“Da dove veniamo noi disoccupati? Noi veniamo da molto
lontano, nella storia italiana abbiamo il privilegio di aver riempito molte
pagine, la storia ci cita come il deficit della nazione, siamo lo specchio dove
si riflettono tutte le immagini più brutte della vita, come la miseria,
l’ignoranza, la malnutrizione e l’esasperazione, tutti attributi negativi per
un paese dove si parla di progresso e di democrazia. […]
Dove siamo nati? A Napoli, città canora e capitale morale della miseria, madre
adottiva dei disoccupati; essa ci ha tenuti a battesimo da Ferdinando II a
Lauro fino alla famiglia Gava…”.
Da “Ci
dicevano analfabeti” il movimento dei disoccupati organizzati di Fabrizia
Ramondino, edizioni Argo 1977
La leggenda narra che il
primo comitato dei disoccupati organizzati nacque a Napoli in vico Cinquesanti,
in uno dei vicoli del centro, zona San Lorenzo, in onore ai 5 santi e proprio 5
erano i componenti del primo comitato dei disoccupati organizzati.
Era l’autunno del 1974.
Il movimento di lotta dei disoccupati organizzati farà una parte importante
della storia delle lotte sociali a Napoli.
Un modello.
In termini di radicamento
territoriale: decine di comitati in quartieri diversi della città; in termini
di produzione di soggettività: capaci di strutturare esperienze di alcune liste
in grado di affrontare una lotta politica complessiva; in termini di radicalità
della lotta (basta una semplice ricerca via web), nei termini dello sforzo
ricompositivo di classe, come quando nel 1975 bloccarono gli straordinari
all’Alfa di Pomigliano.
Lo sono stati nei termini della capacità di vittoria, nell’esercizio dei
rapporti di forza con le istituzioni, che hanno portato al lavoro, quasi sempre
nella pubblica amministrazione, migliaia di disoccupati lungo gli anni
’70,’80,’90.
Il penultimo ciclo di lotta,
quello che formò gli LSU – lavoratori socialmente utili, è arrivato a
conclusione in questi anni con l’assorbimento di gran parte di quel bacino,
creato negli anni novanta, nelle aziende municipalizzate e nella pubblica
amministrazione.
L’ultimo ciclo, quello cominciato con la piattaforma programmatica di lotta
stabilita in un’affollata assemblea al
Politecnico di Napoli nel 1997 è ancora nelle piazze.
Eppure quella centralità avuta per anni nel conflitto sociale dal movimento dei
disoccupati è andata via via scemando fino alla situazione drammatica di oggi.
In pochi nel mondo dei disoccupati organizzati hanno saputo attraversare i
movimenti degli ultimi dieci anni, da quello noglobal fino a quello dei beni
comuni. Ed anche quella capacità di legarsi agli altri segmenti sociali in
lotta come gli studenti, che riusciva bene negli anni novanta, si è
completamente annullata nei cicli di lotta successivi.
I disoccupati.
Protagonisti di una eterna vertenza verso le istituzioni per “il lavoro stabile e sicuro”. E
chissenefrega della ristrutturazione del mercato del lavoro! Fame, miseria ed
emigrazione attanagliano le nostre terre da quarant’anni in egual misura, ed i
disoccupati non fanno altro che organizzare la rabbia e provare a darle una
dignità politica sul piano rivendicativo e sociale. Invece le fasi si sono
inesorabilmente succedute, i processi di ristrutturazione capitalista sono
andati avanti inesorabili, la frammentazione sociale è diventata lotta di un
segmento contro un altro, e soprattutto il lavoro è diventato una cosa assai
diversa da quello che era alcuni decenni fa. Di pari passo la perdita della
lungimiranza politica di costruire un intreccio di lotte sociali intorno alla
vicenda dei disoccupati ha portato sempre più questo fenomeno tutt’ora enorme
di conflitto sociale verso la marginalità.
Migliaia di persone capaci di seminare il panico in una delle più grandi
metropoli del paese, capaci di ore ed ore di guerriglia urbana tra i vicoli del
centro, capaci di paralizzare completamente i flussi commerciali – se a
proposito qualcuno volesse sapere chi ha inventato i blocchi metropolitani
chieda ai disoccupati!
