Pensare lungo

26 / 9 / 2011

I migranti come tema politico non ricorrono di frequente sulla stampa, neppure di sinistra. Intendiamoci: non scarseggiano le cronache delle rivolte e le vicende criminali individuali, che la destra agita a spauracchio dei creduli padani e la sinistra e i cattolici caritatevoli esibiscono con adeguata compassione. Latita invece (fuori dell’ambito saggistico) una riflessione sul ruolo strutturale dei migranti e sul significato più generale delle politiche dell’immigrazione e del contenimento e selezione dei migranti in riferimento alla crisi in atto. Non sono certo mancate invettive e manifestazioni contro Cpt e Cie, solidarietà con le fughe da essi, analisi dell’ondata migratoria dalla Tunisia e dalla Libia e, via via risalendo verso livelli più specialistici, anche una corretta individuazione del ruolo di filtro che le strutture di contenimento e le pratiche di detenzione amministrativa ed espulsione hanno nei confronti del mercato del lavoro. Tuttavia sembra che il problema stenti a trovare centralità nelle proposte politiche della sinistra anche più radicale. Se ci sbagliamo, meglio. Proviamo però a rilanciare il discorso.

Partiamo da quello che ci pare un salto di qualità nella repressione, il trasferimento a Palermo dei migranti tunisini da una Lampedusa in cui il voluto disordine dell’accoglienza (e il fallimento delle trattative con la madrepatria) ha alimentato un clima di guerra fra poveri. I clandestini tunisini (una categoria artificiale a datare dall’aprile 2011, dopo la scadenza del salvacondotto concesso dal Governo, non una specie zoologica) sono stati ammassati sui tre traghetti Moby Fantasy, l'Audacia e la Moby Vincent, ormeggiati al molo Santa Lucia del porto di Palermo, insieme ai loro guardiani nella misura di due poliziotti per ogni custodito. Altri agenti in tenuta antisommossa stazionano sui moli circostanti. Dopo l’esperimento cileno-prodiano della concentrazione degli albanesi nello stadio di Bari –correva il 1991– vengono ora inaugurate le prigioni galleggianti, su modello americano. Stavolta il copyright è di Maroni, anche se non manca un precedente, una nave tenuta di riserva per gli arrestati del G8 2001. In quel caso bastò Bolzaneto di buona memoria. L’idea comunque è valida per futuri tumulti urbani; per gli alpestri no-Tav basterà il tunnel neutronico gelminiano Ginevra-Gran Sasso. La qualità della protezione umanitaria, in primo luogo la verifica dell’asilo politico, scende in tal modo ai livelli dei lager gheddafiani nel deserto libico. Il progetto è quello di deportare il popolo delle carrette per via aerea a Tunisi, a grupponi di 50-100 alla volta. Sistema assai lacunoso e costoso, per di più contrastante con la volontà delle forze politiche tunisine ormai in piena campagna elettorale. Dunque funziona soprattutto da deterrente per eventuali rivolte dei migranti: dentro i centri di accoglienza e detenzione e fuori di essi, sul mercato del lavoro. Volete riprovarci con un’altra Rosarno? Guardate Palermo. Con un altro passo (altrettanto illegale) si potrebbe tentare un’estensione ai migranti regolari troppo rivendicativi e su su fino a investire categorie nazionali particolarmente “riottose”, quando la sesta o settima manovra raggiungerà picchi greci e dilagheranno «gli assalti alle banche» preconizzati dal ministro Usa al Tesoro Tim Geithner. Fantascienza? Lo vedremo nel medio periodo.

