E' cinese l'impero americano

20 / 1 / 2011

Simboli e cerimoniali sono sostanza, nella diplomazia, e ieri sera il presidente cinese Hu Jintao ha avuto alla Casa Bianca il sontuoso banchetto di stato che George W. Bush gli negò nel 2006 e che Bill Clinton accordò al suo predecessore Jiang Zemin nel 1997.

Questi erano i patti, e così è stato. Alla fine degli impegnativi colloqui che aspettano il leader cinese nei suoi quattro giorni di tour americano si vedrà se non sia stato questo uno dei pochi risultati positivi del vertice Usa-Cina tanto atteso, dopo un anno critico punteggiato di scontri che hanno inasprito le relazioni tra le due sponde del Pacifico.

C'è chi dà a questo summit una valenza storica, paragonandolo al viaggio di Deng Xiaoping negli Usa oltre 30 anni fa. A guardare l'agenda delle questioni in ballo, ci si chiede perché tanta enfasi. La lista del contenzioso è sempre quella, desolatamente bloccata su punti in cui le visioni continuano a divergere: il commercio sbilanciato, la guerra valutaria, la difesa del copyright, la sicurezza globale, le armi a Taiwan, i rapporti militari, i diritti umani . Ma la velocità a cui corre il mondo, sospinto anche dalla Cina, se non fa cambiare i problemi, modifica in modo drammatico il quadro in cui si collocano, e i modi di risolverli.

Così il punto vero di questo incontro è quello che non si esplicita: ridefinire le basi di una relazione strategica che con tutta evidenza non sta funzionando, soprattutto perché Usa e Cina si trovano su due traiettorie diverse della propria storia. Traiettorie che le categorie di ascesa e declino definiscono in modo grossolano, poiché il futuro è ancora in fieri, aperto a esiti diversi.

E questo è il punto cruciale. In un'intervista alla televisione cinese Hillary Clinton ha adombrato

a suo modo la questione: «In quanto prima e seconda economia del mondo abbiamo speciali responsabilità. (...) Questo è un momento decisivo per stabilire il modo migliore in cui il rapporto di collaborazione fra i nostri due paesi possa fare dei passi avanti».

Ma non si tratta più di G2, di una gestione a due della governance globale, anche se la sigla era una speranza tutta americana, volta a coinvolgere Pechino nella propria strategia. Il G2 non è mai andato oltre la tautologia e la crisi economica mondiale ne ha decretato il prematuro decesso. In ballo ora, tra Usa e Cina, è la capacità di gestire una convivenza ancora

necessaria ma sempre più problematica.

Cruciale il fattore tempo. Gli Usa sentono che il suo trascorrere gioca a loro sfavore, nelle condizioni date di un'economia che ancora annaspa. La settimana scorsa i massimi dirigenti delle due più importanti agenzie di rating hanno avvertito che gli Usa potrebbero perdere la tripla AAA, mentre il tesoro americano ha annunciato che il debito totale del paese ha raggiunto i 14mila miliardi di dollari, a un passo dal Pil (14,4 miliardi).

Viceversa la Cina, che pare aver superato la crisi senza rallentare, è impegnata in un'impresa di alta acrobazia, che richiede tempo: mantenere la stabilità garantita dallo status quo mentre agisce incessantemente per modificare gli equilibri globali e risolvere i propri enormi problemi interni (due facce di una sola medaglia). Non c'è angolo di mondo che non veda la sua presenza attenta. Negli ultimi due anni, in piena crisi, Pechino ha concesso più prestiti della Banca mondiale ai paesi in via di sviluppo. La notizia la riportava martedì il Financial Times che

non ha dubbi: «la Cina vuole accelerare l'integrazione dell'economia mondiale, a modo suo, forgiando la globalizzazione post americana». Un intento che il presidente Hu Jintao sembra confermare quando fa precedere il suo viaggio da un'intervista al Wall Street Journal e al Washington Post in cui afferma che «l'attuale sistema monetario è un prodotto del passato».

Così l'ansia americana cresce, aumentata dall'incapacità di cogliere la complessità di questo

nuovo antagonista la cui immagine oscilla tra il «partner strategico» e l'«avversario strategico», assumendo sempre più spesso le sembianze del nemico. I rischi della situazione sono grandi se due vecchie volpi della politica estera Usa come Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale di Jimmy Carter, e Henry Kissinger, hanno raccomandato nei giorni scorsi di evitare i toni da guerra fredda e cooperare con la Cina in nome di un ordine globale che superi le aspirazioni nazionali. Ma di fatto, quel che accade è che la strategia planetaria cinese ha spuntato una delle armi classiche della politica estera Usa, quella del «contenimento», mentre la carota dell'«engagement» suona ormai quasi ridicola.

Così, in una sorta di nemesi della storia, affiora la sollecitazione che Washington si vede rivolgere sempre più spesso, ultimo un editoriale del Financial Times del 18  gennaio: il tempo dell'unilateralismo è finito, i rapporti di coppia non funzionano. È ora di tornare almultilateralismo, quello vero. È proprio la caduta dell'impero.

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