Ma anche la capacità di aggiornare e reinterpretare le pratiche, come il blocco
del porto di Napoli direttamente a mare, oppure come il blocco degli accessi ai
grandi centri commerciali.
Eppure incapaci di fare opinione pubblica, incapaci di incidere, poi, nelle
dinamiche di pressione sociale in grado di rafforzare la qualità della loro
vertenza.
Non è stato solo questo.
Alcuni pezzi di questo movimento che oggi conta circa una quindicina di liste
diverse per un totale di alcune migliaia di iscritti in un bacino complessivo
di circa 4.500 persone, ha comunque provato a mantenere un’interlocuzione con
il resto dei movimenti. Lo hanno fatto ad esempio a partire dalle esperienze di
lotta sui beni comuni, intrecciando la loro battaglia per il lavoro con la
definizione di un piano rifiuti fondato sulla raccolta differenziata.
Ma qual è oggi lo stato
dell’arte della vertenza dei disoccupati napoletani ?
I primi ad avere una responsabilità nella incomunicabilità delle lotte dei
disoccupati sono proprio quei compagn*, quegli attivist*, come chi scrive, che
troppo spesso avviluppati intorno alla pesantezza della marginalità in termini
di produzione di opinione pubblica della vicenda disoccupati, non riescono a
dare quel necessario contributo qualitativo ad una lotta che sconta, nella
incapacità di comunicazione e nella incapacità di produrre opinione pubblica,
il suo drammatico limite.
Spesso si ha una estrema difficoltà a raccontare delle vicende dei disoccupati
con quasi il terrore di dover scrivere “l’enciclopedia
della vertenza” oppure “la telenovela
della frammentazione del movimento” e con questo non si racconta neanche il
livello di radicalità del conflitto che invece quella esperienza produce.
Dopo un percorso di corsi di orientamento al lavoro e successivamente corsi di
formazione finanziati dalla Provincia di Napoli e dalla Regione Campania si è
formato un bacino di 4.500 disoccupati di lunga durata che da quel percorso
sono stati proiettati dapprima nel progetto finanziato da governo e Regione
Campania denominato I.SO.LA (inserimento socio lavorativo), corsi e stage con
enti di formazione su settori diversi, dall’ambiente al turismo. Poi, in
seguito, con il progetto BROS, continuazione del percorso di I.SO.LA. Questi
due ultimi progetti ideati dalla Regione Campania e finanziati, grazie alla mobilitazione,
anche dal governo hanno significato per 4.500 persone, da alcuni anni, un
sostegno al reddito di circa 590 euro mensili.
Ecco, in dieci righe abbiamo sintetizzato tredici anni di lotta…su per giù…
Lavoro precario, corsi di formazione, stage, tirocini, tanto da modificare la
natura stessa del movimento che oggi non si chiama più dei “disoccupati
organizzati”, ma dei “precari Bros organizzati”.
La nuova giunta di centro destra ha intenzione di cancellare questo percorso
lasciando senza sostegno al reddito 4.500 famiglie. Per questo negli ultimi
giorni a Napoli si vivono scene durissime. Dagli scontri al porto del 15
luglio, all’occupazione del Duomo, dall’occupazione del tetto del Comune e di
quello della Regione fino agli arresti del 21 luglio dopo un’ennesima giornata
di lotta, con i disoccupati in mare a bloccare la partenza dei traghetti dal
porto.
Una situazione drammatica che può avere un impatto devastante sulle economie
dell’area metropolitana partenopea in tempo di crisi. Per questo si vivono giorni
di fuoco già da alcuni mesi ed ora, dopo troppe ambiguità da parte del governo
nazionale e della Regione Campania, Napoli è una polveriera che può esplodere
da un momento all’altro.
La risposta repressiva è durissima. Gino Monteleone e Franco Rescigno, due
portavoce dei movimenti dei disoccupati, sono in carcere a Poggioreale con
l’accusa di essere i promotori del blocco del porto del 21 luglio scorso. Il
numero imprecisato e francamente incalcolabile di denuncie e procedimenti
penali a carico dei disoccupati risulta di una mole così enorme da contribuire
all’ingolfamento della macchina della giustizia a Napoli. Una produzione
giudiziaria così gigantesca che nessuno oggi, nemmeno il collegio legale dei
movimenti di lotta, sa dire con esattezza quanti procedimenti penali pendano
sugli iscritti alle liste di lotta.
