1. Nella Comunicazione della Commissione al Consiglio dell’ Unione Europea del 30 novembre 2006 “ Rafforzare la gestione delle frontiere marittime meridionali” si individuava “ l’esigenza di cooperare con i paesi di transito dell’Africa e del Medio Oriente per trattare la questione dei migranti illegali” osservandosi peraltro come non fosse possibile “creare da un giorno all’altro i necessari livelli di cooperazione fattiva e politica con quei paesi, livelli che tuttavia si stanno gradualmente stabilendo in base al dialogo e alla cooperazione sui problemi della migrazione nell’ambito degli accordi di associazione euro-mediterranei e dei piani di azione per la politica europea di vicinato (PEV)”.
In assenza di strumenti operativi idonei a praticare una autentica solidarietà con gli abitanti dei paesi più poveri, con iniziative affidate agli enti locali ed alle organizzazioni non governative, si è tentato di imporre ai governi degli stati di transito, soprattutto dei paesi nord-africani, accordi bilaterali di collaborazione basati sul finanziamento delle politiche di arresto, di detenzione e di espulsione dei migranti irregolari, prima che questi potessero tentare l’ultimo salto, la traversata verso l’Europa. In questa direzione l’Italia e la Spagna hanno offerto gli esempi più eclatanti, nei rapporti, rispettivamente, con la Libia e con il Marocco, concludendo accordi bilaterali e/o intese a livello di forze di polizia che hanno permesso il blocco e l’arresto di migranti,in molti casi potenziali richiedenti asilo e minori non accompagnati, anche se provenienti da paesi terzi, in cambio di trattamenti preferenziali negli scambi commerciali con i paesi dell’area comunitaria.
Per quanto riguarda il controllo
delle frontiere marittime, in particolare, già nel 2006 si
sottolineava da parte della Commissione Europea la necessità che
che l’Unione europea adottasse una duplice impostazione, individuando
una serie di provvedimenti complementari che possano essere attuati
separatamente:
provvedimenti operativi che si possano eseguire
immediatamente, intesi a combattere l’immigrazione illegale, proteggere i
rifugiati e rafforzare il controllo e la sorveglianza delle frontiere
marittime esterne;
sviluppo delle relazioni già esistenti e della cooperazione
pratica già stabilita con i paesi terzi, tramite il proseguimento e il
rafforzamento del dialogo e della cooperazione con i paesi terzi sulle
misure operative nell’ambito degli accordi di associazione
euromediterranei e dei piani di azione PEV, nonché nel quadro
dell’accordo di Cotonou”.
Si prendeva comunque atto, da parte della Commissione, come l’immigrazione irregolare via mare alle frontiere esterne marittime meridionali dell’Unione europea fosse ormai diventata un fenomeno misto, “comprendente al tempo stesso immigranti illegali che non richiedono particolare protezione e rifugiati che necessitano di protezione internazionale” . Secondo la Commissione “la risposta dell’Unione va orientata di conseguenza. L’asilo deve costituire un elemento di rilievo di tale risposta e un’opzione efficace per le persone che necessitano di protezione internazionale. A tale scopo, occorre assicurare che gli Stati membri applichino con coerenza ed efficienza gli obblighi di protezione, per quanto riguarda l’intercettazione e il salvataggio in mare di persone che possano necessitare di protezione internazionale e la sollecita identificazione di queste persone dopo lo sbarco, presso i luoghi di accoglienza. Va sottolineato che, da questo punto di vista, i paesi terzi hanno naturalmente gli stessi obblighi”.
La Comunicazione della Commissione al Consiglio adottata nel 2006 lasciava tuttavia numerose questioni irrisolte, dal punto di vista operativo e dal punto di vista del rispetto del diritto internazionale del mare.
Da una parte si affermava infatti che “determinare più esattamente il corretto modus operandi per intercettare le imbarcazioni che trasportano, o che si sospetta che trasportino, immigranti illegali nell’Unione europea migliorerebbe l’efficienza, decisamente necessaria, delle operazioni congiunte volte a prevenire e dirottare l’immigrazione illegale via mare, alle quali partecipano le forze di diversi Stati membri che non sempre hanno un’idea comune sul modo e sul momento in cui svolgere tali intercettazioni. Nello svolgimento delle operazioni congiunte, la chiave del successo è costituita dal lavoro di squadra e dalle sinergie tra gli Stati membri. In tale contesto, accordi regionali potrebbero definire il diritto di sorveglianza e di intercettazione delle imbarcazioni nelle acque territoriali dei paesi di origine e di transito, agevolando l’attuazione di operazioni congiunte da parte di FRONTEX, in quanto eviterebbe la necessità di accordi ad hoc per ogni singola operazione”.
Si sottolineava tuttavia che “una questione da approfondire e chiarire è la determinazione del porto di sbarco più appropriato dopo il salvataggio in mare o l’intercettazione; strettamente legato ad essa è il problema dell’attribuzione delle responsabilità di protezione tra i vari Stati che partecipano alle operazioni di intercettazione, ricerca e salvataggio, nei confronti di coloro che richiedono protezione internazionale. Infatti la determinazione del luogo appropriato per lo sbarco implica spesso, in pratica, che lo Stato interessato sia competente per l’esame delle esigenze di protezione dei richiedenti asilo tra le persone salvate o intercettate”.
Per la Commissione Europea “merita particolare attenzione è la portata degli obblighi di protezione imposti a uno Stato dal rispetto del principio di non respingimento,nelle numerose e diverse situazioni in cui le imbarcazioni di uno Stato attuano provvedimenti di intercettazione o di ricerca e salvataggio. Più specificamente, si avvertiva la necessità di “ analizzare le circostanze nelle quali uno Stato può essere tenuto ad assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo in applicazione del diritto internazionale in materia di rifugiati, in particolare laddove tale Stato sia impegnato in operazioni congiunte o in operazioni svolte nelle acque territoriali di un altro Stato, o in alto mare. Secondo la Commissione, “sulle questioni che non sarebbero contemplate da accordi bilaterali o regionali, la definizione di orientamenti pratici potrebbe conferire maggiore chiarezza e un certo grado di prevedibilità per quanto riguarda il rispetto degli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto internazionale. Sarebbe quindi opportuno redigere tali orientamenti in stretta collaborazione con l’Organizzazione marittima internazionale (OMI) e con l’UNHCR, e ricorrendo a una vasta gamma di consulenze. In particolare, andrebbe considerato attentamente il lavoro svolto nell’ambito dei pertinenti comitati dell’OMI, che fra l’altro riguarda l’attuazione degli obblighi in materia di ricerca e salvataggio basati sul diritto internazionale”.
