Elezioni USA 2020 - Di cadute in picchiata e piani di atterraggio

27 / 11 / 2020

Sono riusciti ad aprire il paracadute, gli Stati Uniti, e a fermare così la picchiata verso il baratro sociale, sanitario e economico. Strenue resistenze (ma per questo non del tutto innocue) motivate dalla pervicace confusione tra realtà esteriore e ego interiore a parte, l’attuale inquilino della Casa Bianca si vedrà costretto a lasciare lo Studio Ovale per tornarsene a fare il magnate del settore immobiliare. Tutto sommato, poteva andare molto peggio a The Donald: oltre a mantenere un posto tra le prime file della classe ultraricca e proprietaria, si porta a casa all’incirca sette milioni di voti in più rispetto al 2016 e più seggi repubblicani al Congresso. Parrà incredibile che il negazionista climatico più supponente della terra, colui che ha lasciato morire di Covid decine di migliaia di statunitensi e che ha efferatamente diviso un Paese lungo la linea del colore, abbia addirittura aumentato il consenso, eppure è così: significa che l’elettorato a cui ha dato voce non ha ancora finito di cantare. Sebbene si debba leccare le ferite arrecate da un’indiscutibile batosta elettorale, “chiamata” da tempo dalla forte opposizione politica dei movimenti sociali, il Popolo ha la pelle indurita dall’inflessibile difesa della razza bianca, dei ruoli gerarchici tra i generi e del neoliberalismo autoritario. Nel bel mezzo del ciclo di lotte radicalmente democratiche attivo da quattro anni, non sorprende che il 2020 sia stato marcato dalla tornata elettorale più partecipata – da notare l’affluenza – fin dal secolo scorso, in cui ogni parte in campo si è polarizzata contro l’altra. The People ha serrato i ranghi per contrastare l’avanzamento politico dei movimenti nel tessuto sociale, cioè laddove si costruisce il consenso su cui sta in equilibrio l’impero trumpiano.

Trump e il voto working class bianco: chi è lo “swing subject”?

È vero che Trump ha ceduto tre Stati della contesissima Rust Belt (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania) dove quattro anni prima aveva fatto “oscillare” le preferenze verso il partito repubblicano, così come ha perso uno Stato della Sun Belt (Arizona) e la “rossissima” Georgia, con buona pace dei ricorsi per il riconteggio delle schede; ma è altrettanto vero che, fatta salva la Georgia, in ciascuno di essi il GOP ha incrementato il numero di voti, talvolta tallonando i democratici con percentuali decimali di distacco. In aggiunta, similmente ai democratici nei loro bastioni storici, Trump è riuscito a fortificare gli avamposti conservatori (Utah, Tennessee, Arkansas, Idaho, Mississippi).

Come riporta Nicola Carella sulle pagine di Jacobin, Trump ha fatto incetta di preferenze nelle aree rurali degli swing states, nei piccoli centri e in numerose zone suburbane degli altri Stati. È nuova, inoltre, la presa di numerose circoscrizioni elettorali nel sud del Texas, popolato principalmente dalle classi più povere degli Stati Uniti. Non essendo ancora disponibili dati più precisi, non è possibile condurre un’accurata analisi dei flussi elettorali incrociati per classe, genere, etnia, zona di residenza – e, qualora fossero pubblicate simili informazioni, bisognerebbe comunque risolvere un problema metodologico di definizione e applicazione delle categorie sociologiche, ad esempio quali indicatori contribuiscano a inquadrare una classe (titolo di studio, reddito pro-capite, luogo di residenza, senso di appartenenza, tipologia di lavoro, ecc.). Al momento, è possibile affidarci soltanto a una prima fotografia della Cnn e del Washington Post, da cui, per quanto in forma abbozzata, traiamo qualche considerazione. Per approssimazione, ci riferiremo alle classi sociali basandoci soltanto sull’importo del reddito annuo pro-capite (working class: fino a 50.000 dollari; classe media: tra 50.000 e 100.000 dollari; classe agiata: sopra i 100.000).

