Padova: occupata l’università in vista dell’8 marzo

6 / 3 / 2024

L’assemblea transfemminista dell’ateneo ha deciso di occupare il dipartimento di psicologia in vista delle mobilitazioni transfemministe previste per l’8 marzo.

L’occupazione arriva dopo un lungo percorso transfemminista in università, iniziato in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin. Nel corso delle prossime giornate saranno organizzati dei tavoli di discussione sui temi della gestione delle molestie all’interno dell’ateneo e riguardo i saperi di genere. 

La sera di giovedì 7 marzo è previsto un dibattito con la presenza di Giusi Palomba, Lorenza Perini e dell’assemblea transfemminista dell’università di Torino “Mai più Zitt3”. A seguire, si terrà un laboratorio sulle non monogamie consensuali a cura del gruppo di decostruzione maschile in collaborazione con il progetto “Topolyn3”.

Di seguito riportiamo il comunicato in doppia lingua dell’occupazione. 

Chi siamo?

Siamo l’assemblea universitaria transfemminista (AUT), uno spazio di confronto e mobilitazione nato a partire dall’agitazione diffusa di novembre, in seguito al Femminicidio di Giulia Cecchettin.

Come studentesse e studentu abbiamo sentito la necessità di trovarci per parlare di tutte quelle dinamiche di prevaricazione e violenza che permeano la nostra vita individuale e sociale dalle quali la nostra università non è esente. Abbiamo sentito l’urgenza di organizzarci perché non possiamo più tacere di fronte ai centinaia di femminicidi che avvengono ogni anno solo nel nostro paese, di fronte agli abusi e le violenze di diverse forme che colpiscono le donne e le soggettività non eterocisnormate. Abbiamo sentito l’urgenza di farlo a partire dall’università, dentro e contro, perché con il suo silenzio, con l’assenza di percorsi che parlino di violenza di genere, con l’assenza di un’educazione sessuale e affettiva, con l’assenza di un’effettiva gestione delle molestie dentro gli spazi dell’ateneo, anzi con la tendenza a nasconderle e invisibilizzarle, si fa complice del sistema patriarcale che struttura la nostra società e non ci dota di strumenti adeguati per difenderci e reagire.

Abbiamo iniziato ad organizzarci utilizzando una forma orizzontale di comunicazione, che ha favorito il dialogo su quei temi che non vengono mai trattati all'interno degli spazi universitari. Siamo riusciti a creare uno spazio aperto di ascolto e confronto da cui sono nati dei tavoli di discussione: saperi di genere, sportello antiviolenza e decostruzione del maschile. 

Perché l’occupazione?

Dopo diversi mesi di assemblee, flash mob e dibattiti abbiamo deciso di riappropriarci e occupare gli spazi della nostra università che troppo spesso ci sono stati negati, come il 24 Novembre, quando, poco dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, abbiamo richiesto lo stop delle lezioni con una petizione di migliaia di firme, e degli spazi per discutere, ma siamo state ignorate dalla rettrice.

Utilizziamo l’occupazione come pratica di immaginazione e trasformazione. Le aule e i corridoi che attraversiamo quotidianamente possono essere luogo di violenza, discriminazione e spesso trasmettono un sapere che si spaccia come neutrale e oggettivo, ma che è in realtà il prodotto di una cultura patriarcale, capitalista e coloniale. Riprendendoci questi spazi vogliamo creare un’alternativa che parta da noi studentesse e studentu. Questa occupazione si mette in relazione con i tanti altri momenti di agitazione che si stanno dando nelle università d’Italia in questi giorni, da Bologna a Torino e Roma,  ed è anche una risposta ai tentativi di repressione del dissenso di questo governo, i manganelli di Pisa, di Catania, gli sgomberi di case e di spazi sociali in tutto il Paese. Con questa riappropriazione di spazi, vogliamo dimostrare che studentesse e studentu sono capaci di organizzarsi e di reagire alla violenza di genere, alla guerra, al genocidio in Palestina e alla complicità delle presunte democrazie occidentali: dimostriamo anche che non abbiamo paura e che non abbiamo intenzione di rimanere in silenzio. 

Attraverso i dibattiti e le assemblee produciamo un sapere basato sul confronto tra pari e che parte dalle nostre esperienze, che parla di genere, relazioni, violenza e desiderio di trasformare la forma imposta del sapere verticale e acritico.Tramite la festa e i pasti condivisi di questi giorni vogliamo vivere un modo diverso di stare insieme, di cura e sorellanza contrapposta alla competizione a cui ci costringono i ritmi dell’accademia. Occupiamo l’università perché abbiamo bisogno di spazi in cui sentirci sicure e libere, spazi in cui creare e confrontarci senza dover necessariamente consumare o studiare in vista di un esame, spazi in cui poter esprimere noi stesse senza dover sottostare a canoni estetici e comportamentali che non ci appartengono.