La commissione europea ha dunque avvertito già da anni il rischio che le misure contro l’immigrazione clandestina potessero risultare in contrasto con il diritto internazionale e con il diritto di asilo, anche nelle concrete modalità operative degli interventi di controllo delle frontiere, ma rinviava ad un secondo momento la “ definizione di orientamenti pratici” a fronte della consapevolezza diffusa che comunque non si sarebbe mai arrivati ad una modifica immediata del diritto internazionale del mare a causa della impossibilità di trovare soluzioni generalmente condivise da parte dei diversi attori nazionali ed internazionali coinvolti.
2. Il fallimento dei sistemi di controllo delle frontiere marittime da parte di “pattuglie congiunte” dell’Unione Europea, anche in quelle zone dove si sono addotti significativi “successi”, come nel tratto di mare tra il Marocco e le Isole Canarie, al di là della costituzione ( sulla carta) di un corpo comune di polizia di frontiera ( RABIT), ha riproposto la convenienza della vecchia politica degli accordi blaterali, ed è proprio grazie a questa politica che la Spagna ha potuto ottenere una significativa riduzione degli sbarchi di clandestini sulle sue coste, dopo avere concluso accordi con il Senegal, la Mauritania ed il Marocco. Dopo la Spagna è venuta l’Italia con gli accordi bilaterali con la Libia che, a partire da maggio del 2009, hanno comportato una drastica riduzione delle partenze da quel paese e quindi degli arrivi in Sicilia.
L’assenza di una politica comunitaria unitaria in materia di immigrazione ed asilo, a partire dalla impossibilità di individuare una procedura unica e criteri generalmente condivisi per la distribuzione dei richiedenti asilo, ha ridotto nel frattempo la “solidarietà europea” ad una mera questione contabile per il finanziamento dell’agenzia Frontex e per il funzionamento del sistema Dublino.
Sembra dunque fallito il sistema di controllo delineato tra il 1985 ed il 1990 dagli accordi di Schengen e di Dublino, come è confermato dalla crescita esponenziale dei cd. “overstayers”, migranti irregolari che sono entrati con un visto breve Schengen (VIS) e dalla riduzione dei soggetti che accedono alla procedura di asilo alle frontiere europee, anche per i comportamenti abusivi di paesi come la Grecia o Malta che non sono apparsi particolarmente inclini a collaborare nell’ambito di una gestione congiunta delle richieste di asilo. Non è stata neppure approvata la proposta di direttiva del 2001 che prevedeva la possibilità di canali di ingresso legale per ricerca di lavoro.
A livello europeo si è raggiunto soltanto un accordo di facciata sulle misure repressive che dovrebbero arginare i movimenti secondari dei migranti irregolari come il Regolamento 2004/2007/CE istitutivo dell’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne, ma, senza canali di ingresso legali, le politiche di sbarramento delle frontiere aumentano il tasso delle partenze degli immigrati irregolari e dunque il profitto dei trafficanti oltre ad arricchire i datori di lavoro che sfruttano i migranti costretti all’ingresso clandestino. E questo disastro umano viene propagandato come un “successo storico” anche se sono soltanto 80-90.000 all’anno i migranti che riescono ad attraversare il Mediterraneo giungendo in Europa, mentre sono diverse centinaia di migliaia coloro che attraversano clandestinamente le frontiere terrestri, o giungono negli aeroporti internazionali, oppure ancora si trattengono nel territorio europeo dopo la scadenza del visto breve ( tre mesi) previsto dal Codice delle Frontiere Schengen.
3. Le direttive comunitarie adottate nell’ambito del programma di Amsterdam ( 1999-2004) sono risultate vincolanti solo per gli standard minimi che garantivano, ad esempio in materia di procedure di asilo e di protezione sussidiaria (come la direttiva 2005/85/CE ), e la collaborazione tra i paesi membri è avvenuta soprattutto a livello di cooperazione amministrativa, tra accordi di riammissione fantasma (mai ratificati dai parlamenti nazionali) ed accordi ( più spesso semplici intese operative) tra le forze di polizia dei diversi stati. Anche il Regolamento Dublino II n. 343 del 2003 rimane applicato solo in parte, anche se sono insabbiate le procedure per una sua revisione sostanziale auspicata già da anni. Procede invece molto bene, e non solo sulla carta, lo sviluppo degli apparati repressivi ed espulsivi, la collaborazione per rimpatriare i migranti irregolari, con voli charter “congiunti”, con l’obiettivo soprattutto di effettuare “refoulement”, respingimenti diretti ed immediati, di persone che hanno subito il rigetto della domanda di asilo, o sono semplicemente qualificati come migranti “illegali”. Spesso queste procedure di allontanamento forzato si svolgono nella forma di vere e proprie espulsioni collettive, in paesi che non rispettano i diritti fondamentali della persona umana, A scapito della vita e della dignità umana prevale ovunque la discrezionalità amministrativa ed il calcolo politico od elettorale.
Se i ventisette paesi non trovano un accordo a Bruxelles nelle sedi istituzionali, con l’approvazione del Parlamento Europeo, è sufficiente un vertice di ministri dell’interno o dei capi delle polizie dei singoli paesi per stabilire, magari dietro la formula della “cooperazione rafforzata” (solo tra alcuni stati membri) la politica dell’immigrazione praticata effettivamente a livello europeo. Le stesse modalità operative dell’agenzia FRONTEX, creata con un regolamento assai generico nel 2004, ma adesso integrate dalle linee guida approvate dal Parlamento Europeo, rivelano una preoccupante separazione tra la sfera della intelligence e degli interventi operativi dei vari comitati delle istituzioni comunitarie, come il COREPER e l’area della responsabilità e del controllo da parte del Parlamento europeo, problema avvertito di recente dallo stesso Parlamento..
I paesi della frontiera sud del Mediterraneo procedono così in ordine sparso, Malta continua a “non vedere” le imbarcazioni di migranti che chiedono soccorso nelle sue acque territoriali, la Grecia applica ancora respingimenti collettivi vietati dalle Convenzioni internazionali, anche nei confronti di donne e bambini, l’Italia alterna interventi di salvataggio a operazioni di respingimento dalle acque internazionali verso le coste libiche o tunisine. Persino le opinioni pubbliche nazionali appaiono rassegnate ad una conta di cadaveri e quando i migranti riescono a salvarsi non vengono generalmente creduti, neppure quando raccontano della morte dei oro compagni.