Nel leggere i dati, alcuni/e commentatori/trici hanno correttamente evidenziato che Trump ha perso il voto working class in Pennsylvania, Wisconsin e Michigan. Essendo in generale la Rust Belt un’area prevalentemente bianca, fin dalla sconfitta di Clinton del 2016 articoli scientifici e media hanno lungamente sostenuto che l’ago della bilancia delle elezioni fosse il proletariato bianco, passato a sostenere le destre xenofobe e razziste dopo aver voltato le spalle al partito democratico responsabile dell’abbassamento del costo del lavoro, dei tagli al welfare e della disoccupazione. Si è addirittura detto che il proletariato bianco fosse il protagonista della competizione elettorale, tanto da costituire il nucleo principale dei votanti di Trump. Parliamo oggi, allora, di un ritorno dei «left behind» (“dimenticati”) della globalizzazione alla casa dei democratici? A guardare i dati del Wisconsin, in cui il 60% del voto working class è andato a Biden (contro un 49% di Clinton), sembrerebbe di sì. Ma la parabola del figliol prodigo rischia di non essere del tutto esaustiva. Eccetto il Wisconsin, se da una parte i votanti working class di Biden sono cresciuti di pochi punti percentuali negli swing states, dall’altra Trump ha mantenuto più o meno lo stesso numero di preferenze tra la classe meno abbiente rispetto al 2016. Trasversalmente a tutti questi Stati, però, si nota un calo nel sostegno ai repubblicani da parte della classe media, a cui corrisponde un aumento rimarchevole delle preferenze della stessa per i democratici.1 Questa parziale lettura ci permette di non puntare il focus dello “swing subject” esclusivamente sulla working class bianca. Come quattro anni fa una coalizione interclasse per la stragrande maggioranza bianca tra (relativamente pochi) proletari e (relativamente molti) appartenenti alla classe medio-alta aprì le porte della Casa Bianca a Trump, il 3 novembre 2020 anche la classe media ha fatto la sua parte nel ribaltare i risultati delle elezioni. Non vogliamo negare che un numero considerevole di persone bianche con un reddito annuo inferiore ai 50.000 dollari non abbia votato per Trump. Il punto della questione è che non dobbiamo sopravvalutare il peso specifico del proletariato bianco sul totale dei voti che vanno ad assegnare i grandi elettorali.2 Pennsylvania, Wisconsin e Michigan non hanno riconfermato i repubblicani perché dei pezzi della coalizione che portò Trump alla presidenza, in particolare la classe media, non lo ha votato. Tale osservazione sarebbe in linea con le statistiche nazionali, le quali mostrano un divario ancora più netto nel sostegno della classe media: Trump avrebbe perfino guadagnato voti working class dal 2016 (44% vs. 41%), analogalmente alla classe agiata e ultraricca (54% vs. 47%), mentre ne avrebbe persi tra la classe media (42% vs. 49%), un gruppo demografico in cui Biden ha riscosso più successo in assoluto in confronto a Clinton (57% vs. 46%).

Fatto questo inciso, l’elemento che tanto nel 2016 quanto nel 2020 ha fatto da collante dell’elettorato repubblicano è stato la bianchezza: la maggior parte dei bianchi e delle bianche (58%) ha sostenuto Trump, in crescita dell’1% dal 2016. Andando oltre ai numeri, c’è da aggiungere che buona parte di questo elettorato si è fortemente radicalizzato a causa della convergenza tra l’agenda politica della Casa Bianca e i gruppi di destra estrema neofascista (ad esempio i Proud Boys), che ormai compongono la base militante (e paramilitare) dell’organizzazione trumpiana.

Biden e il voto moderato: una ricerca esterna e una lotta interna

D’altronde, accennavamo all’inizio, l’irrompere dell’ultima ondata di Black Lives Matter ha tagliato la società statunitense, imponendo alla società civile di prendere posizione sul razzismo sistemico. Gli exit poll confermano che la racial justice occupa i primi posti nelle preoccupazioni degli elettori e delle elettrici. Biden e Harris sapevano bene di poter contare sul bacino di voti non bianco, al di là del senso di appartenenza ideologico. Per moltissime persone nere e latine, la scelta del duo democratico era dovuta per sopravvivenza: rappresentava la possibilità di prendere respiro, avere a disposizione più aria per debellare la violenza razzista che subiscono ogni giorno, da quella poliziesca a quella sanitaria, con il tacito, quando non esplicito, assenso del Presidente.