Perché Psicologia?

Tra tutte le facoltà dell’università, la scelta è stata quella di riappropriarci di psicologia, perché rappresenta, in particolare nel padovano, il baluardo della “buona scuola”. Quella che a quanto pare dovrebbe ritrarre la tutela dell’individuo e dei gruppi, quella che si avvale del primato italiano di avanguardia nella ricerca, ma che rappresenta solo la struttura competitiva e performativa del tessuto socio-culturale odierno. In tutto questo millantare la sua posizione, tra professori con curriculum infiniti, escono figure come quella di Alessandro De Carlo, docente di Psicologia del Lavoro (nonché presidente dell’Ordine Degli Psicologi del Veneto), che nelle ultime dichiarazioni ha espresso posizioni che individualizzano la violenza e ne rifiutano la natura sistemica.

I femminicidi sono “solo” un sintomo estremizzato della struttura societaria disuguale in cui siamo socializzati, sono solo la punta dell’iceberg di un sistema patriarcale che avvolge ogni ambito della vita sociale

Il docente, incurante dei dati statistici sulla violenza di genere, afferma che i femminicidi sono in netto calo, e, che, a quanto pare, le opere di informazione e sensibilizzazione stanno portando un cambiamento netto.

Un cambiamento così netto che si conta un femminicidio ogni tre giorni, un cambiamento così netto che per questo psicologo basterebbe comunicare, basterebbe chiudere i rapporti e non rispondere più alle telefonate, testualmente «basta voltarsi dall’altra parte».

Cosa chiediamo?

Con questa occupazione abbiamo una richiesta principale da rivolgere alla governance della nostra università: l’assunzione di responsabilità politica nel riconoscere gli episodi di molestia e discriminazione dentro l’ateneo e la presa in carico efficace della loro gestione coinvolgendoci e riconoscendoci un protagonismo nella risposta a queste forme di violenza.

Ci aspettiamo che alla luce dei 55 casi di denuncia dello scorso anno e dei tanti ancora che vengono invisibilizzati, dato che la gestione attuale non ci fa sentire sicure di esporci, l’ateneo si metta a disposizione per ascoltarci e ragionare insieme a noi su come affrontare tutto questo. Il Cug non basta, la consigliera di fiducia è insufficiente, la “censura” non è una risposta adeguata alle molestie di un docente, come nel caso del docente di beni culturali venuto alla luce qualche giorno fa, non ci servono risposte tappabuchi e non ci servono proposte che arrivano dall’alto e non ascoltano le nostre reali esigenze. Vogliamo che UniPd spenga i riflettori puntati sulla falsa retorica dell’inclusione e ceda sovranità e protagonismo alle esperienze dal basso e indipendenti che centinaia di studentesse e studentu stanno elaborando. Noi vogliamo ascolto, autocritica e messa a disposizione da parte dell’università.

Questa occupazione non è il fine e soprattutto non è la fine, è solo un primo passo, perché se nulla cambia, noi l’abbiamo promesso: ci prenderemo tutto. 

Quest’occupazione vuole essere uno spazio più aperto possibile al confronto, alla critica, alle diverse sensibilità. Vogliamo soprattutto che sia uno spazio il più sicuro possibile, dove la sicurezza non la fa la polizia, ma la costruzione di relazioni tra di noi e se necessario le pratiche di autodifesa collettive. Anche se non sei mai venutə ad un’assemblea, questo spazio è anche tuo, sempre dando priorità alla cura collettiva, al rispetto e all’ascolto reciproco. Vogliamo creare spazi di sorellanza e organizzazione, ogni nuova idea è praticabile, ogni orizzonte è raggiungibile, se ci mettiamo insieme a costruirlo!

ENGLISH VERSION

Who are we? 

We are the Transfeminist University Assembly (AUT), a space for confrontation and mobilization born out of the widespread agitation in November following the Femminicide of Giulia Cecchettin.