4. Le cronache confermano da anni il sostanziale “fallimento” delle operazioni Nautilus organizzate a partire dal 2006 nel Mediterraneo centrale dall’agenzia europea FRONTEX, proprio per la mancanza di regole di ingaggio certe e condivise da tutti i paesi partecipanti. Mentre l’Europa si sforza ancora di ricercare linee guida comuni e di armonizzare i diversi regimi nazionali della protezione internazionale, la prospettiva ancora privilegiata a livello nazionale sembra essere quella degli accordi bilaterali, anche ai fini della riammissione dei cd. clandestini, anche nei casi in cui non sia stato possibile verificarne la nazionalità o questa non sia quella dei paesi di transito. La prospettiva dei nuovi accordi bilaterali, come i Protocolli operativi del 2007 ed il Trattato di amicizia del 2008 tra Italia e Libia, va ben oltre la semplice riammissione dei clandestini e comprende aspetti operativi di collaborazione finalizzata al respingimento in mare e di supporto logistico alle operazioni di blocco dell’immigrazione clandestina nei paesi di transito ( dalla fornitura di mezzi militari al finanziamento dei campi di detenzione amministrativa e dei successivi accompagnamenti forzati).
Gli interventi basati sulla cooperazione bilaterale dei paesi rivieraschi vengono riproposti come la “soluzione finale” per bloccare i flussi misti, di migranti economici e potenziali richiedenti asilo che tentano di raggiungere le coste siciliane, all’interno di nuove scelte di politica estera che tendono alla “esternalizzazione” dei controlli di frontiera . Si è osservato che le frontiere ( meglio le pratiche di controllo) Schengen risultino produrre effetti di blocco ormai anche tra la Libia ed il Niger, oppure tra il Marocco e l’Algeria o la Mauritania.
5. Nel 2007 la
Commissione Europea aveva elaborato uno studio in cui analizzava il
quadro normativo internazionale per la sorveglianza delle frontiere
marittime esterne e gli ostacoli alla sua effettiva attuazione. La
Commissione ha poi incaricato un gruppo informale composto da esperti
degli Stati membri, di Frontex, dell’Ufficio dell’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale
per le migrazioni di predisporre orientamenti per le operazioni
marittime di Frontex.
Nel settembre 2007 il Consiglio GAI ( formato dai ministri dell’interno
dei diversi paesi) ha dato il suo appoggio al gruppo invitando "la
Commissione, FRONTEX e gli Stati membri a completare prioritariamente
l’analisi del diritto del mare in quanto rilevante per le operazioni
congiunte di FRONTEX, e [ha chiesto] alla Commissione di riferire al
Consiglio entro la fine dell’anno".
Il gruppo si è riunito cinque volte tra luglio 2007 e aprile 2008 e ha
redatto gli "Orientamenti
per le operazioni marittime di Frontex". I partecipanti non hanno
raggiunto un accordo su
questioni quali le implicazioni in materia di diritti umani e diritti
dei rifugiati, il ruolo di
Frontex e la previa individuazione dei luoghi di sbarco dei migranti.
Ritenendo che le divergenze tra gli Stati membri non avrebbero permesso
di elaborare
orientamenti, la Commissione ha redatto un progetto di decisione sulla
base dei risultati del
gruppo di redazione informale. Il progetto si fondava sull’articolo 12
del codice frontiere
Schengen che autorizza la Commissione ad adottare modalità di
sorveglianza secondo la
procedura di comitato (comitato di regolamentazione con diritto di
“controllo” del Parlamento
europeo).
Come risulta dagli atti comunitari
“il progetto di decisione è stato presentato al comitato del codice
frontiere Schengen per la discussione il 23-24 febbraio 2009. Alcuni
Stati membri si sono opposti fermamente al progetto, principalmente
perché eccedeva le competenze conferite alla Commissione dalcodice
frontiere Schengen.
Altri invece hanno espresso chiaro sostegno, soprattutto per quanto
riguarda la protezione dei diritti umani e dei diritti dei rifugiati.
Altri ancora non avevano ultimato le consultazioni interne, ma hanno
formulato riserve sul progetto.
Alla luce delle conclusioni del Consiglio europeo del giugno 2009, che
ha sottolineato la
necessità di "potenziare le operazioni di controllo alle frontiere
coordinate da FRONTEX, di
definire chiare regole d’ingaggio per il pattugliamento congiunto e lo
sbarco delle persone
soccorse in mare", la Commissione ha deciso di proseguire la procedura
di comitato. Il 19
ottobre dello stesso anno ha presentato al comitato una versione
riveduta del progetto di decisione, che tiene conto di alcune
preoccupazioni espresse dagli Stati membri. Le principali modifiche
apportate sono le seguenti:
gli orientamenti sono stati integralmente ripresi in un
allegato che dovrebbe far parte del
piano operativo stabilito dagli Stati membri partecipanti e dall’Agenzia
Frontex;
stato riformulato il principio di non respingimento che
dovrebbe applicarsi ai casi in cui
sussistano fondati motivi di ritenere che l’interessato possa essere
oggetto di persecuzione o
di altre forme di trattamenti inumani o degradanti;
è stata semplificata la disposizione in materia di
intercettazioni, ricerca e salvataggio nel
contesto delle operazioni di sorveglianza;
il progetto privilegia lo sbarco nei paesi terzi (nel rispetto
del principio di non
respingimento); qualora sia impossibile, lo sbarco avviene nel luogo
geograficamente più
vicino.
Alla fine di Marzo del 2010 il Parlamento europeo ha varato le linee-guida per la ricerca, il soccorso e lo sbarco degli immigrati in pericolo in mare, con una serie di disposizioni che pur non avendo un carattere strettamente vincolante, riguardano l’Agenzia per le frontiere Frontex, prevista dal regolamento 2007/2004/CE. Non si è modificato dunque il regolamento istitutivo dell’Agenzia, ma a causa del suo tenore estremamente generico è stato possibile integrarne la portata con delle “linee guida”. Non sembra che la scelta adottata porterà a prassi più sicure nei confronti di coloro che tentano la traversata per mare verso l’Europa e notevoli dubbi in tal senso erano stati sollevati anche dal Comitato LIBE che aveva suggerito al Parlamento la bocciatura della proposta della Commissione. Sembra in sostanza che la discrezionalità delle forze di polizia e dei governi nelle operazioni di respingimento in mare resterà assai elevata e dunque permarranno le ragioni dei ritardi che nel tempo hanno prodotto processi penali a carico di coloro che intervenivano in azioni di salvataggio ed un aumento consistente delle vittime per la sistematica omissione di soccorso in acque internazionali, omissione preordinata che l’assenza di regole vincolanti in qualche modo agevola e copre.
