Animali da circo...

La presentazione del libro di don Luca Favarin allo Sherwood Festival

11 / 6 / 2019

Domenica 9 giugno, lo stand Books & Media dello Sherwood Festival ha ospitato la prima presentazione di un libro, Animali da circo - il migrante obbediente che vorremmo (S. Paolo Edizioni, 2018) di don Luca Favarin, della diocesi di Padova. L’autore ha conversato con Paolo Giacon, dell’associazione Open Your Borders. Di seguito il testo integrale della presentazione.

Paolo Giacon: Il libro parla dell’esperienza dell’incontro con la diversità che fa ridiscutere noi stessi, anche radicalmente. Da cosa nasce la scrittura di questo libro ed il suo titolo, anche abbastanza curioso. Perché parli di “animali di circo”?

Don Luca Favarin: L’esperienza nasce da un gioco che facevamo con i ragazzi quando ero nella mia seconda comunità. Era un gioco in cui - ad esempio - Henry, ragazzo nigeriano, chiamava il fratello in Nigeria che doveva descrivere cosa stava vedendo in quel momento, mentre noi dall’Italia rispondevamo con qualche altra cosa che vedevamo nello stesso istante. Noi, in autunno, vedevamo alberi da frutto con foglie che cadevano e l’orizzonte in lontananza. Il fratello di Henry descriveva invece, dal suo paese, mucchi di cadaveri, moschee e chiese in fiamme e gente che scappava. Tutto ciò mi ha fatto riflettere. Mentre noi viviamo la nostra vita nella totale tranquillità altrove accade ciò che non è assolutamente un film.

Sherwood Festival 2019

Perché questo titolo? Perché spesso i migranti sono sul serio trattati come animali da circo. Tanta gente mi chiede: «Posso venire in comunità a vedere i migranti?». C’è una sorta di immaginario per “usare” i migranti. La parola immigrato fa schierare, fa prendere posizione, subito. L’immigrato fa schifo. Ma quando tale viene reimpiegato nel caporalato, no. O quando si va in cerca della ragazza sedicenne nigeriana costretta a prostituirsi, nemmeno questa volta fa schifo. Tutto ciò rivela la nostra ipocrisia. Ma animali da circo siamo anche noi che ‘usufruiamo’ della propaganda politica assillante di questi mesi e questi anni, che ci porta ad applaudire e osannare politici di turno anche quando vengono calpestati i diritti di queste persone.

P.G.: È fondamentale riprendere gli argomenti come quelli che tratti nel libro in un momento in cui la xenofobia, il razzismo sembrano essere la narrazione mainstream; quando la realtà è composta da un insieme di piccole cose, gesti, che al contrario mostrano la ricchezza della società civile. Nel libro si ripercorrono molte parole che vengono anche dalla cultura africana, tipo Arambe, Ubuntu, mostrando ‘in piccolo’ la psicologia di un continente diverso, ma accogliente. Emergono anche altre due parole contrapposte, emigrare ed espatriare.

L.F.: Un esempio: l’immigrato emigra, il ragazzino bianco che va a fare il college in Inghilterra o in Spagna espatria. La parola razzismo in Italia ha sempre abitato – forse - nelle persone, c’era solo il buon senso che stringeva per non farla emergere. Si può dire che oggi l’immigrazione è come sottoporsi ad una TAC con contrasto: emergono i liquidi, vengono a galla corti circuiti. I migranti sono ritenuti come una “cosa sporca”.

Chi arriva non è sempre uno “straniero” o un “musulmano” che fa paura. Quando arriva uno sceicco del Qatar a nessuno importa che lui sia straniero né tantomeno musulmano, il problema è che ciò che attualmente fa paura è la povertà. Chi arriva è povero. Una società che ha paura dei poveri, paura di allargare le braccia per dire: «quello che posso fare per aiutarti lo faccio» è una società non sana. C’è un’ipocrisia di fondo anche nel mondo cattolico che denuncio in lungo e largo. La gente in Chiesa si riconosce fratello e sorella, prega Gesù per i nostri fratelli profughi e poi, fuori dalla Chiesa, firma la petizione al banchetto contro l’arrivo dei profughi perché non li vuole nel proprio quartiere. Oggi l’immigrazione è una parola benedetta perché fa schierare, capisci subito da che parte si sta: dalla parte degli ultimi, dei poveri o dalla parte degli oppressori.

P.G.: L’incontro in Africa è in una varietà di luoghi: il Lazzaretto, la Discarica, su quest’ultimo luogo capisce come avvengono i primi momenti di ‘differenziazione’. Nel secondo capitolo si parla di una contrapposizione: da integrazione a interazione.

