Esercitare diritti decostruire saperi. Intervista a Roberto Beneduce del centro "Fanon" di Torino.

tratto da "Dinamopress"

Utente: chicca
17 / 4 / 2013

Intervista a Roberto Beneduce del Centro Fanon di Torino.

A cura di Alioscia Castronovo (DinamoPress) ed Eleonora Pittalis (Anomalia Sapienza)

Roberto Beneduce è docente di antropologia culturale e antropologia psicologica all’università di Torino, etnopsichiatra di formazione, è fondatore dell’associazione e del centro di ricerca Frantz Fanon e nel 1996 del Centro Clinico Fanon, che si occupa di salute mentale nell’ambito della popolazione migrante, qualificandosi come servizio di Psicoterapia, Counseling e Supporto Psico-Sociale per Immigrati Rifugiati e Vittime di Tortura.

L’esperimento del Centro Fanon, all’avanguardia in Europa, è stato ospitato all’interno della ASL di Torino fino al gennaio 2013 quando, con pochissime settimane di anticipo, viene disdetto l’accordo e il Centro si trova d’improvviso senza una sede, come denunciato nel comunicato dell’associazione Fanon. Lo stesso centro riaprirà (comunicato di riapertura) poi autonomamente, come spiegherà Roberto Beneduce nel corso dell’intervista, l’11 marzo 2013. Questa intervista è stata realizzata durante il convegno della SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica) tenutosi presso la facoltà di Lettere della Sapienza dal 21 al 23 febbraio del 2013, convegno intitolato “Antropologia medica e strategie per la salute” occasione estremamente stimolante in cui abbiamo potuto incontrare Beneduce per discutere con lui del Centro Fanon e dei tagli alla sanità interrogandoci sulle prospettive di lotta e di critica della realtà che l'intreccio tra le mobilitazioni contro l’austerità e i tagli alla sanità da un lato e l’approccio critico dell’antropologia medica e dell'etnopsichiatria dall'altro ci consentono.

Qual' è l'esperienza e quali sono i campi di intervento e le sperimentazioni del centro Frantz Fanon? Puoi approfondire inoltre le questioni relative alla chiusura del centro e alla sua prossima riapertura.

