Andare oltre il corpo, nonostante il corpo

Riflessioni a partire dall’ultimo libro di Silvia Federici, edito da D Editore, “Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo”.

23 / 8 / 2023

Pensare e ripensare a un femminismo che possa realmente cambiare le vite delle persone significa anche per un momento abbandonare l’idea di immaginari nuovi che spazino in un mondo che non conosciamo e che vorremmo. Non perché non sia importante, ma perché forse non tengono conto di alcune condizioni materiali di partenza che il sistema capitalista impone sui nostri corpi.

La poetessa, militante e pensatrice afroamericana Audre Lorde in un discorso pubblico del 1979 dice una frase che diventerà di fondamentale importanza per tutta la seconda ondata femminista degli anni Settanta, ma anche per i movimenti che verranno dopo, ovvero «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone».

Tesi ripresa in un’intervista a Lucca Fraser di Laboria Cuboniks del 2017, quando le viene chiesto se pensasse davvero che gli strumenti del padrone potessero effettivamente demolire la casa del padrone. La sua risposta è stata è stata abbastanza cristallina: «Si. Sia in senso letterale che figurato. Gli strumenti sono esattamente questo, hanno degli utilizzi che vanno oltre le intenzioni dei loro padroni. E hanno delle debolezze che si possono fruttare per far sì che facciano cose diverse da quelle per cui sono state concepite. Questo non significa che non dobbiamo inventare nuovi strumenti. Più ce ne sono meglio è. Ma, si, assolutamente, gli strumenti del padrone possono demolire la casa del padrone».

bellhooks, in Insegnare a trasgredire, parla dell’utilizzo della lingua inglese come lingua dell’oppressore citando una poesia che lesse ai tempi dell’Università di Adrienne Rich Bruciare carta invece che bambini e scrive «pur avendo bisogno della lingua dell’oppressore per parlare tra loro, l’hanno anche reinventata, hanno trasformato quel linguaggio per superare i confini della conquista e del dominio. Nella bocca dei neri africani nel cosiddetto “Nuovo Mondo”, l’inglese è stato alterato, mutato ed è diventato una lingua differente. Gli schiavi neri prendevano frammenti di inglese e ne facevano una contro-lingua. [..].                            Prendiamo la lingua dell’oppressore e la usiamo contro sé stessa. Trasformiamo le nostre parole in un discorso contro-egemonico, trovando la libertà nel linguaggio».

Queste tre citazioni si riferiscono a dei contesti particolari, ma che riferite al generale esemplificano tre binari diversi sull’utilizzo di ciò che esiste per creare ciò che non esiste. Il transfemminismo è un meta-tema che si crea, si pensa, esce dagli schemi di come si crea una filosofia così come l’Occidente ha sempre fatto, straborda da ciò che esiste, non chiede ma si interroga. Per questo nascono molte domande a cui diverse correnti femministe hanno risposto in modi differenti, non escludenti ma contaminanti. Alcune di queste domande sono se e come utilizzare gli strumenti che sono presenti in questo modello di società, se e come riappropriarcene o se e come ripensare e ricreare una nuova società.

Le riflessioni sul modello di società femminista a cui aspirare però devono tenere insieme i presupposti materiali da cui partiamo, altrimenti saranno modelli utopici o addirittura elitari. Ripensare quindi al concetto di corpo come politico, come terreno di resistenza, corpo che ha il potere di agire e trasformarsi, corpo come limite allo sfruttamento e non solo come performance e costrutto sociale ci dà uno spunto da cui partire per riflettere su come vorremo vivere, perché chiunque tramite e grazie ad esso conosce e impara a essere e stare nel mondo.

«Dobbiamo riappropriarci del concetto di corpo, rivalutare la sua capacità di trasformarsi e espandersi, resistere individualmente e collettivamente» scrive alla fine delle sue riflessioni Silvia Federici. La storia dei corpi è fatta da gerarchie prodotte dal capitalismo di razza, classe, sesso e generazione che condizionano materialmente la vita delle persone e per questo prima di parlare di cyborg dovremmo riflettere forse sull’etilitarismo di questa teoria in quanto il costo ecologico della produzione è nelle mani del sud globale, ma anche visto il controllo sociale che le tecnologie hanno sui nostri corpi è ingenuo pensare che la simbiosi con le macchine darà come risultato un potere maggiore e per questo il femminismo dovrebbe interrogarsi di più sulle conseguenze sociali del processo di meccanicizzazione già in atto prima di pensare ad un immaginario di donne cyborg».