As students we felt the need to come together to talk about all those dynamics of prevarication and violence that permeate our individual and social lives from which our university is not exempt. We felt the urgency to organize because we can no longer remain silent in the face of the hundreds of feminicides that occur every year in our country alone, in the face of abuse and violence of different forms that affect women and non-heterocisnormal subjectivities. We felt the urgency to do so starting from the university, in and against, because with its silence, with the absence of pathways that talk about gender-based violence, with the absence of sexual and affective education, with the absence of effective management of harassment within the spaces of the university, indeed with the tendency to hide and invisibilize it, it becomes complicit in the patriarchal system that structures our society and does not equip us with adequate tools to defend ourselves and react. We began to organize ourselves using a horizontal form of communication, which fostered dialogue on those issues that are never discussed within university spaces. We managed to create an open space for listening and confrontation from which discussion tables were born: gender knowledge, anti-violence desk and deconstruction of the masculine.

Why the occupation?

After several months of assemblies, flash mobs and debates, we have decided to reappropriate and occupy the spaces in our university that have too often been denied us, such as on November 24, when, shortly after the feminicide of Giulia Cecchettin, we demanded to stop the classes with a petition of thousands of signatures, and spaces for discussion, but we were ignored by the rector.

We use occupation as a practice of imagination and transformation. The classrooms and hallways we walk through on a daily basis can be sites of violence, discrimination, and often convey knowledge that purports to be neutral and objective, but is actually the product of a patriarchal, capitalist and colonial culture. By taking back these spaces, we want to create an alternative that starts with us as students. This occupation relates to the many other moments of agitation taking place in universities in Italy these days, from Bologna to Turin and Rome, and it is also a response to this government's attempts to repress dissent, the batons in Pisa, Catania, and the evictions of homes and social spaces across the country. With this reappropriation of spaces, we want to show that students are capable of organizing and reacting to gender violence, war, genocide in Palestine and the complicity of supposed Western democracies: we also show that we are not afraid and that we are not going to remain silent.

Through debates and assemblies we produce knowledge based on peer-to-peer confrontation and starting from our own experiences, which speaks about gender, relationships, violence and the desire to transform the imposed form of vertical and uncritical knowledge.Through the feast and shared meals of these days we want to experience a different way of being together, of care and sisterhood as opposed to the competition to which the rhythms of the academy force us. We occupy the university because we need spaces in which to feel safe and free, spaces in which to create and confront ourselves without necessarily having to consume or study for an exam, spaces in which we can express ourselves without having to submit to aesthetic and behavioral canons that do not belong to us.

Why Psychology?

Of all the faculties at the university, the choice was to reappropriate psychology because it represents, particularly in Padua, the bulwark of the "good school." The one that is apparently supposed to portray the protection of the individual and groups, the one that makes use of the Italian primacy of avant-garde research, but which represents only the competitive and performative structure of today's socio-cultural fabric. In all this bragging, among professors with endless resumes, come oit figures like that of Alessandro De Carlo, professor of Occupational Psychology (as well as president of the Ordine Degli Psicologi del Veneto), who in recent statements has expressed positions that individualize violence and reject its systemic nature.

Femicides are "only" an extreme symptom of the unequal societal structure in which we are socialized; they are only the tip of the iceberg of a patriarchal system that envelops every sphere of social life.

The lecturer, heedless of statistical data on gender violence, says that feminicides are in sharp decline, and, that, apparently, information and awareness works are bringing about a marked change. 

A change so stark that you count a feminicide every three days, a change so stark that for this psychologist it would be enough to just communicate, just shut down relationships and stop answering phone calls.

What do we ask?

With this occupation, we have one main demand to make of the governance of our university: the assumption of political responsibility in recognizing incidents of harassment and discrimination within the university and the effective taking charge of their management by involving us and recognizing a leading role in responding to these forms of violence.

We expect that in light of the 55 cases of complaint last year and the many more that are still being invisibilitized, as the current management does not make us feel safe to expose ourselves, the university will make itself available to listen to us and reason with us on how to deal with this. The CUG is not enough, the trusted advisor is insufficient, "censorship" is not an adequate response to faculty harassment, as in the case of the cultural heritage lecturer who came to light a few days ago, we do not need stopgap answers, and we do not need proposals that come from above and do not listen to our real needs. We want UniPd to turn off the spotlight on the false rhetoric of inclusion and cede sovereignty and prominence to the grassroots and independent experiences that hundreds of students are processing. We want listening, self-criticism and provision on the part of the university. 

This occupation is not the last one and it’s definitely not the end, it is only a first step, because if nothing changes, as we promised: we will take everything.

This occupation wants to be a space as open as possible to confrontation, criticism, and different sensibilities. Above all, we want it to be as safe a space as possible, where safety is not done by the police, but by building relationships with each other and if necessary collective self-defense practices. Even if you have never come to an assembly, this space is yours too, always prioritizing collective care, respect and listening to each other. We want to create spaces of sisterhood and organizing, every new idea is viable, every horizon is attainable, if we get together to build it!