Il centro Frantz Fanon nasce nel 1996 nell'ambito di un'azienda sanitaria locale, inizialmente all’interno del settore di educazione sanitaria in seguito legato invece al dipartimento di salute mentale. E' un centro che mette in pratica ricerche, riflessioni ed esperienze che provengono da un gruppo pluridisciplinare e pluri professionale, all'epoca della sua nascita infatti c'erano sociologi, antropologi, oltre a medici, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e anche quelli che diventeranno poi i controversi protagonisti di un nuovo modello di cura del cittadino straniero cioè i mediatori culturali. Il centro nasce dunque nel '96, quasi 17 anni fa, sulla base di alcune intuizioni ma anche sulla base di alcuni dati: infatti i cosiddetti immigrati irregolari, pur avendone diritto, accedono di rado ai centri di salute mentale.
Qual' è il motivo?
Non ci sono difficoltà economiche, non ci sono difficoltà istituzionali, sono molto facilmente raggiungibili e tuttavia a questi centri gli utenti stranieri sembrano non arrivare se non di rado.
A partire da questa considerazione il centro Frantz Fanon istituisce delle pratiche di ascolto, intervento clinico, di relazione, alimentate da una serie di ricerche e di dati che provengono dall'antropologia, dall'etnopsichiatria clinica ma che al tempo stesso non schiacciate sul solo profilo esotico che la dimensione culturale ha spesso finito con l'assumere nell'ambito dell'entnopsichiatria anche italiana.
La scelta del nome per il centro "Frantz Fanon" è una scelta che è eloquente a questo riguardo perché Fanon consente di pensare la sofferenza e la sofferenza psichica nella sua articolazione con la storia e con i contesti, non immagina una cultura mummificata o mineralizzata. Frantz Fanon infatti, molto prima e non meno acutamente di quanto avrebbero fatto altri studiosi, avvia una decolonizzazione dei saperi, una decostruzione dei saperi, in primo luogo della psichiatria coloniale, ma anche degli altri saperi del suo tempo, la sociologia, la filosofia, la psicoanalisi, la stessa antropologia.
Tutte le scienze con le quali Fanon si confrontava verranno smontate nel loro dispositivi di potere, nella complicità con le ideologie dominanti. Questo significa per noi occuparsi di utenti stranieri avendo chiaro che la loro sofferenza e il nostro intervento clinico devono essere situati all'interno di particolari rapporti di forza oltre che di senso.
Questa è la prospettiva originaria del centro Fanon che in qualche modo ci protegge da talune "derive culturaliste" ma al tempo stesso non smette di problematizzare e di pensare quello che è la cultura, perché le nuove mode, anche accademiche, finiscono spesso, nel giro di qualche anno, per offrire fluttuazioni di senso contrario e dunque quando la nozione di cultura è diventata difficile e ingombrante anche molti antropologi hanno finito per smettere di pensarla, di interpellarla come una dimensione problematica, come è problematica ogni appartenenza.
Questo significa che del culturale bisogna farsene qualcosa di molto più complesso, di molto più politicamente connotato e interrogato di quanto spesso non si sia fatto, non lo si può abbandonare a coloro che ne fanno cattivo uso, come a volte accade di vedere nel linguaggio banalizzato, stereotipato dei media, dei servizi socio-sanitari, dove il culturale è evocato come metafora dell'incomprensibile o spesso purtroppo metafora di una delega a presunti esperti. L'esperienza con gli utenti stranieri e con la sofferenza psichica, con la sofferenza nella sua articolazione con la cultura, nella sua articolazione con gli aspetti positivi o negativi dell'ambiente ospedaliero, ci inchioda alla responsabilità teorica di non smettere di pensare le appartenenze culturali come sorgente di sofferenza, di ambivalenza, in qualche caso come sorgente di senso e in ogni caso percorso obbligato per capire qualcosa della loro condizione e qualcosa del modo di curare queste persone. Ciò detto il percorso del centro Fanon è stato complesso e si caratterizza per non aver mai immaginato un modello rigido da riprodurre ma come un territorio di domande di esplorazione che non si immaginano esauribili. In questo territorio chiaramente abbiamo visto anche la violenza delle istituzioni, l'indifferenza delle istituzioni, per le quali in molti casi la necessità di un intervento rigoroso a favore della persona, a favore di un paziente, può essere negoziata o può essere ridotta a una pura questione economica.