Tra i temi che Federici pone nel suo testo fatto da dieci lezioni due sono centrali: le riflessioni sulle lotte per una giustizia riproduttiva e sul concetto di identità sociali.

Il 15 gennaio 1968 alcune femministe radicali guidate da Firestone marciano a Washington simulando la sepoltura della femminilità tradizionale; Shulamith Firestone, tra le tante teorie rivoluzionarie che ha portato al femminismo, auspicava anche la liberazione della donna dalla procreazione, secondo lei primaria causa di oppressione, e lo diceva prima che Butler parlasse di genere come performance e della critica all’eteronormatività, al concetto di genere e al binarismo e al rifiuto della biologia come destino.

Il femminismo degli anni Settanta parla delle politiche del corpo come lotta per il controllo della propria sessualità e, infatti, in questi anni le lotte per il diritto all’aborto sono fondamentali, ma un limite di queste è che non si è lottato anche per cambiare le condizioni materiali delle donne e quindi per il benessere sociale tenendo assieme tutte le lotte per la giustizia riproduttiva e quindi per l’aborto, per la procreazione e per una giustizia economica: se non riusciamo a tenere insieme questi tre aspetti non arriveremo mai ad una vera giustizia per tutte le persone ma solo per una classe bianca e benestante. Cambiare il nostro corpo, recuperare il controllo della nostra sessualità e della nostra capacità riproduttiva significa cambiare le condizioni materiali delle nostre vite. Quindi per parlare di giustizia riproduttiva dobbiamo parlare della povertà economica, della povertà di vivere in un mondo che muore per l’essere umano e riappropriarci di quello che ci rende corpi vivi e interconnessi con la terra.

Parlare quindi della lotta per la maternità non deve essere in antitesi con la lotta per l’aborto libero e gratuito, parlare di aiuti materiali per la riproduzione non deve essere una lotta lasciata indietro perché viviamo in un mondo in collasso climatico e perché la riproduzione sociale è anche la magia di continuare a creare immaginari.

Quando si parla del concetto di maternità, però, la si intende come desiderio appartenente agli esseri umani al di là della coppia eterosessuale, ed è qui che le nuove tecnologie riproduttive entrano in gioco perché grazie alla riappropriazione di esse si potrebbe far avere a chiunque la possibilità di procreare.  Questo è un immaginario di riappropriazione giusto, ma bisogna anche porsi prima delle domande su come il capitalismo ha trasformato il concetto di riproduzione, altrimenti si cade in un immaginario che nella pratica non porta a nessun miglioramento delle condizioni reali ma solo in modo elitario.

Il capitalismo, infatti, ha trasformato i corpi delle donne cis bianche in macchine da riproduzione della forza lavoro, mentre i corpi delle donne cis razzializzate vengono sterilizzati. Se pensiamo, per esempio, alla maternità surrogata, che in questi ultimi mesi è stata al centro dibattito (anche se per i motivi sbagliati), i corpi sono visti come proprietà da trasferire, dove la maternità è esternalizzata al sud globale per bianchi, occidentali e ricchi, Angela Davis in merito in Surrogates and outcast mothers: racism politics in the Ninetie” dice che la maternità surrogata è un continuum delle pratiche di allevamento imposte nelle piantagioni degli Stati Uniti, poiché in tutti e due i casi le donne sono destinate a perdere i propri figli e figlie per il diritto dei ricchi; Dorothy Roberts in Killing the Black body scrive che le nuove tecnologie della riproduzione rafforzano uno standard di procreazione razzista.

Il femminismo bianco prima di riflettere sulle parentele postumane e sulle sfamiglie dovrebbe forse ripensare a un immaginario contaminato dal femminismo nero, perché altrimenti diventa elitario. Contaminarsi significa ripensare al concetto di famiglia, perché uscire dal concetto di famiglia eterosessuale non significa trovare un altro nome per identificare altri modi di vedere le relazioni tra esseri umani, ma far sì che famiglia rappresentanti la moltitudine di rapporti e relazioni che abbiamo nelle nostre vite e significa ripensare alla genitorialità in modo diverso, non individualista ma come concezione comunitaria. Scrive Federici «le tecnologie per la riproduzione non possono essere utilizzate per accrescere la specializzazione oltre che i privilegi di classe e razza, perché mentre la medicina garantisce che le coppie sterili, bianche e ricche possano riprodursi, lo stesso diritto è negato alle persone nere che le politiche economiche internazionali hanno impoverito e costretto a emigrare lasciando figli e figlie per andare a lavorare in posti dove si occupano delle figlie e figli di altri, oppure che vengono perseguitate dalle agenzie internazionali e dai loro rappresentanti locali affinché prendano anticoncezionali che sfuggono al loro controllo impiantandoseli in corpi e rendendo impossibile la procreazione».

