tracce dei motivi ovunque e non li vogliamo vedere fino in fondo, li viviamo tutti i giorni e non riusciamo a impedirli, per la verità non ci sforziamo neanche».

Ed è forse proprio in questo passaggio che si è normalizzato lo sfruttamento, che si normalizzano le morti sul lavoro. È diventato socialmente accettato essere costretti per pochi euro a muoversi ogni giorno in giro per i cantieri italiani, come facevano prima di morire i turnisti Mohamed El Ferhane e Taofik Haidar. Non è più un problema quello di spacchettare gli appalti in una miriade di esternalizzazioni fino a farne perdere le tracce. Se poi abbiamo una premier come Giorgia Meloni, per la quale l’unico modo per rilanciare l’economia è quello di dare più potere contrattuale alle imprese, allora capiamo che c’è un legame ben solido tra scelte politiche e paradigmi culturali egemoni.

Come accade per i femminicidi, anche per le morti sul lavoro ci si indigna (o quantomeno si finge di farlo) per l’evento e non per il processo che ne è alla base. Le piazze transfemministe dello scorso autunno ci hanno insegnato a guardare la luna e non il dito, ed è probabilmente questo il passaggio politico che dobbiamo fare ovunque con urgenza, uscendo dai sensazionalismi e attaccando la complessità dei fenomeni. Perché – per l’appunto – il capitalismo uccide ovunque con la stessa brutalità, a casa, in fabbrica, a Gaza e negli incendi di Valparaiso dovuti alla crisi ecologica. Unire questi tasselli di morte ci serve per recuperare una narrazione contundente e collettiva sulla vita. E per chi non torna, bruciamo tutto per davvero.