Ad un certo punto, però, è arrivata una lettera della ASL …

Si, infatti abbiamo conosciuto negli ultimi mesi una fase difficile perché per motivi molto banali, burocratici, l'Asl ha deciso di non rinnovare l'affitto dei locali dove era ospitato il centro Fanon e una parte del dipartimento di salute mentale. Mentre per quest'ultimo ha trovato, con relativa facilità, una nuova collocazione, ha colto l’occasione l'occasione per non dare risposte al lavoro e alle esigenze di continuità del centro Fanon. Alle nostre richieste ripetute di dirci come operare con 250 utenti - questo il numero degli utenti presi in carico nell'ultimo anno – abbiamo trovato solo silenzio da parte delle istituzioni, dell'azienda sanitaria, il che dal punto di vista dell'etica e della clinica è non solo inspiegabile ma è inaccettabile perché il principio e la continuità terapeutica impone che non si rimanga nel vago, che si diano chiari indirizzi, orientamenti e alternative agli utenti, invece tutto ciò non è accaduto e si è arrivati addirittura a un'interpellanza in sede di consiglio comunale per sapere qualcosa. Questo solo per dirvi di come può diventare indifferente il problema della salute.La questione degli stranieri, della cura degli stranieri e della salute mentale degli stranieri è quindi anche un buon modello per pensare quanto spesso in questa fase sociale la salute sia un valore molto svuotato, un valore continuamente citato ma spesso non tradotto in realtà, e dunque in una situazione economica di difficoltà, dove non ci sono soldi per gli italiani, non sono rare le situazioni nelle quali si sente dire: "come possiamo pensare di occuparci degli stranieri?" Non è nemmeno raro vedere che le aziende sanitarie locali per servizi alla persona utilizzano gli stessi criteri di economia o di tagli alle spese che possono essere invocati negli acquisti di mobili o di beni di consumo o il fatto che spesso molte pratiche legate ai servizi che si rivolgono agli utenti stranieri cadono sotto questo modello generalizzato di valutazione dei progetti al cui interno il 70% del punteggio attribuito a un progetto concerne unicamente l'offerta economica più bassa.Questo può sembrare un riferimento banale ma da qui si può partire per una riflessione antropologica più alta, ci da la misura di come ormai si valuta un progetto rivolto a persone sofferenze, utenti, unicamente con l'idea di offrire un servizio che sia economico, che costi poco.
Noi parliamo spesso della salute come di un diritto, io credo che questo sia un diritto, tra gli altri, tra i più esposti all’attuale situazione neoliberista, questa logica è ancora più perversa quando si intreccia a ideologie politiche che spesso considerano alcuni bisogni e alcuni soggetti come privi di rilevanza.
Non credo di produrre un'interpretazione politica molto di parte se ipotizzo che il fatto che l'azienda sanitaria dove operava il centro Fanon fino a qualche tempo fa fosse gestita da un direttore sanitario, un direttore generale, un direttore amministrativo che sono stati collocati da una giunta regionale che ha come presidente un esponente di un partito come la Lega Nord, abbia qualche effetto nei casi in cui si tratta dei diritti degli stranieri, del diritto alla salute degli stranieri.

Quali sono le prospettive del Centro Fanon? E quale ragionamento si sta portando avanti per garantire la continuità dell’esperienza dopo la chiusura dello spazio della ASL?

Il centro Fanon non ha mai smesso di operare perché ovviamente non abbiamo abbandonato gli utenti, abbiamo continuato a seguirli in altri luoghi di fortuna, ad esempio presso alcuni spazi del gruppo Abele, presso gli spazi dell'Unione Culturale di Torino e cosi via, quindi abbiamo potuto garantire agli utenti, per quanto possibile, una continuità. Prossimamente sarà inaugurato il centro Fanon in una sua nuova sede a Torino di cui vi posso persino dare l'indirizzo: via S. Francesco d'Assisi, 3. Al tempo stesso non abbiamo cessato di operare con altri interlocutori, che si tratti della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione umanitaria, dell'università o di altre Asl del territorio torinese, e vogliamo che questa esperienza rimanga comunque all'interno del servizio pubblico. Non immaginiamo di operare come una qualsivoglia associazione onlus del volontariato laico o religioso, intendiamo imporre delle oggettive competenze, esperienze, riflessioni che si sono accumulate nel corso di 17 anni, che sono riconosciute unanimemente anche al di fuori dei confini nazionali e all'interno del servizio sanitario nazionale e del servizio pubblico, perché credo che se ne avvantaggino e utenti e operatori.
Noi abbiamo con gli operatori una relazione molto feconda, di scambio, di supervisione, di cogestione di casi difficili, un patrimonio che sarebbe quantomeno sciocco decidere di cancellare.

L'esempio del centro Fanon è pregnante dal punto di vista della messa a critica dell’ideologia dominante rispetto al concetto stesso di salute e sanità, a partire dalla possibilità di guardare con occhi diversi l'idea stessa di diritto alla salute e di sanità pubblica, proprio mentre le politiche di austerità stanno pesantemente minando le basi della dimensione pubblica della sanità. Quali strategie di lotta possono rivelarsi utili in questa fase a tuo avviso?

