Quello che sta avvenendo dall’altro lato del Mediterraneo, in particolar modo quello che avviene in Tunisia, uno dei paesi del Maghreb in cui da alcune settimane si sta estendendo una rivolta sociale, lascia davvero stupiti.
La meraviglia non nasce certo dalla crescente mobilitazione nata dopo la morte di Sidi Bouzid, fruttivendolo a cui la polizia di Ben Alì aveva sequestrato il suo banco di frutta e per la disperazione si è dato fuoco, non nasce dal fuoco sulla polizia, non nasce da quell’estetica dello scontro che rappresenta comunque il benedetto profumo di rivolta che si estende.
Nasce semmai dallo scoprire che quella che è in atto in Tunisia in questi giorni è la rivolta che vede, al di là delle dinamiche sociali che la animano, gli strumenti di lotta telematicamente più avanzati. Un misto di internet, sindacato, pietre e system failure dei sistemi informativi del governo tunisino, che ci fanno descrivere la rivolta tunisina come un esempio avanzatissimo di rivolta sociale 2.0.
In merito alla composizione
sociale dell’insorgenza tunisina abbiamo ben capito come i costi della crisi
siano piombati nel paese del dittatore Ben Alì sulle spalle di giovani laureati
disoccupati, sugli studenti, su uno spaccato sociale con una formazione
scolastica medio alta che hanno coltivato la propria esistenza nella speranza
di una mobilità sociale verso l’alto ed improvvisamente si ritrovano a dover
fare i conti con gli stenti della sopravvivenza. Una composizione sociale che
se vogliamo somiglia in diversi tratti a quello che sta avvenendo in diversi
luoghi del mondo e che in Italia si è espresso il 14 dicembre scorso nel giorno
della fiducia al governo Berlusconi.
Fulvio Massarelli sul “Il Manifesto”
c’ha raccontato bene di questa composizione sociale capace di essere la prima
espressione di conflitto contro la crisi nei paesi arabi. Una lotta che vede
nelle sedi sindacali dei luoghi di connessione delle lotte, in cui una
generazione di / giovani / arabi / disoccupati / scolarizzati /, ritrovano il
confronto ed articolano una ribellione che nasce contro la crisi ed il carovita
ed immediatamente si pone come ribellione contro la dittatura di Ben Alì.
Ma è l’uso della rete che sta caratterizzando la rivolta tunisina.
Come già avvenuto per l’onda verde iraniana i giovani tunisini hanno utilizzato
internet ed in particolar modo i social network come Facebook e Twitter per
scambiarsi i video della rivolta, per chattare e costruire mobilitazioni, per
diffondere all’estero nel immagini della rivolta bucando sistematicamente la
censura del governo. Esattamente come in Iran il governo tunisino ha proceduto
ad un’opera di censura capillare in rete, bloccando la condivisione dei video,
ed arrivando, anche con sofisticati sistemi di censura on line – nome in codice
Ammar - a bannare le parole “Said Bouzid” dagli “stati”
e dai “post” di Facebook e Twitter.
In questo modo la rivolta tunisina ha cominciato a nominarsi.
Siamo tutti Said Bouzid innanzitutto !
Fino a qui l’utilizzo della rete anche in Tunisia dopo l’Iran ci conferma come
proprio dai popoli arabi il tema della acuirsi dello scontro tra modernità e
tradizione sotto i colpi della crisi sta producendo frutti senza dubbio
interessanti, positivi e tutt’altro che scontati.
Ma in Tunisia è entrata in scena anche la rete Anonymous, una rete globale di
hacker artefici degli attacchi a Visa, Mastercad, PayPal ed Amazon dopo
l’arresto di Assange nell’ambito delle rivelazioni del sito Wikileaks.
Anonymous ha lanciato un breve comunicato invitando il governo tunisino a
cessare la censura on line. Gli uomini di Ben Alì devono aver sottovalutato il
pericolo hacker, i quali improvvisamente sono diventati una nuova componente della
rivolta tunisina.
In down sono finiti tutti i siti
governativi, sistemi informativi, e persino il sito del primo ministro. Si
chiama #OpTunisia, la campagna di
Anonymous che sta contribuendo anche alla diffusione tra i cybernauti tunisini,
che rappresentano la più grande comunità Facebook del Nord Africa, del sistema
di navigazione TOR, un sistema sofisticatissimo che garantisce di navigare in
anonimato e quindi bucare la censura mediatica della polizia.
Insomma la Tunisia ci sta fornendo la
rivolta più aggiornata vista fino ad ora.
Da un lato le sedi sindacali come luoghi di discussione e confronto politico,
se vogliamo dei luoghi classici anche se non possono essere considerati come le
centrali sindacali occidentali avendo una storia e soprattutto un contesto
culturale e politico differente; dall’altro l’utilizzo della rete nella
comunicazione di massa globale; dall’altro ancora nelle piazze con pietre ed
assalti e nella rete con attacchi ai siti governativi.
Ciò che non dobbiamo mai dimenticare però è che la Tunisia (così come l’Algeria) è un paese arabo, dove l’Islam per lunghi decenni del novecento ha rappresentato il collante sociale che talvolta svolgeva il ruolo di mediatore dei conflitti assorbendoli, diluendoli e sedandoli, nel nome di una direzione religiosa che vedeva nelle leve del potere governativo il suo vero burattinaio.
Ciò che si consuma è senza dubbio una rivolta contro la crisi, ma in un paese ed in una regione dove è vivo il conflitto tra modernità e tradizione.