La Commissione per le libertà civili dell’Europarlamento aveva suggerito all’Aula di respingere la proposta di decisione della Commissione Ue ritenendo che la sua portata andasse oltre le competenze di esecuzione previste e auspicando, comunque, norme obbligatorie e non orientamenti non vincolanti. La proposta della Commissione è invece passata, pur non ricevendo i consensi dell’aula in quanto i voti favorevoli al suo respingimento costituivano una maggioranza semplice e “non qualificata”.
Gli orientamenti proposti dalla Commissione europea, e quindi adottati dal Parlamento europeo riguardano le intercettazioni di navi in mare, le situazioni di ricerca e salvataggio durante le operazioni Frontex di sorveglianza delle frontiere marittime esterne e lo sbarco delle persone intercettate o soccorse. Tra le altre cose, gli orientamenti prevedono che le unità partecipanti alle operazioni prestino assistenza “a qualunque nave o persona in pericolo in mare, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”.
Le unità militari Frontex, inoltre, dovranno prendere in considerazione l’esistenza di una richiesta di assistenza, la navigabilità della nave, il numero di passeggeri rispetto al tipo di imbarcazione (sovraccarico), la disponibilità di scorte necessarie (carburante, acqua, cibo, ecc.), la presenza di passeggeri che necessitano assistenza medica urgente e di donne in stato di gravidanza o di bambini, nonché le condizioni meteorologiche e marine.
Lo sbarco delle persone intercettate o soccorse dovrà essere operato in conformità del diritto internazionale e degli eventuali accordi bilaterali applicabili tra gli Stati membri e i Paesi terzi. Il Parlamento europeo ha ribadito inoltre la necessità di un maggiore controllo parlamentare sulle attività dell’Agenzia Frontex, anche alla luce delle critiche formulate da talune ONG sulle procedure utilizzate nei confronti dei migranti.
Vediamo adesso in dettaglio le
nuove modalità operative degli interventi di ricerca e soccorso adottati
dalle unità che agiscono nelle azioni di controllo delle frontiere
marittime dell’Unione Europea.
Le nuove linee guida adottate dal Parlamento Europeo, come emerge dalla
relazione di accompagamento della decisione, tentano di rispondere a
diverse esigenze:
Alcuni Stati membri, alcuni membri del Parlamento europeo e
parte del mondo
accademico e del mondo associativo hanno espresso dubbi sul rispetto dei
diritti
fondamentali e dei diritti dei rifugiati durante le operazioni Frontex
(soprattutto per quanto
riguarda il divieto di respingimento e l’accesso alle procedure di
asilo) e chiedono quale
diritto si applichi in tali situazioni, in particolare in alto mare, e
quali garanzie assicurino
l’effettivo rispetto di tali diritti. L’obbligo di rispettare i diritti
fondamentali nell’attuazione
del codice Schengen esiste, ma per le operazioni di sorveglianza non è
esplicito. Quanto al
principio di diritto internazionale del non respingimento, gli Stati
membri lo interpretano in
modo divergente, alcuni addirittura negandone l’applicabilità nelle
acque internazionali.
La proposta intende rendere esplicito l’obbligo di rispettare i
diritti fondamentali e i diritti
dei rifugiati nelle operazioni di sorveglianza dell’Agenzia Frontex e
introduce il divieto di
respingere chiunque rischi la persecuzione o altre forme di trattamenti
inumani o
degradanti, divieto che si applicherebbe indipendentemente dallo status
delle acque in cui
si trovano gli interessati.
La proposta di decisione crea una base giuridica di diritto
comunitario per l’esercizio di una
serie di competenze necessarie per l’applicazione efficace dell’articolo
12 del codice
frontiere Schengen, ad esempio per l’ispezione e l’intercettazione di
navi. Stabilisce poi le
condizioni alle quali tali misure possono essere prese nelle varie zone
marittime, comprese
le acque internazionali. Le condizioni comprendono norme pertinenti di
diritto
internazionale di cui facilitano l’attuazione efficace e uniforme nelle
operazioni Frontex
(autorizzazione dello Stato costiero, verifica della bandiera battuta
dalla nave,
autorizzazione dello Stato di bandiera, navi senza bandiera, ecc.).
Nella maggior parte dei casi le operazioni marittime
coordinate da Frontex diventano
operazioni di ricerca e salvataggio. Frontex tuttavia non è un’agenzia
SAR; il suo compito
è contribuire all’attuazione delle norme sui controlli di frontiera. In
pratica, il fatto che
diventino di ricerca e salvataggio sottrae tali operazioni all’ambito di
applicazione del
coordinamento di Frontex e del diritto comunitario. L’obbligo di
prestare soccorso in mare
e le competenze delle autorità SAR sono disciplinati dal diritto
internazionale, che però gli
Stati membri interpretano e applicano in modo eterogeneo.
La proposta di decisione intende garantire il rispetto di tale
obbligo internazionale e
l’applicazione del regime SAR, e stabilisce il principio della
cooperazione con le autorità
SAR già prima dell’inizio dell’operazione specificando inoltre quale
autorità SAR debba
essere contattata qualora l’autorità responsabile non risponda, in modo
che tutte le unità
partecipanti contattino la stessa autorità SAR.
Un’altra divergenza tra gli Stati membri riguarda
l’identificazione della situazione che
impone l’assistenza: per alcuni Stati membri la nave deve essere sul
punto di affondare, per
altri è sufficiente che la nave non sia idonea alla navigazione; per
alcuni Stati membri è
necessario che le persone a bordo chiedano assistenza, per altri no. La
proposta si basa sul
regime SAR e prevede che, allorché sorgano dubbi sulla sicurezza di una
nave o
sull’incolumità di una persona a bordo, debbano essere contattate le
autorità SAR cui vanno
trasmesse tutte le informazioni necessarie per stabilire se sussista una
situazione SAR.
Determinare il luogo in cui dovrebbero essere condotte le
persone soccorse è cosa difficile
ritenuta il punto debole del regime SAR. Le modifiche del 2004 fanno
obbligo a tutti gli
Stati di cooperare per risolvere le situazioni SAR; con la loro
cooperazione, lo Stato
competente per la regione SAR deve decidere dove trasferire le persone
soccorse. Uno
Stato membro non ha accettato tali modifiche. L’aspetto controverso era
il luogo in cui le
persone soccorse devono essere sbarcate nel caso in cui lo Stato
competente per la regione
SAR venga meno ai suoi obblighi al riguardo. Alcuni Stati membri sono
riluttanti a
partecipare alle operazioni perché temono di essere poi costretti a
trasferire le persone
soccorse nei loro territori. La proposta di decisione mira a risolvere
tali situazioni
specificando che, qualora lo sbarco in un paese terzo non sia possibile,
esso ha luogo nello
Stato membro che ospita l’operazione.