Allora, la prima cosa da fare è non accettare come ovvie e naturali le logiche dei tagli, dei risparmi o della povertà delle nostre istituzioni. Non è difficile dimostrare che queste povertà sono il prodotto di scelte politiche e che le priorità che hanno condotto alla situazione attuale hanno dei responsabili molto ben definiti. La prima cosa da fare è ricostruire una genealogia dei tagli e delle responsabilità politiche che ci hanno condotto alla situazione attuale. La seconda cosa è che un diritto non lo si riceve ma lo si esercita o lo si impone, perché se aspettiamo che i diritti vengano riconosciuti questi saranno sempre diritti parziali. Fanon invitava a non accettare il dono della liberazione dal potere coloniale ma a conquistare l'indipendenza in qualunque modo, io credo che questa metafora fanoniana ci aiuti anche a capire che oggi i soggetti che vedono erodere i propri diritti devono essere sostenuti e credo che nello scenario attuale i momenti in cui cittadini stranieri partecipano attivamente a delle lotte politiche per rimuovere degli ostacoli sul loro percorso, per avere accesso a spazi abitativi, occupando case vuote ad esempio, sono tutti piccoli fuochi che ci mostrano come è all'interno di queste sensibilità che si affermano i diritti e li si rendono concreti, e questo significa anche per gli accademici una responsabilità nuova laddove si deve essere in grado di leggere in queste dinamiche, qualcosa che io traduco nei termini di una restaurata sovranità culturale e politica.La salute è questo, o è restaurata sovranità sul proprio corpo, sui propri bisogni, e quindi sovranità significa anche esercizio di un potere, oppure rimane esposta a una condizione di diritto molto spesso virtuale. Dico questo anche perché chi lavora con i corpi e non si limita solo a riflettere sulle teorie sa bene che sui corpi si continua a giocare una battaglia politica ancorché mascherata di differenza culturale. Nostra responsabilità è riconoscere il politico nel culturale, non dire semplicemente che il culturale sia rilevante. Faccio un esempio molto banale perché questo sia chiaro: quando alcuni giudizi sui modi di educare un bambino, di pettinare i capelli di una bambina, di alimentarsi, sono all'origine di decisioni istituzionali (relative ad esempio all'inadeguatezza di un modello educativo familiare o genitoriale perché la cultura dell'altro non si è abbastanza "civilizzata", "adeguata" o "adattata"), allora bisogna capire che a partire dalla leva culturale noi dobbiamo esser in grado di riconoscere un discorso politico, nel caso in cui invece lasciassimo scivolare nella banalizzazione la questione culturale, non riusciremmo poi nemmeno a fare un buon discorso politico.

Ultime due questioni: da una parte le mobilitazioni contro i tagli alla sanità, anche qui a Roma delle cose interessanti si stanno muovendo non solo all’interno degli ospedali ma anche sul livello territoriale (palestre popolari, utenti dei servizi, comitati territoriali, per esempio a pochi passi da questa facoltà si sta lottando per difendere il reparto di neuropsichiatria infantile a rischio chiusura). In Grecia invece è accaduto pochi mesi fa un altro fatto a nostro avviso particolarmente interessante, ovvero l’occupazione e l'autogestione di un ambulatorio, in cui si sta sviluppando un percorso che coinvolge utenti e medici con l’obiettivo di re-immaginare e ripensare in comune il concetto di salute, all'interno della crisi che il paese sta vivendo. Quali prospettive si aprono anche qui in Italia? E per concludere, quali sono le prospettive e le sfide dell'antropologia medica e dell'etnopsichiatria, alla luce anche della discussione che si sta svolgendo in questa tre giorni di convegno della SIAM?