L.F.: Dobbiamo fare una riflessione su come stiamo accanto ai migranti. A volte pensiamo che i migranti devono essere “resi presentabili”, insegniamo loro come mangiare con forchetta e coltello. Gli diciamo: «tu sei musulmano, ma non far vedere le cose tipiche della tua religiosità, della tua origine». Spesso integrazione - in questa accezione - significa ripulire, limare, rendere presentabile chi rischia di essere impresentabile attraverso i suoi tratti caratteristici. Al posto di integrazione dobbiamo usare la parola interazione: relazionarsi in base alle proprie peculiarità, caratteristiche, senza chiedere a nessuno di “ripulirsi” né tantomeno nascondersi.

P.G.: In merito ai grandi numeri delle morti, sia di guerre, di cui non sappiamo nemmeno i nomi o il processo geopolitico, sia di epidemie: sono brutti numeri che compongono brutte statistiche. Un nesso tra vita e morte…

L.F.: Spesso ho visto bambini morire dinanzi a me di colera, una morte atroce. Ho visto lebbrosi che mi tendevano la mano e cercavano di salutarmi e toccarmi. In una frazione di secondo dovevo pensare se farmi toccare o scansarmi. Quando torno nella comunità riconosco i miei ragazzi, ne stiamo accogliendo circa un centinaio, tutti loro hanno subito torture, hanno un corpo come una carta geografica delle torture subite nei lager libici. Ragazzi di 16 anni torturati con le scariche elettriche, quattordicenni costretti a fare i tappeti umani nelle case dei libici ricchi, per i quali è sintomo di prestigio avere in casa tappeti fatti di africani. Abbiamo ragazze arrivate incinte, ma di chi? Probabilmente di uno di quei 10 uomini che le hanno stuprate prima di buttarle in barca. Vedo le ragazze costrette a prostituirsi che mi dicono: «quando sono col decimo cliente, il mio pensiero è: Dio, fammi morire, meglio morire che vivere». Come è possibile che un ragazzo a 15 o 20 anni preferisce morire piuttosto che vivere?

Una vita così vomitevole, schifosa, col peso di torture immane e non basta! Questi ragazzi della comunità sono a rischio, potrebbero finire per strada per via del “decreto insicurezza”.  Anche chi oggi ha il documento o ha ottenuto la protezione di due anni, presto potrà non restare più in comunità. Come può la nostra società buttare fuori queste persone che hanno sopportato tutto questo, persone che hanno visto morire amici e fratelli. C’è Paolo, un ragazzo della comunità, che mi ha detto: «tu sai tutto di noi, conosci la Libia, le torture, ma non sai il viaggio». È vero, una cosa che non so di loro è cosa hanno vissuto nel “durante” per arrivare fin qui, dalla Libia all’Italia. Durante il viaggio di Paolo accadde una cosa. Il barcone prendeva acqua e il trafficante gli chiese di fare la conta, puntandogli una pistola alla tempia; dopo la conta avrebbe dovuto buttare una persona in acqua per salvare tutti gli altri. La conta è ricaduta su sua moglie, che fu costretto a buttare in acqua, fino a vederla morire. Per quello che ha vissuto Paolo e per tutti i racconti terribili che sentiamo, al costo di farmi sputare addosso da ogni parte d’Italia, continuerò a ripetere che non possiamo, umanamente, non accogliere. Mettiamo l’Europa dinanzi le sue responsabilità, ma non lasciamo nemmeno che queste persone muoiano in mare o provino queste sofferenze in Libia.

P.G.: La risposta della politica, al contrario, è un inasprimento e imbarbarimento. se guardiamo alla criminalizzazione della solidarietà e alla rottura dei legami e delle reti sociali. Il tutto, come hai citato nel tuo libro, in maniera anche diabolica. Si vuole accentuare la contrapposizione tra bianco e nero, schiavo e non schiavo, migrante e non migrante. Parlaci di questo.

L.F.: Questa contrapposizione vede, come sempre, il povero schiacciato. Finché le contrapposizioni le fanno i ricchi, i potenti e coloro che sanno parlare, una soluzione la trovano sempre. Il problema è che, come su ogni cosa, chi ne paga il prezzo maggiore sono i più poveri. Gli stessi che vengono schiacciati dalle autorità e che poi vengono buttati sulla strada.

