Public history wars Episodio IV: L’ascesa di Barbero e Filippi

17 / 2 / 2020

Nella galassia lontana lontana dalla decenza, uno dei più terrificanti “grandi giornalisti” riesce ad impadronirsi di “Il tempo e la storia”, ma nuovi divulgatori storici sono sorti, questa volta con successo di pubblico, a smontare semplificazioni e falsità.

Come era facile prevedere Michela Ponziani, “colpevole” di essere donna, storica e antifascista, non è durata a lungo alla conduzione de “Il tempo e la storia”, nella stagione 2017-2018 il programma è stato sostituito da “Passato e Presente”. Si è trattato di una vera e propria contro-rivoluzione visto che la conduzione è stata affidata ad un “grande giornalista”: Paolo Mieli, ex-sessantottino divenuto anti-antifascista, tra i principali sostenitori della visione secondo cui “il fascismo non era poi così male”. La struttura del programma è sempre quella de “Il tempo e la storia”, ma la presenza degli storici in studio è “disciplinata” dal “grande giornalista”, che come ai “bei tempi” del suo programma “La grande storia” tiene un’introduzione ed un suo pistolotto finale a ogni puntata. La cosa è particolarmente imbarazzante quando parla di cose delle quali non sa nulla, se non qual è “l’ortodossia” da far risaltare. Ad esempio il 27 gennaio 2018 nell’introduzione della puntata dedicata al tema “foibe” disse che vi erano stati buttati “migliaia, forse decine di migliaia o addirittura centinaia di migliaia” di italiani innocenti. Una falsità così palese che l’anno successivo, quando la stessa introduzione venne “riciclata” per un’altra puntata sul medesimo argomento, il pezzo del filmato venne pudicamente tagliato, come ha fatto notare il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki.

Ma la cosa forse più irritante sono i tre “futuri storici”, come li chiama Mieli con esibito paternalismo, che a turno siedono su tre seggioloni e rivolgono domande allo storico presente in studio. Naturalmente possono essere interrotti, lodati o bonariamente ripresi dal “grande giornalista”. In generale, visto che il programma ha già un conduttore, non si capisce bene quale sia la loro funzione, forse quella di scenografia. Stiamo parlando di laureati alla magistrale che frequentano un master, cioè persone che hanno almeno 24-25 anni (ma direi mediamente qualcuno in più), ridotti a comparse di una specie di recita scolastica.

Ma, nonostante la presenza del “commissario politico” Mieli e dei tre giovani di turno appollaiati sui loro trespoli, “Passato e presente” non ha potuto che ereditare l'essenza del format de “Il tempo e la storia”. Evidentemente gli storici in televisione funzionano. Uno in particolare è così efficace da non avere neppure più bisogno della televisione: Alessandro Barbero. Specializzato in storia medioevale, docente presso l'Università del Piemonte Orientale. Barbero era già prima dell'approdo in TV un divulgatore che si può definire “totale”: ovvero oltre ai saggi storici è autore di romanzi e accanto alle lezioni universitarie tiene conferenze ovunque lo invitino, dalle fondazioni bancarie ai centri sociali.

La sua ascesa sui mass media cominciò nel 2007, con i primi interventi a “Superquark”, che è stato per decenni (sotto la monarchia illuminata della dinastia Angela) l'unico vero baluardo della divulgazione culturale e scientifica sulla TV generalista. Con il 150° anniversario dell'Unità d'Italia è stato protagonista di una polemica con i neoborbonici e dal 2013 è divenuto uno degli ospiti più apprezzati de “Il tempo e la storia”, oggi continua a comparire a “Passato e presente”, mentre sempre su Rai Storia ha un programma tutto suo: “a.C.d.C.”, in cui introduce e commenta documentari a tema storico.