Allora rispetto al primo caso direi rapidamente che tutte le situazioni di erosione della sicurezza, della certezza, laddove la nostra garanzia, per usare un altro termini a noi familiare, la garanzia delle cose fondamentali è messa in discussione, bisogna trovare degli altri spazi, quindi inventare delle altre alternative. Sicuramente gli esempi che hai citato ci fanno capire che si può reagire, e lo sappiamo perché abbiamo appreso a riconoscere che laddove c'è esercizio di potere e dominio c'è sempre resistenza. Questa è una forma di resistenza, le persone, i gruppi, hanno possibilità non solo di sopravvivere ma di inventare delle tattiche che consentano anche di risolvere realmente i problemi. Va da se che queste tattiche hanno molto spesso un breve respiro, hanno un valore eccezionale, non si generalizzano facilmente, quindi il loro valore è un valore esemplare, ma molto resta da fare perché poi diventino regola. Questo lo dico perché dobbiamo ricordare che spesso il cinismo delle istituzioni o delle elite è tale che si deleghi poi a queste soluzioni eroiche la soluzione dei problemi, questo è un rischio che va evitato, cioè il riuscire a produrre delle forme efficaci di risoluzioni dei problemi non significa che si debba smettere di pungolare i centri di potere, e soprattutto i centri economici, perché si cambi rotta. Un discorso analogo potrebbe essere fatto anche per l'insegnamento, io posso ben immaginare di inventare con i miei studenti un corso a costo zero in termini di acquisto libro, produrre dispense e azzerare i costi di acquisto di materiali didattico, ma questo è comunque un elemento emergenziale, non può essere immaginato questo protocollo di emergenza come la logica che deve funzionare.Tutto quello a cui stiamo assistendo è il prodotto perverso di un'intenzionale modalità di spreco delle risorse, di assassinio dell'ambiente, di omicidio delle intelligenze, e quindi bisogna invertire tutti questi processi, il che non è facile però non era difficile prevederlo e ancora oggi noi assistiamo a vicende nelle quali il paradosso è artificialmente costruito in laboratorio, quello che evoco sempre più spesso con i miei studenti è quello di Taranto, dove, sapete bene, il diritto alla salute, il diritto sacrosanto alla salute è messo in contrapposizione con il diritto al lavoro. Come vedete sono questi labirinti che i centri egemonici del potere sono bravi a produrre, a generare ed è in questi labirinti che noi rimaniamo spesso intrappolati.Per quanto riguarda il profilo un po' più teorico, le responsabilità e le prospettive dell'etnopsichiatria e dell'antropologia medica, io ritengo che ogni qualvolta si sia in grado di produrre delle pratiche, e non solo dei saperi, in grado di rovesciare l'ordine delle cose, ogni volta che si produca un modello di salute che insieme però ripensi l'ordine delle cose, allora noi stiamo producendo un sapere autenticamente innovatore.
Ho in mente chiaramente il modello celeberrimo della pedagogia della liberazione di P. Freire, ho in mente i modelli della psicologia generativa di uno psicologo iraniano il quale diceva spesso "noi ci accontentiamo di modulare risposte che rendano l'individuo in difficoltà, vulnerabile o sofferente in grado di andare avanti e sopravvivere, poco ci preoccupiamo di generare nuovi modelli di relazioni sociali o di rapporto tra istituzione e cittadini e quindi ci accontentiamo di usare al minimo i nostri motori teorici".
Noi abbiamo ordini professionali, per esempio l'ordine dei medici e l'ordine degli psicologi, che potrebbero dare molto più di quanto fanno e dicono sulla situazione della salute e del diritto alla salute e per esempio potrebbero fare e dire di più in merito alle condizioni nelle quali sono lasciati gli immigrati clandestini nei C.I.E e non lo dicono nè lo fanno.
Questi sono saperi che in qualche modo spendono male e poco le loro risorse, le loro conoscenze e le loro parole, io credo che anche per l'antropologia medica e l'etnopsichiatria questi sono fronti nei quali veramente si può promuovere una nuova fase nella misura in cui delle articolazioni strategiche, non solo di analisi critica dei testi e delle teorie ma anche di rapporti politici istituzionali, riescano a modificare l'ordine delle cose.

Dinamo Press