Da Radio Alice all’antimilitarismo: le lotte e la libertà nel vissuto di Valerio Minnella

La presentazione a Sherbooks 2024 di “Se vi va bene bene se no seghe” (Alegre 2023), con Valerio Minnella e Filosottile.

15 / 2 / 2024

Uno degli incontri de della quarta edizione del festival di Sherbooks ha visto come ospiti Valerio Minnella e Filosottile per la presentazione del libro Se vi va bene bene se no seghe edito da Alegre. La presentazione è stata aperta e condotta da Davide Drago. Il libro è un dialogo tra Valerio Minnella, Wu Ming e Filosottile per raccontare le vicende di Minella e di quanto la sua vita sia stata al servizio di diverse lotte, a partire da quella della fondazione di Radio Alice, passando per le battaglie di Franco Basaglia al manicomio di Trieste, quelle per l’obiezione di coscienza e altro.

L’idea di scrivere una biografia su Valerio Minnella è nata da un’idea di Wu Ming 1, che voleva parlare di lotte passate per poter offrire una visione alternativa ed un approccio diverso anche alle battaglie che si combattono oggi. Filosottile, collaboratrice di lunga data del collettivo Wu Ming, invece ha avuto il compito di trascrivere le conversazioni avvenute tra Valerio e Wu Ming 1 nell’estate del 2020, arricchendole di commenti e ulteriori domande mentre le inseriva in archivio. Il risultato è un dialogo, una chiacchierata tra tre amici di tre generazioni diverse dove poi si va ad intersecare la voce di Radio Alice, chiamata direttamente Alice, come se fosse un personaggio reale.

Radio Alice (come ci tiene a sottolineare Minnella) non è una radio perché rovescia il paradigma della stessa del “guadagnare ascoltatori”, ponendosi come obiettivo quello di guadagnare invece i parlatori e i conduttori. I fondatori di Radio Alice individuano tre elementi che servono a far sì che una persona si decida a parlare ad un microfono, dovendo rompere una serie di tabù che negli anni ’70 erano fortissimi. Il primo è quello di cambiare le regole del linguaggio, in quanto per poter parlare in radio non si potevano avere difetti di pronuncia o inflessioni dialettali, né quantomeno si potevano dire parolacce o bestemmie e si dovevano saper coniugare bene i verbi. A radio Alice invece, si comunicava con il linguaggio di strada perché nessuno doveva sentirsi inadatto a parlare.

Il secondo è quello di eliminare un palinsesto strutturato, in quanto a Radio Alice i conduttori potevano trasmettere quello che volevano, quando e dove gli pareva: non ci sono tempi e luoghi dati. Eliminando il palinsesto, veniva meno anche la gerarchia dei programmi dando la possibilità a chiunque di poter intervenire e continuare la conversazione con chi stava conducendo in quel momento.

Il terzo elemento è quello di non dover necessariamente varcare la porta di un luogo fisico per poter trasmettere. A Radio Alice non solo non è esistita una serratura alla porta per mesi, ma avevano collegato anche il telefono al mixer (una cosa che nel ’76 non aveva ancora fatto nessuno). Questo significava che bisognava semplicemente alzare la cornetta del telefono e chiedere al compagno che era in sede di poter mandare in onda il proprio programma, rompendo così l’ultima censura: per poter parlare non si doveva essere per forza presenti in radio. Nel giro di un mese il gruppo fondatore si è ritrovato completamente espropriato della radio stessa: migliaia di persone venivano in radio per trasmettere, chi per 5 minuti, chi solo una volta, chi tutti i giorni con un programma ben definito. Quindi l’obiettivo venne raggiunto, oltre al fatto che c’erano decine di migliaia di ascoltatori. Potendo intervenire quando si voleva, non si capisce quando iniziava il parlatore e quando iniziava l’ascoltatore.