Se stai scappando dalla guerra io ti salvo e ti aiuto, mentre se scappi dalla fame e dalla miseria create dalle nostre multinazionali allora non ti salvo. Allora, è in tutto questo grande controsenso che noi siamo chiamati ad essere schierati dalla parte dei poveri, dalla parte dell'umanità.

Una volta le parole accoglienza e solidarietà in politica erano quelle che riempivano di senso le nostre lotte, ora invece sembra di lottare contro un muro sempre più grande e spaventoso. Credo che le nostre politiche oggi non debbano aver paura di schierarsi dalla parte del più povero.

P.G.: Cosa possiamo fare noi? Come possiamo dare delle risposte contrapponendoci a questa deriva?

L.F.: La prima cosa che noi nella nostra esperienza di accoglienza abbiamo imparato in questi 4-5 anni è quella di non stare zitti, dando voce alle convinzioni che abbiamo nei nostri cuori. Rispondiamo a chi continua a gettare fango e letame contro questa forma di accoglienza che si vuole fare in Italia. Stiamo vivendo una pagina molto triste della nostra storia. Il Decreto Salvini è un decreto criminale che getta le persone in strada, è un decreto razzista e che genera razzismo. La gente si arrabbierà ancora di più vedendo i più poveri che occupano le loro strade, e ancora una volta chi ne pagherà le conseguenze saranno gli immigrati.

Il Decreto Salvini è però figlio di una legge precedente che è il Decreto Minniti il quale ha tolto a queste persone un grado di giudizio in tribunale, altra azione criminale e poco rispettosa dei diritti delle persone. Allora, in tutto ciò noi siamo chiamati a non cedere nelle nostre coscienze e nella nostra lotta in difesa dei diritti umani, perché ogni persona ha diritto di fare della vita un'esperienza bella.

P.G.: Siamo passati alla sostituzione di un modello SPRAR atto ad accogliere e integrare le persone, fornendo strumenti per poter vivere nel territorio italiano, ad uno che attua tagli alle strutture e riattiva i CPR (centri di permanenza per il rimpatrio). Questa è la risposta che ci stanno dando?

L.F.: Non è accettabile che in Italia un ragazzo che ha compiuto un percorso di integrazione certificata, che ha studiato la lingua italiana e che ha ottenuto contratti di lavoro debba essere buttato in strada. Questo risponde perfettamente a una logica criminale che sta destabilizzando, a causa di una campagna politica eterna, un'idea di valori umanitari. Fa più comodo avere gente che dorme nelle stazioni per dare senso a questa campagna elettorale continua.

A Padova ci sono dei bellissimi progetti di integrazione fatti dai nostri ragazzi e che funzionano alla perfezione, stando a dimostrare come una persona che viene catapultata nella nostra realtà possa essere accompagnata e guidata verso un percorso di piena autonomia. Ma oggi non si può dare diritto alla parola accoglienza, e allora è più facile distruggere il Modello Riace e molti altri come esso, perché nella logica del potere di oggi questi modelli non sono utili al tornaconto elettorale.

Ho ragazzi che lavorano con me e che verranno buttati in strada. La cosa triste è che io, dicendo loro che il loro processo integrativo - lavorativo e scolastico - è importante e porterà a dei risultati, sarò il primo che li avrà presi in giro. Se e quando saranno gettati in strada, nei loro cuori anche io farò parte di tutte quelle persone che li hanno ingannati, promettendo loro cose che non avverranno. Quel che mi diranno sarà: «io ho lavorato per te e seguito i tuoi consigli, e ora mi ritrovo a raccogliere pomodori per due euro all'ora!».

P.G.: Nel tuo libro hai parlato di questa enorme contraddizione che vede un intero continente sfruttato e da cui si estraggono risorse. Parli di un campo di ananas da cui arrivano tonnellate di prodotti per i mercati occidentali. Menzioni poi il problema e l'importanza dell'acqua come bene fondamentale, e come si possa apprenderne il valore determinante dai comportamenti di questi ragazzi.

L.F.: Il mondo occidentale dona circa 60 miliardi di aiuti economici all'Africa. Meraviglioso! Il problema è che poi ne prende 118 (di miliardi) di materie prime. Ecco perché coloro che dicono «aiutiamoli a casa loro!» hanno ragione, ma per farlo il primo passo è liberarli dalle nostre industrie e lasciarli liberi. Perché così stiamo perpetrando una logica coloniale, di bianchi dominatori, di fronte ai quali il nero deve sempre abbassare la testa e dire «Si signore!». Non solo l'uomo bianco ti ha rubato la terra, ma ti dice di venire a lavorare per lui da sottopagato, perché piuttosto di morire di fame è meglio che ti prendi dieci scellini da lui. Vogliamo aiutarli a casa loro? Bene. Torniamocene a casa nostra.