La decisione adottata dal parlamento europeo sulle nuove linee guida che dovrebero essere rispettate nel controllo delle frontiere esterne e negli interventi nei quali sia coinvolti l’agenzia Frontex, si basa sull’articolo 12, paragrafo 5, del regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen), che autorizza la Commissione ad adottare modalità di sorveglianza supplementari secondo la procedura di comitato con diritto di “controllo” del Parlamento europeo.
Come chiarisce la relazione allegata alla proposta del Consiglio le nuove linee guida si applicano alla sorveglianza delle frontiere marittime nel contesto delle operazioni di Frontex, il cui mandato comprende l’agevolazione della cooperazione operativa tra gli Stati membri nell’attuazione del codice frontiere Schengen. Si tratta di operazioni rientranti nell’ambito di applicazione del codice frontiere, coordinate da un’agenzia comunitaria e finanziate dal bilancio comunitario.
L’adozione di modalità di sorveglianza supplementari secondo la procedura di comitato è espressamente contemplata dall’articolo 12 del codice. Quando la sorveglianza riguarda le frontiere marittime è evidente che devono essere rispettati il diritto internazionale del mare e il diritto internazionale marittimo. Analogamente, tali operazioni non possono essere condotte in violazione dei diritti umani, compresi i diritti dei rifugiati, come già disposto dal codice. La proposta osserva scrupolosamente questo quadro normativo internazionale: il suo fine è aumentare il rispetto di questi principi nello svolgimento delle operazioni, introducendo nel contempo un grado di uniformità nell’applicazione del quadro normativo da parte di tutte le unità operative che partecipano alle operazioni.
In base alla decisione del Parlamento Europeo che integra il codice frontiere Schengen per quanto riguarda la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne sono dunque fissati gli “Orientamenti per le operazioni marittime di Frontex”
6. Riportiamo adesso per esteso quanto deciso dal Parlamento Europeo, ricordando che anche se si tratta di disposizioni prive di un immediato valore vincolante per i singoli stati, tuttavia queste stesse disposizioni possono assumere un valore vincolante quando già risultino dotate di effetto cogente nei confronti degli stati per effetto di accordi, trattati o convenzioni internazionali, o ancora per espresse previsioni di diritto interno, come l’art. 10 della Costituzione italiana.
1. Principi generali
1.1 Le misure prese ai fini delle operazioni di sorveglianza sono
attuate in modo da
salvaguardare l’incolumità delle persone intercettate o soccorse e delle
unità
partecipanti.
1.2. Durante tutte le operazioni è tenuto conto delle particolari
esigenze dei minori, delle
vittime della tratta, di quanti necessitano di assistenza medica urgente
o di protezione
internazionale e di quanti si trovano in situazione di grande
vulnerabilità.
1.3. I presenti orientamenti sono applicati dagli Stati membri nel
rispetto dei diritti
fondamentali. Gli Stati membri provvedono affinché le guardie di
frontiera che
partecipano alle operazioni di sorveglianza ricevano una formazione
sulle
disposizioni pertinenti della normativa in materia di diritti dell’uomo e
rifugiati, e
abbiano dimestichezza con il regime internazionale per la ricerca e il
salvataggio.
2. Intercettazioni
2.1 La nave o altra imbarcazione ("nave") intercettata è avvicinata per
gli accertamenti di
identità e nazionalità e, in attesa di altre misure, viene sorvegliata a
prudente
distanza. Le informazioni sulla nave sono comunicate immediatamente al
centro di
coordinamento istituito nel contesto e ai fini dell’operazione marittima
coordinata da
Frontex.
2.2 Se la nave sta per entrare ovvero è già entrata nella zona contigua o
nelle acque
territoriali di uno Stato membro che non partecipa all’operazione, le
informazioni che
la riguardano sono comunicate al centro di coordinamento che le
trasmette allo Stato
membro interessato.
2.3. Le informazioni riguardanti navi che si sospettano essere
utilizzate per attività illecite
in mare che esulano dalla portata dell’operazione sono comunicate al
centro di
coordinamento che le trasmette allo Stato membro o agli Stati membri
interessati.
2.4. Le misure prese nel quadro dell’operazione di sorveglianza nei
confronti di navi o
altre imbarcazioni che si ha fondato motivo di ritenere trasportino
persone
intenzionate a eludere i controlli ai valichi di frontiera possono
consistere nel:
a) chiedere informazioni e documenti riguardanti la proprietà,
l’immatricolazione
ed elementi relativi al viaggio, nonché l’identità, la cittadinanza e
altri dati delle
persone a bordo;
b) fermare la nave e provvedere alla visita a bordo, all’ispezione della
nave, del
carico e delle persone; interrogare le persone a bordo;
c) comunicare alle persone a bordo che non sono autorizzate ad
attraversare la
frontiera e che i conducenti della nave sono passibili di sanzioni per
aver
favorito il viaggio;
d) sequestrare la nave e fermare le persone a bordo;
e) ordinare alla nave di modificare la rotta per uscire dalle acque
territoriali o
dalla zona contigua o per dirigersi altrove, scortandola o navigando in
prossimità fino a che non segua la rotta indicata;
f) condurre la nave o le persone a bordo in un paese terzo o altrimenti
consegnare
la nave o le persone a bordo alle autorità di un paese terzo;
g) condurre la nave o le persone a bordo nello Stato membro ospitante o
in altro
Stato membro partecipante all’operazione.
2.5. Le misure di cui al punto 2.4 sono prese secondo le seguenti
disposizioni:
2.5.1. Acque territoriali e zona contigua
Le misure di cui al punto 2.4 sono prese previa autorizzazione e
conformemente alle
istruzioni dello Stato membro ospitante trasmesse all’unità partecipante
tramite il
centro di coordinamento. A tal fine, l’unità partecipante comunica allo
Stato membro
ospitante, sempre tramite il centro di coordinamento, se il comandante
della nave
intercettata ha chiesto la notifica a un agente diplomatico o
funzionario consolare
dello Stato di bandiera.
