I nostri e i loro confini. Per la libertà di movimento universale

7 / 4 / 2016

Il cartello della Repubblica d’Austria messo all’altezza della frontiera, dove stavano i gabbiotti della dogana, tra il Brennero e l’inizio del territorio austriaco ha avuto un che di paradossale domenica 3 aprile. Quando si pone un cartello, per quanto il messaggio dovrebbe suscitare accoglienza e apertura, si fa una distinzione tra uno spazio che è nostro e uno spazio altrui. Io ti dò il benvenuto perché stai entrando nella mia terra; e questa accoglienza, però, presuppone il mio permesso, devo essere d’accordo affinché tu possa attraversare la soglia del mio spazio.

Noi, giovani cittadini europei, siamo stati abituati a non chiedere alcun permesso. Ci hanno insegnato, dalle prime lezioni di educazione civica nelle scuole e dai primi viaggi che abbiamo fatto, che l’Europa è il continente della libertà di circolazione. Certo, interessa molto di più che un libro, un pezzo di un’auto, un cellulare arrivino in Italia senza avere tasse e controlli doganali. Ma anche le persone con un passaporto europeo possono muoversi e stabilirsi dove vogliono senza limiti. Perché l’Europa si è fondata sulla pace e sulla fratellanza dei suoi Stati membri. Così ci hanno venduto, da quando è entrato in vigore Schengen, la nostra possibilità di muoverci.

Non siamo fratelli di coloro che vengono dall’esterno dell’Europa – che, tradotto, vuol dire non essere in pace con loro. La possibilità di muoverci è garantita nella misura in cui chi vuole entrare nel Vecchio Continente dalle coste libiche, tunisine, marocchine, eccetera, oppure dalla Siria, trova una via sbarrata. Che siano navi di Frontex o muri con filo spinato, poco cambia. Questo il senso della fortezza Europea. Per anni questo doppio aspetto dei confini interni ed esterni, nonostante le giuste denunce dei movimenti e delle associazioni, ha tenuto banco. Fintanto che possiamo muoverci liberamente, che l’Europa sia pure impenetrabile dall’esterno.

Qui esplode il paradosso del cartello di benvenuto austriaco. Non solo la chiusura delle porte dell’accoglienza da parte dell’Austria ha determinato il blocco della Balkan Route, provocando l’ammassamento in condizioni disumane dei migranti a Idomeni e dando una sponda all’infame accordo Ue-Turchia; non solo ha annunciato di intensificare i controlli e di essere pronta a respingere i migranti che arriveranno dal Brennero, prevedendo il flusso che probabilmente ripartirà dalla Libia o dall’Albania. Il 3 aprile l’Austria ha deciso di militarizzare e sbarrare una frontiera interna impedendo di fatto l’esercizio della liberta di movimento di cittadini e cittadine europei. Ha sospeso Schengen, tracciando nuovamente a terra la demarcazione tra Stati nazione che dal ’99 è stata cancellata in tutta Europa. Lo spray urticante ed i manganelli hanno funzionato da dogana violenta sui corpi dei manifestanti decisi ad attraversare l’Austria. Il confine materialmente non si vedrà per adesso, non sarà tangibile, eppure si manifesta proprio quando qualcuno, collettivamente, decide di passarlo.

Un fatto, quello del respingimento del corteo, che ricorda terribilmente i muri ed i fili spinati a Est, le forze di polizia impiegate a Calais e a Idomeni. E’ ovvio che la condizione giuridica e politica degli europei è diversa. Ed è altrettanto ovvio che la mera esistenza umana a Idomeni come a Calais è in pericolo e non può essere paragonata a chi vive nelle città europee, perché si è scelto di lasciar morire (nel senso di esporre al rischio di morte) decine di migliaia di persone. Le testimonianze della carovana Overthefortress possono descriverlo benissimo. Il Brennero ha, però, espresso in una forma più violenta e visibile le continue sospensioni, gli ostacoli, le difficoltà di praticare la libertà di movimento anche per gli europei – al contrario della circolazione delle merci, sempre attiva, come dimostravano i treni in transito domenica scorsa. Quelle difficoltà che ci colpiscono quando vogliamo andare a vivere, studiare o lavorare all’estero. Certo, non abbiamo problemi a stabilirci fisicamente in una qualunque città europea. Ma a quali condizioni? In Belgio se non si ha un livello sufficiente di reddito la nostra residenza può essere interdetta. In Germania e in Austria accedere al welfare e ai diritti sociali (disoccupazione, pensione, ecc…) è sempre più difficile se si è stranieri. Non sono anche questi confini interni, per quanto non segnalati da un cordone di polizia o da un casello doganale?

Più di cinquecentomila italiani sono evasi dall’Italia. Un cifra enorme rispetto all’immigrazione nella Penisola. Un flusso di giovani precari si sposta continuamente dal Sud al Centro-Nord Europa, finendo a lavorare per un salario molto basso e in un quadro in cui i diritti sociali non sono adeguati. I confini servono indubbiamente ad abbassare ancora di più il costo del lavoro. Adesso, in più, ritorna la loro carica simbolica della differenziazione, dello stabilire chi è degno di entrare e chi no, chi è degno di vivere in un territorio e chi no.

Domenica centinaia di giovani hanno disobbedito al divieto imposto dalla polizia austriaca. Centinaia di giovani, da volontari, si stanno mobilitando sulle frontiere esterne dell’Europa non soltanto per spirito umanitario: credono davvero che il Vecchio Continente debba aprirsi e debba rispettare i suoi principi di uguaglianza e difesa dei diritti umani. Perché c’è questa grande disponibilità? A condizioni diverse, la migrazione, la libertà di movimento, è un qualcosa che caratterizza almeno due generazioni europee, a cui non si è disposti a rinunciare. E se lo vogliamo per noi, lo vogliamo anche per chi migra scappando dai conflitti bellici provocati anche dall’Europa. Dal nostro punto di vista, è forse il dover iniziare a chiedere il permesso per muoverci ed avere dei diritti all’interno del nostro continente ad avvicinarci ai migranti. Non è più così facile lo schema binario su cui si è fondato Schengen con l’opposizione libertà all’interno e restrizioni all’esterno.

Di qui il carattere transnazionale della mobilitazione. I confini chiusi delimitano gli spazi nazionali, ma allo stesso tempo la loro presenza impone di confrontarsi con chi sta al di là del confine stesso, ridisegnando le mappe geografiche che ci hanno insegnato fin da piccoli. Al Brennero la manifestazione ha creato uno spazio pubblico di discussione transnazionale non solo perché erano presenti manifestanti austriaci e tedeschi, ma perché ha toccato un nodo sensibile dell’intera cittadinanza. La manifestazione del 3 aprile ha parlato ai migranti di Idomeni e ha fatto suo un principio di solidarietà e accoglienza così come ha parlato di e a noi, del nostro futuro e delle nostre possibilità.

Da questo punto di partenza e disponibilità sociale a contestare i confini dovremmo riflettere. Perché è una questione centrale che determinerà il futuro dell’Europa e che ha tutto il potenziale per ridefinire la cittadinanza europea su basi di universalità, inclusione, libertà e uguaglianza. Domenica c’è stata un’importantissima manifestazione. Quello che ci dovrebbe essere, è un movimento moltitudinario che si pone il problema in termini direttamente politici.

L’immagine del cartello cancellato da una scritta dei manifestanti che recita “Welcome” è forse la posta in gioco di un futuro movimento. Quella scritta ha cancellato un confine che invece è stato di nuovo imposto con l’uso della forza militare. Quella scritta significa che i confini non esistono e che si ha sempre il diritto di essere i benvenuti.