P.G.: Benissimo .C’è una parola con la quale termina il libro: Sankofa, che si riferisce alla consapevolezza interiore…

L.F.: È il guardare indietro per poi guardare avanti nella vita. Dobbiamo smetterla di pensare che gli africani siano scemi, ho trovato molta gente che si riferisce a loro come “poverino”, poverino l’africano che arriva. Noi nelle nostre comunità abbiamo un approccio molto chiaro e molto severo, con i nostri ragazzi compiamo un percorso di accoglienza, di integrazione. Certo, non è facile, certo, è complessissimo, però si cerca di trattarli da uomini, non esiste il poverino africano che viene qui e che ha bisogno di tutto. Arriva una persona con una sua dignità, con i suoi diritti, con i suoi valori, e con una consapevolezza che va valorizzata, aiutata ad esprimersi. Però credo che il primo grande atteggiamento da parte nostra nei confronti di questi ragazzi che arrivano sia proprio quello di trattarli da uomini. Artefici del proprio destino e del proprio futuro. Con il nostro aiuto, certo, con il nostro sostegno. Ma mai sostituendoci e mai usandoli per i nostri interessi.

P.G.: Un’ultima questione riguardante il panorama locale. Purtroppo, a differenza di tante altre città, si stanno già avendo i primi effetti dei cambiamenti che genera sull’accoglienza il Decreto Salvini. Si è creata una situazione in città, nella quale non si è riuscito a fare un fronte abbastanza comune per contrapporsi. Come…?

L.F.: Resistenza. Resistenza. Resistenza. Con forza, con coraggio, però noi abbiamo bisogno di amministrazioni locali che abbiano il coraggio di dare la carta d’identità, di fare l’iscrizione anagrafica. Abbiamo bisogno di gesti semplici, ma chiari, coraggiosi, da parte di gente schierata a favore dell’accoglienza e dell’integrazione. Altrimenti il rischio è quello di essere anche noi degli eterni bla bla, che fanno dei grandi annunci, che hanno dei grandi valori, dei grandi proclami, ma la gente continua a morire per strada, la gente continua ad essere buttata per strada.

Ogni volta che la prefettura, che il governo butta per strada queste persone, bisogna trovare altre strade. È davvero complesso. Ma ci sono delle strade che sono davvero possibili, che sono legali, che sono anche di resistenza, di disobbedienza civile. Allora, alcuni segni. Una città bella, straordinaria ed impegnata come Padova non può più non farli, non può più non schierarsi dalla parte dell’accoglienza e dell’integrazione, nel senso alto del termine. Però, la città ha bisogno di alcuni gesti chiari e schierati contro questo governo populista e razzista.

P.G.: Intanto grazie mille per queste risposte. Una nota: io penso che comunque Padova sia una città che dimostra una serie di anticorpi a questo imbarbarimento. Questo Festival ne è un piccolo esempio, con il progetto “welcome”; da dicembre abbiamo un percorso attivo che coinvolge tante e tanti per costruire delle reti di mutualismo sociale che non lascino indietro nessuno. Intanto parto col ringraziarti per questa bellissima discussione. Un commento finale: cosa possiamo fare, quali percorsi, quali strategie possiamo adottare per coltivare questi anticorpi che sono presenti, senza lasciarci tradire da questa narrativa mainstream dell’odio, della discriminazione e del razzismo?

L.F.: Senz’altro l’atteggiamento di far rete è essenziale, fondamentale. Però anche avendo degli obiettivi ben chiari: oggi c’è un’emergenza che andrà sempre più a crearsi, sono le persone che vivranno per strada, i progetti di integrazione che andranno a chiudersi, le belle realtà del territorio veneto e padovano che inizieranno ad andare in crisi perché si sentono isolate, sole.

Fare fronte comune è indubbiamente molto importante. Credo anche che non si debba abbassare la guardia dal punto di vista culturale: la cultura dell’odio sta avanzando, una cultura davvero preoccupante secondo me. Un’onda nera che sta avanzando e sta contagiando sempre più persone. Abbiamo addirittura degli immigrati di prima rata che stanno diventando sempre più insofferenti, intolleranti nei confronti dell’immigrazione, abbiamo dei corti circuiti che iniziano ad essere pesanti e che iniziano ad essere governati. Credo che su questo fare rete sia essenziale, ma che sia essenziale anche iniziare a porre delle azioni ben precise e ben chiare.

Sherwood Festival 2019