Quanto tempo ci vuole a farsi spaccare la faccia?

di Martina Fabbri

Utente: Nicola Tpo
9 / 11 / 2011

Una paio di secondi, immagino. Il tempo impiegato dal colpo per fendere l’aria e abbattersi sul mio muso. In quel tempo, così veloce, la mia vita è cambiata.

La mattina del 12 ottobre ho fatto fatica ad alzarmi dal letto. Non ricordo se la sera prima avessi tirato tardi in qualche modo, è probabile. Non riesco mai ad andare a letto ad un’ora decente. Accanto a me un corpo caldo: Maurilio. Quando si è in due trovare le forze per tirarsi su, ancora assonnati, diventa uno sforzo considerevole.                      

Devo dirlo, quella mattina per dieci secondi ho pensato di restare a letto, di saltarmi l’azione a Banchitalia, perché lo ammetto: sono una dormigliona. Ma, come sempre mi succede, rinuncio ai miei propositi onirici, preferisco scrollarmi il sonno di dosso e andare a mettermi in gioco in prima persona, perché non riesco proprio a mettere da parte la mia voglia di partecipare.

E poi…che bel sole! Tutto sommato una bella giornata per perdere i denti. Se avesse piovuto sarebbe stato infinitamente peggio, Bologna con la pioggia perde tanto di quella luce che la distingue: i colori si abbassano di un paio di tonalità, come se si spegnesse un interruttore; la città, quando piove, cambia faccia.                                                            

Uscire dall’ospedale senza i quattro incisivi, sotto la pioggia, mi avrebbe depresso.

C’è stata la carica. La seconda. Il solito caos di corpi addossati, che un po’ si sostengono e un po’ si rimbalzano. La sensazione di pericolo non è arrivata al mio cervello: non c’è stata paura, perché non li ho visti arrivare. D’altronde capita di dimenticarsi di guardare sui lati. Ho visto un’ombra nera veloce, ma nemmeno allora ho provato paura. L’ombra era compatta, ad eccezione di un lungo corpo estraneo, quasi un prolungamento, una protesi dell’arto superiore. Una protesi creata per far male: sfollagente anche detto. Uno di quei nomi eufemistici per suggerire l’uso degli oggetti, un nome che dice solo una briciola del reale impiego di questi cosi: meglio massacragente. In questo caso lo potremmo anche  chiamare sfolladenti: ha liberato un bello spazio frontale nella mia bocca, una specie di finestra sul mondo.

Ho capito quasi subito che il colpo aveva creato uno spazio ambiguo, uno spazio in cui da subito, anche se con dolore, passava in mezzo la lingua.  Alcuni frammenti dei “furono incisivi” li ho sputati al primo sorso d’acqua. Ma illudersi che si trattasse solo di qualche dente scheggiato non sarebbe stato possibile, quanto meno a guardare le facce di chi mi era accanto, tremante e impallidito.

Mi accade spesso di realizzare miriadi di cose su me stessa in questo modo : fissandomi riflessa nell’espressione dell’altro. Ed è più o meno così che ho capito di avere in bocca un purè di carne, gengive, labbro, incisivi, polpa,sangue.

Qualcuno il 12 ottobre ha deciso di frantumarmi il sorriso. Qualcuno che non ha ancora un’identità né un volto. Qualcuno che forse, al rientro dall’operazione in piazza, è stato riempito di pacche di solidarietà e complimenti dai colleghi. Qualcuno che si sente protetto dalla divisa pluriaccessoriata da playmobile, mancante di qualunque codice di riconoscimento.

Qualcuno che forse s’è vantato di averne mandata una in ospedale, pensando di avermi educato, di avermi impartito una lezione, sperando che alla prossima occasione mi farò vincere dal sonno, restandomene nel letto.

Che errore di valutazione, mio pavido aggressore ignoto: mi alzerò ancora prima nei giorni delle manifestazioni. E sarò sempre lì. Accanto a quei corpi che, durante le cariche, si sostengono senza scappare, i corpi di quelle persone che in questo mese non hanno smesso di mostrare affetto,comprensione, rabbia, indignazione, solidarietà, vicinanza.  Quelli che sono sempre in prima linea, e sanno che metterci la faccia può essere doloroso e faticoso, ma non possono rinunciarvi, perché è l’unico modo degno per vivere.

“Se la manganellata te l’avesse data sulla lingua, gli spezzavi il manganello.” Cit. del mio infermiere numero uno.