2.5.2. Zona economica esclusiva e alto mare
2.5.2.1. Se la nave batte bandiera ovvero reca dati di immatricolazione
di uno Stato membro
che partecipa all’operazione, le misure di cui al punto 2.4 sono prese
previa
autorizzazione dello Stato di bandiera. Incaricato del rilascio o della
trasmissione
dell’autorizzazione è il rappresentante nazionale di tale Stato membro
presso il centro
di coordinamento.
2.5.2.2. Se la nave batte bandiera ovvero reca dati di immatricolazione
di uno Stato membro
che non partecipa all’operazione o di un paese terzo, è necessario
chiedere conferma
della matricola allo Stato di bandiera tramite i canali appropriati e,
se la nazionalità è
confermata, è necessaria l’autorizzazione dello Stato di bandiera per
prendere le
misure di cui al punto 2.4.
Il centro di coordinamento è tenuto informato di ogni comunicazione con
lo Stato di
bandiera.
2.5.2.3. Se sussistono fondati motivi di ritenere che, pur battendo
bandiera straniera o
rifiutando di esibire la bandiera, la nave abbia in effetti la
nazionalità dell’unità
partecipante, questa provvede a verificare il diritto della nave di
battere la sua
bandiera. A tal fine può inviare alla nave una lancia al comando di un
ufficiale. Se
dopo il controllo dei documenti i sospetti permangono, si può procedere
con ulteriori
indagini a bordo, che saranno svolte con ogni possibile riguardo. Il
paese del quale si
presume che la nave batta bandiera è contattato tramite i canali
appropriati.
2.5.2.4. Se sussistono fondati motivi di ritenere che, pur battendo
bandiera straniera o
rifiutando di esibire la bandiera, la nave abbia in effetti la
nazionalità di un altro
Stato membro che partecipa all’operazione, la verifica del diritto della
nave di battere
la bandiera è svolta previa autorizzazione di quello Stato membro.
Incaricato del
rilascio o della trasmissione dell’autorizzazione è il rappresentante
nazionale di tale
Stato membro presso il centro di coordinamento.
Se i sospetti sulla nazionalità della nave si dimostrano fondati, le
misure di cui al
punto 2.4 sono prese secondo le disposizioni del punto 2.5.2.1.
2.5.2.5. Se sussistono fondati motivi di ritenere che la nave sia priva
di nazionalità o possa
essere assimilata a una nave priva di nazionalità, l’unità partecipante
provvede a
verificare il diritto della nave di battere la bandiera. A tal fine può
inviare alla nave
una lancia al comando di un ufficiale. Se dopo il controllo dei
documenti i sospetti
permangono, si può procedere con ulteriori indagini a bordo, che saranno
svolte con
ogni possibile riguardo.
Se i sospetti che la nave sia priva di nazionalità si dimostrano fondati
e sussistono
fondati motivi di ritenere che la nave sia impegnata nel traffico di
migranti via mare
ai sensi del protocollo addizionale della convenzione delle Nazioni
Unite contro la
criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di
migranti via terra,
via mare e via aria, sono prese le misure di cui al punto 2.4.
Va considerato che una nave è priva di nazionalità o può essere
assimilata a una nave
priva di nazionalità quando nessuno Stato le ha concesso il diritto di
battere la sua
bandiera o quando la nave naviga sotto le bandiere di due o più Stati
impiegandole
secondo convenienza.
2.5.2.6. In attesa o in mancanza dell’autorizzazione dello Stato di
bandiera, la nave è
sorvegliata a prudente distanza. Non può essere disposta nessuna misura
senza
l’esplicita autorizzazione dello Stato di bandiera, salvo se necessario
per far fronte a
un pericolo imminente per la vita umana ai sensi del punto 3 o se
previsto da accordi
bilaterali o multilaterali pertinenti, o se la nave è entrata nella zona
contigua.
2.6. Le attività operative nelle acque territoriali di uno Stato membro
che non partecipa
all’operazione o di un paese terzo si svolgono in conformità
dell’autorizzazione e
delle istruzioni dello Stato costiero. Il centro di coordinamento è
informato di ogni
comunicazione con lo Stato costiero e delle azioni successive.
3. Situazioni di ricerca e salvataggio
durante l’operazione di sorveglianza
3.1. Le unità partecipanti prestano assistenza a qualunque nave o
persona in pericolo in
mare, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica
dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova.
3.2. Nel corso dell’operazione di sorveglianza, in caso di dubbio o
timore sulla sicurezza
di una nave o sull’incolumità di una persona a bordo, l’unità
partecipante trasmette
senza indugio tutte le informazioni disponibili al centro di
coordinamento del
soccorso competente per la regione di ricerca e salvataggio in cui si è
verificata la
situazione.
Qualora il centro di coordinamento del soccorso del paese terzo
competente per la
regione di ricerca e salvataggio non risponda alla notifica trasmessa
dall’unità
partecipante, questa contatta il centro di coordinamento del soccorso
dello Stato
membro ospitante geograficamente più vicino all’emergenza.
In attesa delle istruzioni del centro di coordinamento del soccorso, le
unità
partecipanti prendono tutte le opportune misure per salvaguardare
l’incolumità delle
persone interessate.
3.3. Le unità partecipanti esaminano tutti gli elementi rilevanti e
comunicano la loro
valutazione al centro di coordinamento del soccorso competente,
segnalando in
particolare:
(a) l’esistenza di una richiesta di assistenza,
(b) la navigabilità della nave e la probabilità che questa non raggiunga
la
destinazione finale,
(c) il numero di passeggeri rispetto al tipo di imbarcazione
(sovraccarico),
(d) la disponibilità di scorte necessarie (carburante, acqua, cibo,
ecc.) per
raggiungere la costa,
(e) la presenza di un equipaggio qualificato e del comandante della
nave,
(f) l’esistenza di dispositivi di sicurezza, apparecchiature di
navigazione e
comunicazione,
(g) la presenza di passeggeri che necessitano assistenza medica urgente,
(h) la presenza di passeggeri deceduti,
(i) la presenza di donne in stato di gravidanza o di bambini,
(j) le condizioni meteorologiche e marine.
3.4. L’emergenza non dipende né è determinata esclusivamente da una
richiesta effettiva
di assistenza.
Qualora le persone a bordo rifiutino l’assistenza nonostante la nave
risulti essere in
stato di emergenza, l’unità partecipante ne informa il centro di
coordinamento del
soccorso e continua ad adempiere al proprio dovere di diligenza,
prendendo tutte le
misure necessarie per salvaguardare l’incolumità delle persone
interessate ed
evitando qualsiasi azione che possa aggravare la situazione o aumentare
le
probabilità di lesioni alle persone o perdite di vite umane.