Ma la comparsa televisiva non ha fatto che amplificare un successo già montante. I suoi video su You tube hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni (qui una raccolta di cui consiglio la visione ). A spiccare sono le lezioni tenute al Festival della mente di Sarzana, che ogni anno gli riserva tre lezioni di oltre un'ora. Intanto sui social si moltiplicano pagine come “Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli” o “Le invasioni barberiche”. Eppure il professore è diventato una “star del web” praticamente suo malgrado: non si avvale di nessun meccanismo promozionale, non ha profili social ufficiali, i suoi video sono stati raccolti e diffusi dagli ascoltatori che lo apprezzano senza il supporto di nessun team di “esperti di comunicazione” e solo nell'ultimo anno i quotidiani nazionali hanno iniziato ad interessarsi al “fenomeno Barbero”, su cui fa il punto anche un interessante articolo di “Esquire”.

Le sue sono lezioni frontali di oltre un'ora, senza “effetti speciali”. Per avvincere gli bastano la sua voce e il suo modo di gesticolare per sottolineare i concetti esposti. Barbero è esattamente il contrario di tutto ciò a cui i “grandi giornalisti”ci hanno abituato. Non banalizza mai i temi trattati, anzi ci tiene a far capire che le cose sono sempre “un po' più complesse”. Le sue esposizioni sono ricche di aneddoti e storie individuali, ma sempre con rimandi a contesti complessivi. Il suo mostrare “il lato umano” delle vicende storiche nasce dall'interesse per la vita reale degli uomini e delle donne del passato, come raccomandava Marc Bloch, mai da cedimenti al “paradigma vittimario” imperante.

Pacato, mai sopra le righe, Barbero è capace di passare concetti anche molto radicali in maniera molto efficace sempre rimanendo aderente ai fatti e alla complessità del reale.

Alla resistenza, nello specifico ai GAP romani e all'attentato di Via Rasella, Barbero ha dedicato una nelle sue tre lezione sulle reti clandestine, tenute al Festival della mente di Sarzana nel 2017. L'esposizione fa piazza pulita di tutte le leggende neofasciste sulle presunte “colpe” dei GAP in merito alla rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, dimostrando anzi come l'azione partigiana mise fine ai bombardamenti alleati su Roma.

Barbero è tra i pochi che in questo paese ha il coraggio di dire che “storia” e “memoria” non sono sovrapponibili, anzi fanno a pugni. Nella sua lezione del 6 aprile 2018 presso la Fondazione E. di Mirafiore  “Memoria vs Storia: due false amiche”, dice chiaro e tondo che non può esserci una “memoria condivisa”, mentre espone alcuni aspetti fondamentali del mestiere dello storico. Di recente ha criticato duramente, in un'interessante intervista che invito a leggere, la risoluzione del parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo.

Nel 2019, lo stesso anno in cui i giornali nazionali si accorgevano del “fenomeno Barbero”, un libro di storia sul fascismo è arrivato in pochi mesi a ben 8 edizioni (probabilmente sono diventate di più nel frattempo). Si tratta di “Mussolini ha fatto anche cose buone” (Bollati e Boringhieri). Il titolo non deve trarre in inganno, il testo (di 150 pagine) è un agile manuale diviso per temi che smonta tutte le bufale sul fascismo “buono”, dalle pensioni alla presunta “onestà” di Mussolini e gerarchi. L'autore è Francesco Filippi, presidente di Deina, un'associazione di promozione sociale che si occupa di organizzare viaggi di approfondimento principalmente negli ex-lager nazisti, oltre che in varie città europee.

Si tratta quindi, per una volta, non di uno storico “accademico”, cioè impegnato nella carriera universitaria, bensì di un divulgatore che ha fatto della didattica, sopratutto con gli studenti delle scuole superiori, il proprio mestiere. Per questo e per la sua relativamente giovane età (è del 1981), il suo caso è un vero e proprio unicum nel panorama italiano. In un paese in cui laureati di venticinque (o più anni) sono mostrati in TV come pazienti comparse nella recita scolastica del “grande giornalista” Mieli, non può che colpire un divulgatore neppure quarantenne capace di scalare le vendite e attirare l'attenzione della stampa nazionale ed europea.