Dopo i drammi delle conquiste
coloniali e delle successive liberazioni, l’Islam è diventato nei paesi del
Maghreb, da un lato collante sociale e culturale, dall’altro strumento di
articolazione e veicolazione dell’avversione verso l’occidente e la sua cultura,
identificata – a ragion veduta – come l’incarnazione dello sfruttatore e del
colonizzatore. Dal dopo guerra in poi il mix tra Islam e lotta di liberazione
ha prodotto i nazionalismi che hanno poi dato vita ai governi dittatoriali che
ancora oggi tengono in scacco il Maghreb. L’idea stessa della nazione islamica,
dell’unità del popolo islamico sulla sua terra, della simbologia e dei riti
musulmani ha contribuito alla costruzione di un modello culturale che alla fine
ha accettato altre oppressioni.
Ben Alì in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia e via discorrendo,
sono il frutto di una impostazione culturale che muoveva dal desiderio di
liberazione dal giogo coloniale ma che, grazie soprattutto all’Islam, si è
trasformato nella costruzione di una nuova oppressione. Un Islam che nel
novecento ha dimenticato la sua capacità e propulsione all’innovazione ed al
rinnovamento trovando nei suoi interpreti personaggi legati dal desiderio di
potere e talvolta, così compromessi con gli interessi occidentali che dicevano
di voler combattere, da divenire dei pupazzi ridicoli agli occhi dell’occidente
stesso.
I giovani tunisini che
animano le rivolte di queste settimane dovrebbero ricordare la storia del
gruppo di giovani maghrebini guidati dall’imam egiziano Rifa’a Rasi al – Tahtawi,
che tra il 1826 ed il 1831 andarono in Francia con il compito di imparare le
scienze esatte, la tecnica e le scienza umane per poterle applicare in Egitto.
Tahtawi tenne un diario – L’oro di Parigi
– che è diventato un classico nei paesi musulmani grazie alla prospettiva
dello sguardo e dell’analisi dello stesso Tahtawi e dei quaranta studiosi
maghrebini che erano con lui. Si sentivano depositari del futuro, un sentimento
di emancipazione e di rinnovamento che ha scosso in quegli anni tutti i paesi
del Nord – Africa e che ha dimostrato come anche l’Islam di quel tempo fosse
senza dubbio ben lontano dal rigetto della modernità che ne ha caratterizzato
l’evolversi per la seconda metà del novecento.
Un sentimento di rinnovamento ed emancipazione che ha caratterizzato anche la Tunisia in anni più
recenti, come la fondazione nel 1981 del I.P.T – Islamismi Progressisti
Tunisini – che provarono a costruire una sinistra islamica attraverso la
rivista << XV/XXI>> che sta a significare il quindicesimo secolo dell’ègira ed il terzo millennio. [1]
I ribelli tunisini sono oggi lo specchio dello scontro di una regione che si misura nel contesto della crisi in una lotta tra modernità e tradizione . Il progressivo prevalere della ragione umana sulla ragione divina muove tali mutamenti. La nascita di una idea di cittadinanza che si esprime nel desiderio di liberarsi dall’oppressione dittatoriale, il passaggio ad una economia globale che oggi fa sentire i morsi della crisi, il mutamento strutturale degli strati sociali sono impensabili senza il passaggio epistemologico dalla visione teocentrica a quella umanista[2].
Infondo nel mondo musulmano il confronto tra avvenimenti politici e socio economici dimostra la difficile emergenza della modernità sul piano intellettuale e su quello politico e la costante oscillazione fra tendenze conservatrici, che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, e superamento delle stesse, che è quello che si sta vivendo oggi.
Se vogliamo è stato proprio lo scontro con le culture occidentali a produrre questa frizione che va vista come positiva. Già duecento anni fa Engels in una corrispondenza con Marx elogiava addirittura la conquista dell’Algeria da parte dei colonizzatori perché avrebbe messo nelle condizioni gli altri Stati arabi ad una svolta di progresso civile.
“La conquista dell’Algeria ha già forzato i Bey di Tunisi e Tripoli, come il Re del Marocco, a impegnarsi sul cammino della civiltà. Sono stati obbligati a trovare per i loro popoli altre occupazioni…”[3]
Non ci pare un caso che
proprio davanti alla crisi, nuovi mutamenti sociali possano contribuire ad una
stagione di rinnovamento dal basso del mondo arabo e delle sue istituzioni. La
rivolta tunisina, forse più della rivolta del pane in Algeria, ci consegna oggi
uno fenomeno sociale importantissimo, dove non solo si palesa un conflitto
sociale contro la crisi nel mondo arabo, fatto decisamente nuovo, ma al tempo
stesso si delinea la possibilità di innovazione e cambiamento in quella regione,
dove parole come libertà, democrazia e diritti sono categorie dimenticate che
premono per essere affermate. Gli interpreti dell’Islam non possono certo dire
di essere estranei a ciò che avviene. L’Islam in quella regione ha avuto un
ruolo centrale in tutti i cambiamenti sociali e culturali.
Questa volta l’affermazione del tawhid
– l’unicità di Dio su tutto – rischia di essere travolta dal cambiamento…e
magari anche da un attacco telematico…
“Guai a quelli che fanno l’orazione
e sono incuranti delle loro orazioni,
che sono pieni di ostentazione
e rifiutano di dare ciò che è utile”
Il Corano, Sura CVII, vv. 4 -7
[1] Mohammed Arkoun, “Contributo allo studio dell’umanesimo arabo dal VI al X secolo”
[2] “L’islam contemporaneo” di Khaled Fouad Allam, in “Islam” a cura di G.Filoramo
[3] Corrispondenza tra Marx ed Engels del 22 gennaio 1848 (corrispondenza inedita fino al 1976)