3.5. Il centro di coordinamento dell’operazione è informato senza
indugio di ogni contatto
con il centro di coordinamento del soccorso, e del modo di procedere
dell’unità
partecipante.
3.6. Se la nave non può o non può più considerarsi in stato di emergenza
o l’operazione di
ricerca e salvataggio è conclusa, l’unità partecipante, in consultazione
con il centro di
coordinamento dell’operazione, riprende l’operazione secondo le
disposizioni di cui
al punto 2.
4. Sbarco
4.1. Il piano operativo indica le modalità di sbarco delle persone
intercettate o soccorse,
in conformità del diritto internazionale e degli eventuali accordi
bilaterali applicabili.
Fatto salvo il punto 4.2, va privilegiato lo sbarco nel paese terzo da
cui le persone
interessate sono partite o dalle cui acque territoriali o regione di
ricerca e salvataggio
sono transitate, ovvero, qualora ciò non sia possibile, lo sbarco nel
luogo
geograficamente più vicino che ne garantisce l’incolumità.
4.2. Nessuno può essere sbarcato o altrimenti consegnato alle autorità
di un paese nei cui
confronti sussistano fondati motivi di ritenere che l’interessato possa
essere oggetto
di persecuzione o tortura o di altre forme di pene o trattamenti inumani
o degradanti,
o nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un
siffatto paese.
Alle persone intercettate o soccorse devono essere fornite informazioni
adeguate
affinché possano esprimere qualunque motivo induca a ritenere che
possano essere
oggetto di un tale trattamento nel luogo di sbarco proposto.
4.3. La presenza di persone di cui al punto 4.2 è comunicata al centro
di coordinamento,
che trasmette l’informazione alle autorità competenti dello Stato membro
ospitante.
7. Le nuove linee guida adottate dal Parlamento Europeo non fanno espresso richiamo al divieto di espulsioni ( o di respingimenti) collettivi, norma che è richiamata in diverse convenzioni internazionali e in importanti atti comunitari. Si deve infatti ricordare che i respingimenti collettivi sono vietati dal Protocollo n.4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e gli stati parte dell’Unione Europea che concorrano a realizzare questi illeciti internazionali possono essere chiamati a risponderne davanti alla Corte di Giustizia di Lussemburgo ( competente per le violazioni del diritto comunitario) e davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ( competente per la applicazione della CEDU).
Negli anni passati l’Italia è stata all’avanguardia in Europa nella pratica delle espulsioni collettive verso i cd. paesi di transito, come la Libia e l’Egitto, paesi dai quali numerosi migranti, tra i quali molti potenziali richiedenti asilo, sono stati respinti verso quegli stessi stati, come l’Eritrea, il Sudan, la Nigeria, il Ghana, il Mali, ma anche il Bangladesh, il Pakistan o lo Sri Lanka, dai quali erano fuggiti. Solo a partire dal marzo del 2006 il ministro dell’interno Pisanu ancora in carica per poche settimane aveva sospeso le deportazioni dai centri di detenzione italiani, Crotone in particolare, verso la Libia, mentre era aperta una indagine del Parlamento Europeo per accertare le espulsioni collettive effettuate da Lampedusa verso la Libia a partire dall’ottobre del 2004.
La recente decisione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha disposto l’archiviazione di alcuni ricorsi presentati da una parte degli espulsi in Libia nel 2005, ormai dispersi in varie parti del mondo, ed in qualche caso probabilmente in una situazione di grave restrizione della propria libertà personale, si lega a motivi procedurali che, se sommati al tempo impiegato dalla Corte per la sua decisione, sollevano gravi dubbi sulla effettività della tutela accordata da questo organismo della giustizia internazionale nel caso di respingimenti o di espulsioni collettive, poste in essere dagli stati con tempi e modalità che non consentano la proposizione di un ricorso individuale ed un esercizio effettivo dei diritti di difesa.
Gli accordi bilaterali di riammissione come le misure adottate a livello europeo, e soprattutto quelle disposte da agenzie tecnico operative come FRONTEX, o da gruppi riservati di coordinamento, a livello di forze di polizia o di rappresentanze diplomatiche, non possono risultare in contrasto con il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto. Al di là del carattere non vincolante delle recenti linee guida adottate dal Parlamento Europeo sembra questo un dato da non trascurare in una materia largamente affidata alla discrezionalità delle autorità politiche nazionali e delle autorità di polizia.
La Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS) costituisce la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati - continua l’art. 311 della Convenzione sul diritto del mare - possono concludere accordi che modifichino o sospendano l’applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l’applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l’adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa. Questo principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.
Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’UNCLOS, perché esso costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà. Ogni Stato - si legge nel citato art. 98 - impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.
8. Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’UNCLOS, costituiscono un completamento della norma ora citata. In primo luogo, l’art. 10 della Convenzione del 1989 sul soccorso in mare così dispone: Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 ( Convenzione SOLAS) impone al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.
La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione, con riferimento ai migranti che vengono scoperti in acque internazionali, riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. La Convenzione SAR ( Search and Rescue) di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti.
La Convenzione SAR impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”.
I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Occorre però garantire che dopo l’espletamento delle operazioni di salvataggio i migranti siano ricondotti in un porto sicuro.
Malgrado l’adozione delle linee guida che integrano il Regolamento delle frontiere esterne n.562 del 2006, da parte del Parlamento Europeo, soprattutto nei rapporti con la Tunisia e la Libia, ove si verificasse la partecipazione di unità navali o aeree dell’agenzia FRONTEX, rimangono ancora da definire le regole d’ingaggio delle marine nel caso vengano salvati immigrati in difficoltà e questo può comportare gravi ritardi nelle operazioni di salvataggio, oltre che respingimenti collettivi verso i porti di partenza di paesi che non riconoscono (o non siano nelle condizioni di applicare effettivamente, come nel caso della Tunisia) la Convenzione di Ginevra o altre norme internazionali che tutelano i diritti della persona umana, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili ( donne, minori, vittime di tortura).
In ogni caso, la doverosa cooperazione dello Stato coinvolto nell’operazione di soccorso in mare, d adesso anche dell’Agenzia FRONTEX, comprende l’obbligo dello sbarco dei naufraghi in un “luogo sicuro” sulla base del giudizio del comandante dell’unità che porta a compimento l’intervento di salvataggio, prescindendo dal potere dello Stato stesso di perseguire i presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti di espulsione o di respingimento previsti dalla legge.
Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per conduzione della persona salvata in luogo sicuro. Infatti è dal momento dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli - viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso.