L’altro concetto su cui soffermarsi è quello di identità sociali. Nel momento in cui affermiamo che il genere è un costrutto sociale e che andrebbe smantellato insieme al binarismo dobbiamo anche ricordarci che noi per conoscere il mondo utilizziamo costrutti sociali, e che eliminato il contenitore il contenuto rimane. Questo non significa che il binarismo non dovrebbe essere abolito, ma che le identità sociali che ci definiscono non sono formate solo dal genere ma anche dalla classe, dalle relazioni, dalla comunità e perciò non possiamo lasciare che i parametri con cui definiamo le identità sociali siano definiti solo da capitalismo. Per questo non dobbiamo lasciare che la lotta per l’affermazione dell’identità sia separata dalla lotta per cambiare i fattori storico-sociali delle nostre vite.

Butler parla in Questioni di genere della teoria del genere come performatività di genere e della non distinzione tra genere e sesso nella nostra società, pensiero che si incastra con Beauvoir quando scrive che “donna non si nasce, si diventa”.

Identificare, nominare e analizzare la fonte delle “norme” a cui il sistema patriarcale e capitalista si aspettava che noi ci identificassimo è fondamentale, scrive Federici, perché se la performatività è un concetto utile, la sua applicazione è limitata e parziale perché suggerisce l’obbedienza passiva alle leggi e un atto di consenso; quindi, più che performance dovremmo chiamarla sfruttamento e coercizione. Ci sono due aspetti di questo tema su cui soffermarsi: da un lato la performance aiuta a denaturalizzare la femminilità, ma non aiuta a comprendere che un cambiamento sociale/di genere può avvenire solo se trasformiamo la visione collettiva e individuale, cominciando dalla divisione del lavoro e dalle gerarchie sociali costruite sulla base della svalutazione del lavoro riproduttivo; dall’altro lato la performatività di genere appiattisce il contenuto dell’azione sociale, dividendo in consenso e dissenso, sottovalutando la ribellione soggiacente gli atti di consenso.

Le identità sociali si possono cambiare e dobbiamo appropriarci il potere di farlo: il concetto di donna non è statico e monolitico, non è solo un atto di performance, non è solo personificazione delle norme istituzionali ma è anche terreno di lotta e contestazione. “Se la natura è ingiusta, cambiala!” è uno dei pilastri dello xenofemminismo ed è certamente importante riconoscere che la biologia e la fisiologia sono politiche, ma non dobbiamo estrometterle dal discorso perché continueranno ad esistere. È solo considerando anche l’aspetto materiale e biologico del nostro corpo che si può sfidare la concezione dominante del concetto di genere: “andare oltre il corpo, nonostante il corpo”.

Senza queste riflessioni a priori sul concetto di genere è facile pensare a un immaginario cyborg che poi però si scontra con la realtà di un sistema capitalista che richiede e brama la meccanizzazione dei corpi, ma il corpo non è e non può essere solo forza lavoro. “Negli anni Sessanta e Settanta si sono rifiutati di ridurre la propria attività a lavoro astratto, di rinunciare alla soddisfazione dei propri desideri, all'interfacciarsi al corpo come fosse una macchina, ma determinare e definire il corpo indipendentemente dalla nostra capacità di funzionare in quanto forza lavoro”.

Finché vivremo nel sistema capitalista e patriarcale le persone saranno forza lavoro e non si può pensare che una meccanizzazione del lavoro ci porterà fuori dallo sfruttamento, ma non possiamo nemmeno pensare che una riappropriazione degli strumenti del capitale riusciranno a portarci tutte insieme fuori da questo sistema, perché stiamo lasciando indietro qualcun* e questo non potrà mai essere un mondo da auspicare.

La storia del corpo va riletta fuori dalle lenti capitaliste perché è ciò che non si potrà mai prendere: non è solo performance o costrutto sociale ma potenziale di riproduzione sociale in quanto contenitore di poteri, capacità di resistenze sviluppatesi in simbiosi con l’ambiente, il corpo è fatto di bisogni e desideri che dobbiamo tenerci stretti perché è ciò che il capitalismo tenta di superare e che non dobbiamo permettere che accada.