Per il momento, dando per scontato il ruolo crescente dei migranti (regolari e ancor più clandestini) nel lavoro nero e nei dispositivi dell’evasione contributiva e fiscale (da cui traggono beneficio soprattutto gli intermediari italiani), quindi l’uso sistematico che se ne fa per impoverire la forza-lavoro e senza ripetere le considerazioni che abbiamo fatto altre volte sulla componente migrante dell’ormai dominante paradigma precario (ricattabilità e sostituibilità), vorremmo porre l’accento su un duplice fenomeno vincolato ai precedenti. L’incidenza decisiva sull’occupazione dipendente (legale e illegale) nell’industria, agricoltura e servizi (nella sezione legale con importante ricaduta sugli accantonamenti pensionistici), non trascurando il contributo ascendente alla formazione di imprese, soprattutto commerciali, da una parte. La sottrazione, dall’altra, di gran parte di questa forza-lavoro al conflitto sociale, dunque un effetto di stabilizzazione in fasi di crisi (lo stesso vale per le piccole aziende familiari e per le filiere di villaggio). La precarietà economica, raddoppiata da quella giuridica (chi perde il lavoro rischia non solo la disoccupazione ma la perdita del permesso di soggiorno e in teoria l’espulsione), contiene la vertenzialità, tranne laddove si sia sviluppata una sindacalizzazione precoce, come nella siderurgia bresciana o emiliana. Senza entrare in una discussione statistica, è evidente quanto tali fenomeni spieghino il ritardo con cui la precarizzazione del lavoro produce resistenza organizzata e rivolta. C’è una scala che va dalla complicità del precario universitario illuso dalla promozione alla passività spaventata del clandestino. E naturalmente comincia a esserci una scala della resistenza e della ribellione. Ma ancora domina in media la funzione di ammortizzamento. Entra qui probabilmente in gioco un altro fattore, diacronico, cioè la relativa rarità di una massa critica di seconda generazione e la prevalenza di immigrati che non hanno avuto il tempo di mettere radici e a volte sono o si considerano in mero transito.

Ogni prospettiva di uscita dalla povertà, dalla crisi, dalla vertigine dell’indebitamento e dalla follia del pareggio di bilancio, ogni battaglia radicale contro la finanziarizzazione e per il mutamento dei rapporti di forza economici e politici non può non farsi carico del ruolo dei migranti. Lo fa, in modo demagogico e illusorio la Lega, quando predica l’espulsione dei migranti e il salario territoriale a scapito del Sud (in realtà intende il sottosalario di entrambi, corrispondendo la minaccia di cacciata dei migranti fuori d’Italia alla secessione del Nord, che farebbe dei meridionali italiani di seconda classe, senza accesso all’euro). Dovrebbe farlo, a rovescio, un’opposizione efficiente, inserendo nel proprio programma l’abolizione della Bossi-Fini con tutto il suo apparato detentivo-espulsivo, la legge sul diritto d’asilo, l’accesso al voto amministrativo per i migranti con 5 anni di residenza e la piena cittadinanza immediata per i nati in Italia. Misure “europee” (e da perseguire su scala europea), per ridurre la ricattabilità sul mercato del lavoro e sull’esercizio della conflittualità, funzionalmente complementari al reddito di cittadinanza per i precari nazionali (a voler conservare una temporanea distinzione).

È impossibile una ripresa a salari e consumi bassi e dunque intaccare sul serio il paradigma precario-migrante senza gettare un ponte fra i tumulti mediterranei e quelli continentali –differenti per origini e logiche, ma che generano una moltitudine assai simile e (grazie all’emigrazione) fisicamente presente in Europa. Quanto possiamo continuare a girare intorno al problema? Non è solo un limite eurocentrico, sta diventando un ostacolo allo sviluppo di una lotta efficace contro la crisi. Dovrebbe farci fischiare le orecchie il fatto che il tradizionale strangolamento del Terzo Mondo per debito stia diventando prassi corrente per il ceto medio statunitense ed europeo, la luminosa prospettiva degli studenti con il prestito d’onore, la triste routine dei fondi pensionistici integrativi (infarciti di subprime) per gli anziani. Abbiamo bisogno di un pensiero strategico più lungo, anche per favorire il sorgere di un protagonismo sociale autonomo, che rimetta in discussione lo status dell’opposizione italiana, come il movimento dei precari nazionali sta modificando quello dei sindacati.