Normalizzazione della guerra e necessità di un nuovo internazionalismo

5 / 4 / 2024

Quando si parla delle guerre attuali, che sconvolgono il mondo, è necessario far sempre riferimento alla governance neoliberista, per comprenderne contesto, cause ed effetti. Altrimenti si corre il grande rischio di “giocare” con la geopolitica, di astrarre le dinamiche internazionali dalle trasformazioni che sono costantemente in atto nel capitalismo.   Fondamentali in questo rimangono le analisi di Toni Negri fatte nella trilogia Impero, Moltitudine, Comune: dopo il fallimento del “colpo di stato” di Bush con l’attacco all’Afghanistan e all’Iraq, mirante a mantenere l’egemonia mondiale della superpotenza americana, il mondo è diventato “multipolare” e la sovranità, piuttosto che unica, si è trasformata in una sovranità molteplice e diversificata.

Gli anni che vanno dalla crisi finanziaria all’insorgere della pandemia di Covid-19 (2007-2020) hanno reso in qualche modo equilibrata questa azione multipolare, che aveva come unico interesse quello di far prosperare gli interessi delle grandi multinazionali, del capitalismo estrattivista e finanziario, succhiano fino allo stremo risorse dalla vita e dalla natura. In questi anni, il mondo si è suddiviso in grandi aree imperiali – Stati Uniti, Cina, Russia, India, con un’Europa sempre più in affanno - alla ricerca di spazi sempre nuovi, sempre più vasti.

Il corto circuito pandemico ha rotto questa finta armonia tenuta insieme solo dalla lex mercatoria, ed è lì che la guerra è riemersa come elemento strutturale della globalizzazione capitalista. Come acutamente osservava Foucault, rovesciando il famoso detto del generale prussiano von Clausewitz “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”, “è la guerra ad essere la continuazione della politica”. Ciò significa che non c’è più la disponibilità alla mediazione per porre fine a una guerra o almeno determinarne i limiti, ma è proprio il suo essere permanente a connotare la guerra nella fase storica attuale.

Lo ripeteremo fino a stancarci: non si tratta più dei vecchi imperialismi. Sebbene assistiamo un po' ovunque a un ritorno delle retoriche nazionaliste, siamo convinti che il declino degli Stati Nazione sia ormai una questione che possiamo dare per assodata. Ma il punto non è solo questo: le guerre che abbiamo conosciuto tra l’inizio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, per quanto hanno avuto effetti catastrofici, si inserivano in un contesto nel quale si intravedevano ancora delle potenzialità “progressive” nel rapporto tra capitale e lavoro.

Tutto questo decade totalmente nella contemporaneità, perché è la cultura stessa della guerra a pervadere ogni ambito della vita sociale, o della biopolitica, per dirla in termini foucaultiani. Ed è forse proprio andando a rileggere Deleuze e Foucault nel passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo che comprendiamo al meglio che cos’è la “guerra permanente”, che sia di alta o bassa intensità. In Sorvegliare e punire Faucault ribadisce ad esempio il ruolo centrale della polizia e del carcere nel controllo sociale, tanto sui corpi quanto sui comportamenti, nel definire “chi è degno e chi no”, nelle discriminazioni di genere, di razza, di classe.

Non a caso oggi il concetto di guerra è associato sempre di più a quello di post-democrazia oligarchica, sempre più repressiva, con tratti apertamente fascisti, contro le lotte, i movimenti o gli “ultimi” della terra. D’altra parte non va dimenticato che il fascismo storico fu un prodotto del capitalismo e del vecchio stato liberale per superare una fase di crisi stagnante e riavviare i meccanismi dell’accumulazione. La biopolitica si trasforma in biopotere, necropotere: lo sterminio di massa di intere popolazioni, come accade in Palestina, lo stillicidio che avviene quotidianamente nel Mar Mediterraneo o lungo altre rotte migratorie, i femminicidi, l’aumento costante dei morti sul lavoro: sono tutte facce della stessa medaglia, nella quale è proprio la normalizzazione della guerra a farla da padrona.

Che fare? È chiaro che solo una rivoluzione globale ed un vero internazionalismo delle lotte ci può salvare, questo è banale quanto autentico. Non mancano certo oggi i movimenti moltitudinari a livello globale, ma manca un processo di interconnessione che costruisca la forza necessaria per creare rotture sistemiche, un processo di “soggettivazione” potente e che abbia una dimensione realmente transnazionale.