Gli emendamenti approvati nel 2004 ed entrati in vigore
nel 2006, approvati dall’Italia ma non da Malta, insistono
particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero
responsabile della zona SAR nella quale è avvenuto l’intervento di
salvataggio nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente
di gestire a bordo le persone salvate.
Secondo gli emendamenti sul trattamento delle persone soccorse in mare
adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza,
che integrano le convenzioni SAR e SOLAS, “il governo responsabile per
la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è
responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo
venga fornito”.
Secondo le stesse linee guida “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie ( come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.
Sono quindi i naufraghi che possono concorrere ad indicare il luogo di sbarco sicuro, e comunicarlo al comandante della nave sulla quale si trovano, che alla fine sulla base degli elementi a sua conoscenza ha il potere finale di stabilire la rotta della nave, e non le decisioni politiche o delle autorità di polizia. Se nessuno interpella i migranti dopo il trasbordo, o peggio, se nessuno dà loro ascolto, o se mancano interpreti, come avviene molto spesso, il rischio concreto è che le persone vengano immediatamente respinte verso il paese di transito dal quale sono partiti. Anche a costo della loro vita e degli abusi più gravi, soprattutto nel caso di donne.
Si sottolinea in particolare come “ lo sbarco di richiedenti asilo e rifugiati recuperati in mare, in territori nei quali la loro vita e la loro libertà sarebbero minacciate, dovrebbe essere evitato”. Si aggiunge infine che “ ogni operazione e procedura come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco”.
Il problema è che molti paesi rivieraschi per ragioni diverse di natura politica o geografica non riconoscono la operatività di queste convenzioni internazionali. Nel 2007 l’UNHCR ha chiesto in particolare al governo maltese di ratificare i recenti emendamenti alle convenzioni marittime - la Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare del 1979 (SAR) e la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS) - che mirano ad affiancare l’obbligo per gli stati di cooperare nelle operazioni di ricerca a quello dei capitani delle imbarcazioni di fornire assistenza in mare. Malta rimane però ancora oggi uno dei pochi paesi a non aver sottoscritto questi emendamenti e malgrado ( o forse anche per effetto del)l’approvazione delle nuove linee guida sugli interventi di salvataggio da parte del Parlamento Europeo, sono prevedibili altre crisi diplomatiche con l’Italia, come quella occorsa nel caso del mercantile Pinar dopo un intervento di salvataggio nel Canale di Sicilia.
9. Auspichiamo infine che non si continui a utilizzare strumentalmente le convenzioni internazionali per trovare (inesistenti) basi giuridiche per giustificare i respingimenti collettivi che il governo italiano ha posto in essere lo scorso anno verso la Libia, come si è fatto con le Convenzioni contro il crimine transnazionale firmate a Palermo nel 2000.
In base al Protocollo sottoscritto a Palermo nel 2000 contro il Traffico Illegale( Smuggling) di migranti, aggiuntivo rispetto alla Convenzione Delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (ratificato dall’Italia nel febbraio 2006) sono stabilite precise linee di intervento in base al principio secondo cui il traffico di migranti non è un crimine internazionale; per conseguenza, a meno del consenso dello stato di bandiera non è possibile adottare misure che limitino la navigazione di imbarcazioni trasportanti migranti.
In base al protocollo sono così stabiliti principi che
interferiscono con le norme e le consuetudini del diritto internazionale
del mare. In particolare, si prevedono:
Accordi regionali per prevenire, in accordo con il diritto
internazionale del mare, il traffico illecito di migranti;
Casi di richiesta di assistenza in acque internazionali di uno
Stato Parte che sospetti di una nave di propria bandiera agli altri
Stati parte per impedire l’attività illecita di questa
nave;
Casi di richiesta di autorizzazione di uno Stato Parte che
sospetti di una nave di bandiera straniera allo Stato di bandiera per
adottare in acque internazionali, misure di abbordaggio,
visita ed ispezione;
Obblighi, per lo Stato che intervenga, di garantire la
sicurezza ed i diritti umani delle persone trasportate, la safety della
nave e del suo carico e gli interessi commerciali dello Stato di
bandiera o di altri Stati interessati;
Si afferma tuttavia la non interferenza con diritti/ obblighi derivanti
da altre fonti di diritto internazionale compreso il diritto umanitario
internazionale, i diritti umani e la convenzione di Ginevra del 1951 sui
rifugiati e dunque le prassi applicative della Protocollo non possono
risultare in contrasto con quanto previsto dal diritto internazionale e
dalle norme che prevedono il diritto di asilo.
Nessuna norma di diritto internazionale del mare autorizza uno Stato ad esercitare poteri di interdizione su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali (SCOVAZZI).“Le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti ( Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito di immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare” ( così T. Scovazzi in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2003, n.4, p.52).
Le prescrizioni eventualmente derivanti da direttive comunitarie, come quella che nel 2004 ha istituito l’Agenzia di controllo delle frontiere esterne Frontex, o la attuazione di Accordi internazionali come il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale relativo al traffico clandestino di migranti, non intaccano questi principi, autorizzando soltanto il diritto di visita in acque internazionali nel caso di nave senza nazionalità o non battente una bandiera di stato. In caso di interventi per modificare la rotta delle imbarcazioni cariche di migranti bisogna salvaguardare il bene primario della vita umana in mare e non si possono effettuare speronamenti o altre operazioni che costringendo ad un repentino mutamento di rotta potrebbero comportare il capovolgimento dei barconi e l’annegamento dei migranti, come peraltro accaduto in alcune occasioni in passato, tanto nel Canale d’Otranto che nel Canale di Sicilia.
10. Come si è rilevato a partire dal caso Cap Anamur nel 2004, e poi più recentemente nel salvataggio operato dal mercantile turco Pinar, la attuale formulazione della Convenzione di Dublino, modificata nel 2003 dal regolamento Dublino II, determina gravi incertezze sullo stato competente a intervenire in caso di salvataggio di migranti in acque internazionali, soprattutto quando non è possibile accertare immediatamente la nazionalità o l’esatta provenienza dei naufraghi.
Il regolamento Dublino II, in uno studio pubblicato nella primavera del 2006 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) evidenziava la necessità di una sostanziale revisione, al fine di assicurare il rispetto dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati. Il rapporto dell’UNHCR è stato reso pubblico proprio mentre la Commissione Europea era impegnata nella preparazione di una propria revisione del Regolamento. Il funzionamento del Regolamento presuppone che le leggi sull’asilo e le derivanti prassi dei paesi aderenti poggino su standard comuni. Tuttavia – osserva anche tale studio - un’armonizzazione delle politiche d