Eppure.
Eppure succede che tutto il paese si indigna – e fa bene - per quello che avviene ai 5.000 operai della Fiat
di Pomigliano d’Arco. Uno spaccato residuale del mondo del lavoro legato alla
fabbrica fordista, che senza dubbio risulta marginale rispetto ad una
ristrutturazione del mercato del lavoro che vede nella precarietà diffusa e nel
cognitariato una fetta sempre più maggioritaria della composizione tecnica del
lavoro. Eppure a Pomigliano – ed è grave – si gioca il cambio delle relazioni
sindacali nel paese, mentre pezzi sempre maggioritari di mondo del lavoro sono
ancora non sindacalizzabili perché senza diritti.
Ai disoccupati napoletani, o meglio ai precari in continua formazione
descolarizzati e con una fascia d’età che gli dà tranquillamente la qualifica
di “espulsi” dal mercato del lavoro
nessuno dice nulla. Infondo non vivono una situazione così diversa dagli operai
di Pomigliano. Se a Pomigliano si provano a riscrivere le regole sindacali e a
confondere schiavitù con lavoro, a Napoli con i disoccupati e con
l’atteggiamento del governo matura una idea di welfare in cui gli espulsi dal mercato del lavoro non hanno diritto
a nessun tipo di sostegno. Né sostegno al reddito con le politiche di
inserimento al lavoro, né tantomeno di sostegno al reddito diretto, visto
l’annullamento del reddito di cittadinanza da parte della nuova giunta
regionale. Una idea di welfare dove
non c’e’ spazio per gli ultimi, non esiste nessun tipo di garanzia per l’anello
più debole della moltitudine. Entrambi gli ambiti vivono la stessa residualità,
ma al tempo stesso, la stessa drammaticità sociale. Vivono anche nei numeri una
similitudine: 5.000 operai a Pomigliano, 4.500 i disoccupati del progetto Bros.
Le vittime della crisi che pagano il prezzo più alto.
In una dinamica in cui ben si comprende che oggi i termini dello scontro
coinvolgono anche il mondo del non lavoro. Uno scontro capitale/lavoro/non
lavoro in cui oltre all’ultimazione della ristrutturazione del mercato del
lavoro si comincia a mettere mano ad una idea di welfare che trova i suoi assertori pienamente inseriti nel solco
nella scuola di Chicago di Milton Friedman.
Molto spesso ci interroghiamo intorno al tema dei conflitti, del loro andamento
sinusoidale, della radicalità delle pratiche, delle forme della disobbedienza.
A volte capisci di avere una fenomenologia davanti agli occhi ed essere
incapace di costruirne una narrazione.
Altre volte ti accorgi che quella che ti sembra una differenza incolmabile in
termini di composizione sociale e politica tra realtà di lotta così diverse,
non può in nessun modo significare l’assenza di un principio di sussidiarietà
tra pezzi della moltitudine organizzata.
Per questo oggi vogliamo raccontare la lotta dei disoccupati organizzati come
patrimonio comune delle lotte sociali della nostra città.
Perché la crisi…qua a Sud si paga… qui e adesso….
A’ n’zerta (c.f.r. la serra) è un famoso canto di lotta del movimento dei disoccupati organizzati napoletani che si tramanda da decenni, da movimento in movimento subendo adattamenti al tema a seconda delle esigenze vertenziali.
Molti della mia generazione la ricordano come un passaggio importantissimo della propria esperienza militante. L’affrontare la galassia del movimento dei disoccupati.
Su quelle strofe, quelle che raccontano che “ si si disoccupato fatica o nun fatica t‘spett nu salario garantito…” / se sei disoccupato lavoro o non lavoro ti spetta un salario garantito.”, si era mantenuta una particolare capacità di narrazione di questa esperienza di lotta fatta di canti e autobus incendiati.
Metaforicamente riprendere A’ n’zerta oggi significa riprendere quella capacità di comunicazione con la città, quello sforzo di ricomposizione sociale nei conflitti a cui dobbiamo tendere.