Tutto ciò ha generato un “problema” particolare: la parola che interveniva nel momento stesso in cui succede qualcosa modificava l’azione o il fatto. Infatti, questo nuovo meccanismo cambiò le sorti dell’11 marzo 1977, giorno in cui la polizia assassinò Francesco Lorusso a Bologna. La città viene presa d’assalto da parte di tutta la comunità studentesca e dal movimento giovanile che si erano mossi in corteo dopo l’accaduto, cercando di arrivare alla sede della Democrazia Cristiana. Tutto il quartiere studentesco venne barricato, ma queste barricate furono abbattute dai mezzi blindati per volere dell’allora Ministro degli Interni Cossiga. Minella pone l’accento sul fatto che fu la prima volta in tutta l’Europa Occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, che i mezzi blindati irruppero in una manifestazione. La funzione di Radio Alice era quella di raccontare quello che stava succedendo da parte di qualsiasi persona che magari entrava in una cabina telefonica per fare la cronaca di quello che stava vedendo in quel momento. Nei bar, nelle case, nelle aule universitarie c’era Radio Alice accesa, quindi l’informazione che veniva data nel momento in cui succedeva qualcosa, modificava l’evento.

Per questo motivo, il 12 marzo la polizia fece irruzione in radio, arrestando i presenti con l’accusa di dirigere gli scontri. In realtà Radio Alice fece quello che aveva sempre fatto: mettere in diretta quelli che volevano parlare. C’erano 20 persone in radio in quel momento. La polizia era bardata, con giubbotti antiproiettili e mitra e l’idea che arieggiava in radio era quella di una carneficina, che la polizia avrebbe ammazzato tutti come successe nella radio ad Atene quando ci fu il golpe dei colonnelli, ma nonostante tutto la diretta continuò.

Il dibattito si è spostato poi sulla proprietà intellettuale e su quanto sia complesso vivere in un mondo dove la cultura deve fare i conti su chi vuole lucrare su di essa. Filo ha affermato di essere cresciuta all’interno del movimento delle punk band torinesi degli anni ’90, quindi dell’autogestione e dell’autoproduzione. Per cui esistono realtà che rifiutano che sul proprio lavoro ci sia qualcuno che metta dei balzelli o ci lucri o dica se il prodotto è vendibile, se va bene e se abbia o meno un mercato.

Il concetto da cui si partiva era quello che a loro interessava comunicare, soprattutto entrare in contatto con le persone come loro, con la gente del proprio quartiere, farsi conoscere. Il punto non era diventare famosi o farci del denaro, ma era l’urgenza di comunicare. Filo ha continuato a calcare palchi e a imbrattare carte, ma tutt’oggi non si sente un’artista, ma si sente una traduttrice, una persona che recupera materiale narrativo, mitico che è già stato masticato da altre persone prima di lei e da altre prospettive. Vorrebbe che il lavoro che fa venga riconosciuto, ma non crede sia originale. Piuttosto si dovrebbe ragionare su come collettivizzare e rendere il più accessibile possibile il materiale documentale e artistico.

Minnella invece ha affermato che la proprietà intellettuale ha un solo problema: come fare a remunerare il tempo speso da chi ha prodotto. Il giorno in cui riusciremo a disgiungere la remunerazione e la proprietà intellettuale dal prodotto che viene elargito avremo risolto il problema.

La conversazione ha poi varato sulla vita di Minnella, con le sue esperienze tra antimilitarismo e battaglie per l’obiezione di coscienza, passando per la lotta della Valle del Belice (molto simile alla lotta NO TAV, dove ognuno mette in campo i propri corpi per difendere un territorio e la propria libertà).

Valerio ha parlato di quanto fosse problematico farsi rubare un anno di vita a causa del servizio militare obbligatorio, soprattutto se si maturava una coscienza non violenta. Inoltre, pone l’accento sul fatto che l’obiezione di coscienza era un’azione individuale, una testimonianza che avveniva solo tra le quattro mura della caserma. Fin quando nel ’70 non incontrò alla marcia antimilitarista che si svolse tra Milano e Vicenza (organizzata dal gruppo non violento di Perugia) una serie di personaggi, tra cui un gruppo di valsusini e un gruppo di giovani della valle del Belice.