Colpisce nel successo del testo di Filippi, come esso nasca dalle polemiche on line, dal bisogno di molti e molte di rispondere a chi continua ad esaltare il “Duce” sui social. L'acquisto e la lettura del libro non sono quindi semplice consumo di un prodotto culturale, ma una sorta di affermazione della volontà di agire nel proprio piccolo come divulgatori antifascisti. Si compra il libro per regalarlo allo zio con il busto di Mussolini in casa, per rispondere al fascistello che ti rompe i coglioni su facebook o al bar. I fascisti lo devono aver capito e hanno “omaggiato” Filippi con una pratica riservata finora solo ai pochi storici che osano parlare della storia del Litorale adriatico senza inchinarsi alla narrazione nazionalista: uno striscione di minacce.

Ancor più di quello di Barbero, il successo di Filippi è riuscito a rendere evidente ciò che non si era visto nel 2003 quando uscì “Il sangue dei vinti”. Vale a dire l'esistenza di una parte di opinione pubblica portatrice di un antifascismo magari non militante, ma neppure retorico o rigidamente “istituzionale”, di certo composito e diffuso. Questo dato mostra il fallimento della strategia politico-culturale della “memoria condivisa”, perseguita dai vertici della “sinistra istituzionale” fin dall'infausto discorso di Violante nel 1996, quando definì gli aguzzini delle Brigate Nere “ragazzi di Salò”. Dall'altro lato siamo in presenza in qualcosa che sarebbe errato vedere come semplice anticamera dell'“antifascismo militante” o dell' “identità di sinistra” come siamo abituati a intenderli.

In questo paese esiste un composito “popolo antifascista”, che non è parte né della “Nazione” di Cazzullo (e di Violante e Napolitano) né può essere ricondotto ad una delle passate e ben definite identità politiche della sinistra riformista o rivoluzionaria. Questo “popolo”, come tutti i gruppi umani, cerca di definire la propria identità anche in rapporto al passato e lo fa approcciandosi al passato con modalità assai simili a quelle usate dal movimento Friday For Future nell'affrontare il tema del disastro ambientale: attenzione a quanto elabora la “comunità scientifica”, fiducia nella possibilità di comprendere e interpretare la realtà attraverso lo studio e in quella di cambiarla attraverso l'azione in prima persona. Perché vedersi un video che parla di storia per un'ora o leggersi un libro sono già “azione” perché sono acquisizione di conoscenze e consapevolezza, cosa che troppo spesso si tende a sottovalutare.

Naturalmente si tratta di un primo passo. Il composito “popolo antifascista” potrebbe accettare la sua sconfitta, il suo essere minoritario nel paese, e fermarsi lì, ad una “diversità”, magari ammantata di “superiorità culturale ed etica”, coltivata a livello individuale o tra affini. Oppure può sviluppare la sua rinnovata e riscoperta identità attraverso azioni sempre più efficaci e in grado di spostare il “senso comune” del paese. Penso ad esempio a cosa potrebbe fare un gruppo di docenti di storia che si coordina realmente per migliorare il proprio modo di insegnare, ad un collettivo studentesco che organizza momenti di approfondimento e pretende una migliore didattica della storia, ad associazioni o organizzazioni politiche che organizzano momenti culturali in periferia o in un paese di provincia. Cose che richiedono molta più autodisciplina o convinzione  e quindi un grado di consapevolezza e politicizzazione più alti,  di quanto generalmente non si pensi. In primo luogo si tratta di capire che il mondo non è fatto di “ceto medio riflessivo” (in Italia poi il famoso “ceto medio” è composto spesso da nazisti fatti e finiti), che c'è tanta gente che sta o rischia di finire “dalla parte sbagliata” solo perché non ha mai avuto occasione di avere accesso a determinate conoscenze, perché nessuno ha mai saputo presentargliele in maniera accattivante o nel giusto contesto o semplicemente avendo la pazienza di partire dall'ABC.

La possibilità e le forme di praticare nel prossimo futuro una pubblic history di qualità, basata su studi degni di questo nome e non sulle fandonie dei “grandi giornalisti”, dipenderà anche da come il composito “popolo antifascista” saprà declinare la propria identità.