Cile, violenze e censura contro la rivolta

25 / 10 / 2019

Sette giorni fa l’inizio della “evasión masiva” lanciata dagli studenti delle superiori e universitari, dava inizio alle proteste contro il governo di Piñera. La pratica di disobbedienza civile dell’evasione di massa dal pagamento del biglietto della metro per protestare contro l’ennesimo rincaro promosso dal governo, si è trasformata in breve tempo in una rivolta che ha coinvolto tutto il paese. “Non sono 30 pesos, sono 30 anni” è lo slogan che spiega efficacemente le ragioni della rivolta, che ha coinvolto oltre agli studenti anche lavoratori, cittadini, organizzazioni sociali formali e informali: 30 anni di politiche neoliberiste, di un modello di sfruttamento, sottomissione e saccheggio, sono il prezzo pagato dalla popolazione cilena per aver riconquistato la democrazia.

La rabbia dei manifestanti si è manifestata sui simboli di questa crisi, come il palazzo dell’Enel (colpevole di vendere a peso d’oro l’energia elettrica) o su banche e grandi catene di supermercati, simboli appunto di questo capitalismo selvaggio che impera nel paese. La risposta del governo pinochetista di Piñera è stata la repressione: sebbene abbia fatto un passo indietro ritirando l’ultimo aumento di 30 pesos sul biglietto della metro nel tentativo di placare la rivolta, fin da subito ha consegnato il paese in mano all’esercito, decretando lo stato d’emergenza che dà pieni poteri in materia di ordine pubblico al generale Iturriaga, da lui designato al comando dell’operazione. Con il passare dei giorni lo stato d’emergenza e il coprifuoco emanato dal generale è stato esteso a tutte le principali città sedi di rivolte più o meno grandi contro il governo.

La repressione si è fatta più intensa, arrivando a colpire selvaggiamente chiunque sia sceso in piazza a protestare ma, lungi dal sedare la rivolta, ha provocato un’ondata di indignazione ancora più forte contro questi metodi violenti che ricordano il periodo tragico, e non ancora dimenticato, della dittatura di Pinochet. Abusi, violenze, torture, arresti indiscriminati e violazioni dei diritti umani non si contano più, anzi risulta sempre più difficile stendere rapporti anche per il blocco mediatico messo in campo dal governo per nascondere tutta la violenza che sta mettendo in pratica. Non è un caso che la settimana scorsa un gruppo di manifestanti abbia preso di mira e incendiato la sede di Valparaiso di El Mercurio, uno degli storici quotidiani nazionali da sempre allineato con i governi di destra e la dittatura. Per rompere l’accerchiamento mediatico, alcune media indipendenti, tra i quali citiamo Piensa Prensa, Resumen, Radio Placeres, Prensa Opal e molti altri, si sono alleati per fornire informazioni sulle violenze commesse dalle forze armate. In questi sette giorni di rivolta il ruolo dei social, come quello di applicazioni di messaggistica, è stato determinante per far circolare informazioni e denunce altrimenti censurate sui media mainstream. In un comunicato del 24 ottobre Radio Placeres, radio indipendente di Valparaiso, segnala: «siamo stati testimoni di come le forze repressive stesse hanno incendiato centri commerciali, stazioni della metro e banche, iniziando gli incendi in presenza dei manifestanti. I saccheggi si sono massificati grazie ai carabinieri e militari, i quali hanno organizzato l’ingresso di gruppi di persone ai locali commerciali, per poi reprimerli all’uscita davanti alle telecamere delle televisioni nazionali. Queste informazioni ci arrivano tramite video nelle reti sociali, specialmente Twitter, così come video di barricate e danni causati da funzionari dello stato sono diventati virali, denunciando così “l’auto colpo di stato” e il suo montaggio per criminalizzare la protesta».

E in effetti, è grazie alla diffusione in rete di attivisti e media indipendenti se sono venuti alla luce i casi di abusi, violenze e torture subite dai manifestanti cileni nelle strade. La repressione non risparmia nessuno, dagli attivisti impegnati nelle barricate, ai reporter dei media indipendenti, ai passanti. Molte delle violazioni dei diritti umani avvengono una volta fermati i manifestanti. Sempre Radio Placeres denuncia «centri di tortura improvvisati e illegali nelle stazioni della metro di Santiago» e abusi e intimidazioni alle donne arrestate.

La censura mediatica rende difficile anche dire con certezza quante persone abbiano fino ad oggi perso la vita: secondo i dati ufficiali, almeno 15 persone sarebbero state uccise negli scontri ma, ammette Radio Placeres, potrebbero essere ben di più sebbene, siano riusciti a identificarne solo 7 a livello nazionale. E in effetti, i bollettini che ogni giorno l’Instituto Nacional de Derechos Humanos emana danno una visione parziale di quello che sta avvenendo nel paese: a ieri sera sarebbero 2840 le persone arrestate e 582 quelle ferite (di cui 295 da arma da fuoco) ma, sempre secondo Radio Placeres «sono mille i casi di aggressioni denunciati attraverso le reti sociali, come anche gli arresti illegali realizzati dai carabinieri. Persone ferite sono state private dell’attenzione medica nei consultori, dovuto a ordini provenienti dalla direzione, violando così il diritto fondamentale alla salute. Sono state denunciate persone scomparse che dopo qualche ora sono apparse dopo essere state aggredite fisicamente da chi porta la divisa». Proprio ieri sera, mentre il governo faceva dire ai media allineati che in Piazza Italia era tutto tranquillo, Prensa Piensa segnalava l’aggressione a un suo collaboratore mentre stava filmando uno dei tanti momenti di repressione dell’esercito.

Piñera ha dichiarato di essere in guerra, dimostrando che non ha nessuna volontà di scendere a compromessi: l’obiettivo è quello di sedare la rivolta con la forza, costi quel che costi, per difendere gli interessi dell’oligarchia che rappresenta. Proprio per questo ha richiamato i riservisti, comunicandogli di tenersi pronti a scendere nelle strade, come se non fosse sufficiente il livello di violenza utilizzato finora dalle forze armate. Ma nonostante tutto questo, le strade continuano a riempirsi di gente che protesta, il coprifuoco viene sfidato collettivamente ogni notte e non sembra volersi spegnersi il fuoco della ribellione che ha animato quest’ultima settimana: «no estamos en guerra, estamos en rebeldía, que se sepa, corre la voz».