La valle del Belice era un territorio che Valerio conosceva già, in quanto aveva prestato servizio con gli scout per la ricostruzione del post terremoto. Dunque, durante la marcia, i giovani del Belice invitarono Valerio ad andare con loro in valle a fare l’obiezione di coscienza perché volevano che nessun giovane di quel territorio andasse a fare il militare, ma che facesse il servizio civile per la ricostruzione. La situazione che Minnella trovò fu quella di solidarietà, di azione dal basso attuata dalla popolazione e aiutata da un centro studi iniziative, un gruppo di persone intellettuali (tra cui Danilo Dolci, uno dei nomi più famosi di quando si parla di cultura non violenta in Italia) che aiutarono e coordinarono questo tipo di azione in Valle. Valerio ha citato le interessanti azioni che si svolsero come l’accampamento per una settimana in piazza Montecitorio a Roma, dove li ricevette Sandro Pertini (allora Presidente della Camera), riuscendo così ad ottenere la legge sul servizio civile per i giovani del Belice. Fu una legge microscopica perché riguarda poche decine di giovani all’anno, limitate per alcune zone del territorio però fu la prima legge che scardinò la logica del fare il militare per poter diventare uomo e per poter proteggere la Nazione.

Valerio comprese che fare l’obiezione di coscienza per avere visibilità doveva essere un gesto collettivo e non più individuale, quindi nel ’72 si fece incarcerare con centinaia di persone dietro che li accompagnavano in caserma. Inoltre, queste azioni venivano fatte da persone che provenivano da esperienze diverse, infatti Minnella pone l’accento sul fatto che lui in primis era un anarchico, ma intorno a lui c’erano marxisti e cattolici ad esempio. Ed è stata proprio la varietà e la quantità di persone che componevano le azioni a far ottenere nel dicembre del ’72 la legge sull’obiezione di coscienza e che ha permesso a migliaia di giovani di rifiutare il servizio militare.

Filosottile invece è passata a parlare della Valle del Belice, una lotta completamente fatta dal basso.

Il 15 gennaio del 1968 ci fu il terremoto nel Belice, una regione a cavallo tra le province di Trapani, Palermo e Agrigento in cui scorrono i due rami del fiume Belice. Era un territorio depresso economicamente e che venne messo in ginocchio ulteriormente dal sisma. Pochi mesi prima il centro studio di Danilo Dolci, in concomitanza con altri aveva fatto una lunga marcia da Partan (la parte meridionale della provincia di Trapani) fino a Palermo (180 km a piedi) rivendicando una serie di attenzioni e di dispositivi legislativi ed economici per aiutare questo territorio.

Quando ci fu il terremoto c’erano già delle lotte in atto, delle riflessioni antimilitariste che avevano al centro la pace in Vietnam oltre che allo sviluppo del territorio a partire dal basso. Infatti, in quel periodo il Belice si ritrovò la polizia nelle tendopoli a voler amministrare la Valle. Un diktat che dagli abitanti di quel territorio non venne ascoltato, in quanto molti militanti si autorganizzarono per mettere a disposizione le proprie competenze per poter risollevare la Valle.

Nel corso di qualche anno avvennero una serie di rivendicazioni e di lotte che ebbero successo, come uno sciopero fiscale così determinato ed incisivo che fece loro ottenere per una serie di anni l’esenzione del pagamento delle imposte di quel territorio. Perciò furono raccolte le cartelle esattoriali del territorio evidenziando che i servizi che dovevano pagare non c’erano, mandandole indietro a Roma.

Avvenne la stessa cosa all’inizio del 1970 quando i giovani che vivevano nelle baracche volevano impiegare le loro energie per la ricostruzione del territorio, ma che si vedono costretti a dover fare per un anno il servizio militare. Quindi si organizzarono collettivamente per non partire, cominciando una propaganda baracca per baracca che portarono ad una serie di manifestazioni a Palermo. Ci fu un confronto con i carabinieri, in quel momento capitanati dal generale Carlo Alberto Della Chiesa, riuscendo poi ad ottenere un colloquio con il ministro Tambroni.

Dal giugno del 1970, attraverso un percorso radicale arrivarono ad ottenere nel novembre del ’70 una legge che esenta tutti i giovani del Belice dal servizio militare obbligatorio.

Un motivo per cui esiste questo libro è per raccontare che le lotte che ha attraversato Valerio Minnella sono state estremamente radicali, produttive dal punto di vista dei risultati. Nessuna delle vittorie che i giovani della valle del Belice raggiunsero furono definitive, ma permisero di rendere la comunità più coesa. Sembrava importante raccontare queste lotte per poter riportare delle modalità che hanno funzionato, per poter essere riutilizzate nel nostro presente che sta passando dei momenti bui. Il pensiero è quello di disseppellire modalità di lotta per far si che tutti si mettano insieme (tra anarchici, autonomi, cattolici) per raggiungere un unico risultato comune: mettere in discussione e in crisi lo status quo.

Il focus del discorso è passato poi all’importanza del fare comunicazione politica per divulgare le battaglie e le lotte, non dimenticandoci del fatto che la comunicazione mainstream è in mano a chi vuole lanciare determinati messaggi.

Valerio ha affermato che la comunicazione è il punto focale di qualsiasi momento della società e che per lui è sempre stata fondamentale, scegliendo il metodo non violento di lotta. Ha affermato che è lo strumento principale anche quando si fa qualcosa di pratico perché, se di quell’azione non si ha coscienza e il resto del mondo non ne sa nulla, quell’azione non è vincente in quanto non sedimenta nei pensieri degli altri.  Valerio ha scelto di comunicare in diversi modi: ha messo su un giornale indipendente antimilitarista chiamato Se la patria chiama, è un tecnico elettronico e per questo mette su la radio, negli anni 2000 ha inventato le tv di quartiere (Tele Street).

Oggi non si può dire che difettiamo di comunicazione perché ce n’è tantissima, ma non c’è più nulla di nostro nella comunicazione. Valerio è convinto del fatto che Marshall McLuhan avesse ragione quando sintetizzava nel suo pensiero che il mezzo è il messaggio. Se il mezzo che io utilizzo non è mio, neanche il messaggio lo sarà. Noi oggi comunichiamo con mezzi forniti da altri, di formati e dimensioni che sono pensati da altri, su argomenti che sono inventati in altri luoghi che non sono la nostra testa.

Il mezzo è sicuramente comodo, in quanto posso iscrivermi e dopo trenta secondi riesco a produrre un messaggio che però è rinchiuso in un riquadro che qualcuno ha deciso che debba essere così, tarpando già le ali al modo in cui si vuole veicolare un pensiero.

Lo stesso ragionamento viene applicato alle idee: oggi non comunichiamo di quello che viene in mente a noi, ma sull’argomento che va per la maggiore sui social, sottraendo la propria mente da un altro pensiero.

La proprietà degli strumenti di comunicazione è sempre stata in mano a chi ha il potere. Oggi non sono nostri i mezzi e neanche le idee, ma siamo convinti di star comunicando qualcosa di nostro. È questo l’elemento su cui bisognerebbe ragionare: su come rovesciare il paradigma, come cambiare il sistema di comunicazione. Radio Alice invece aveva rovesciato il paradigma volendo acquisire parlatori invece che ascoltatori. La tv di strada è un altro esempio di rovesciamento di paradigma duplice: perché è il rovesciamento del paradigma della tecnologia e del voler trasmettere da lontano su un pubblico sempre più vasto. Tele Street, infatti, trasmetteva in pochi metri perché c’era poco segnale, facendo così proxivisione. Quindi chi fa televisione è il tuo vicino, non qualcuno da lontanissimo e che decide per te. Non è più il verbo di Dio che arriva sulla terra la tv, ma è uno strumento quotidiano ad uso personale.

Un altro esempio riportato da Minnella è quello di Disco Volante, un programma televisivo di Senigallia che aveva come anchorman delle persone disabili, e quindi chi guardava quel programma doveva avere la pazienza di stare ai ritmi di chi conduceva, rovesciando così il paradigma dell’intrattenitore bello e bravo.

Possiamo concludere dicendo che l’esperienza di Valerio è stata fondamentale per raccontare metodi di lotte in quanto “La libertà è fondamentale, ma è altrettanto fondamentale organizzarsi per poter raggiungere quella libertà”.