Non è un caso, in questo senso, la candidatura di Harris alla vicepresidenza, figlia di una madre indiana immigrata e di un padre di origine giamaicana, e volto nero del progressismo democratico sui diritti civili. La promozione della sua figura è speculare alla ripresa di alcuni temi di Black Lives Matter negli interventi in campagna elettorale di Biden, che ha attaccato le dichiarazioni di Trump in merito agli efferati omicidi dei cittadini afroamericani e gli abusi della polizia additando direttamente il razzismo sistemico quale radice del problema. Harris è stata anche la prima donna a aver ricoperto la carica di procuratrice generale della California, uno Stato dove si è spesso battuta per i diritti lgbtqia+, in aperto scontro con la Prop 8, e ha istituito un’unità di indagine per i crimini ambientali. È dunque una politica che strizza l’occhio ai e alle giovani, alle minoranze, alle lotte climatiche e alle donne scese in piazza in questo lungo ciclo di lotte. Lontana dall’immagine dell’uomo bianco anziano in politica, Harris incarna il tempo presente del campo del progressismo – ma anche futuro, sottolinea bene Ida Dominijanni, vista la veneranda età di Biden – su cui si possono specchiare le aspirazioni di buona parte della base elettorale statunitense in termini di diritti e di programmi politici.

Prevedibilmente, la scommessa dei democratici ha fatto centro, e la maggior parte delle giovani generazioni, delle donne (senza distinzione di etnia), dei neri e dei latini ha dato mandato a Biden-Harris. Anche la maggior parte della working class statunitense, di cui è bene ricordare la composizione etnicamente e sessualmente differenziata, ha espresso il suo voto per i democratici (55% contro il 44% per i repubblicani), nel terrore di vedersi negate cure di base e specifiche per Covid nel pieno della pandemia. Questa classe, che interseca in parte i gruppi menzionati poco sopra, è stata la protagonista dei movimenti sociali che hanno invaso le piazze e le strade delle città, ossia i cuori geografici del consenso del partito democratico. Non è difficile ipotizzare, grafici alla mano, che le persone meno abbienti (in realtà sempre meno da decenni) non abbiano strettamente preso in considerazione l’opzione politica rappresentata da Biden-Harris, ma abbiano piuttosto votato in opposizione a Trump.

L’altro pilastro del successo democratico è stato, per l’appunto, la classe media.3 Anche qui, risulta complicato spacchettarla per capire quali segmenti abbiano partecipato attivamente alle mobilitazioni di piazza e quali le abbiano sostenute soltanto in un primo momento, prendendone poi le distanze di fronte alle rivolte e alle strategie di autodifesa dalla polizia. Una reazione, quest’ultima, del tutto identica alla presa di posizione di Biden e Harris. Il loro supporto a Black Lives Matter odora di captatio benevolentiae dell’elettorato progressista: nonostante si possa vedere in loro un barlume di società più inclusiva e meno violenta, nessuno/a di loro ha mai annunciato un piano di riforme e provvedimenti che intacchino l’essenza delle istituzioni democratiche statunitensi, fondate sull’ineguale distribuzione di potere e ricchezza lungo la linea del colore. Nei loro discorsi, si è sicuramente sentito parlare di racial justice, systemic racism, uguaglianza di genere; si sono denunciati i singoli episodi di aggressione poliziesca; si è parlato di ampliare la base assicurativa sanitaria; ma nessuna parola concreta è stata spesa su come cambiare profondamente la situazione sociale e economica del Paese. Se non si mette in questione il neoliberalismo, con il suo destino di impoverimento economico in base al colore della pelle, come si può fare in modo che alle vite nere, latine, ecc., sia garantita una buona esistenza? Se non si definanziano gli apparati di polizia e le carceri, edificati sull’imprigionamento e il profiling razziali, come si può fermare la violenza? Azzardiamo quindi un’altra ipotesi: il boom di voti della classe media per i democratici potrebbero trovare origine nell’annacquamento delle rivendicazioni dei movimenti? Come denunciato da alcuni/e attivisti/e neri/e, la buona coscienza bianca è pronta a scendere in piazza per i diritti altrui, purché la domanda di uguaglianza non diventi sostanziale, sovvertendo il mondo così come si è conosciuto. Inclusi i privilegi della bianchezza: perché inasprire il conflitto, se tanto si può stare al sicuro nella propria casa di cui si riescono a pagare le spese?

Si spiegherebbe così l’inseguimento del voto moderato all’esterno da parte di Biden e la prevaricazione dell’ala radicale all’interno del partito, denunciata a gran voce da Alexandria Ocasio-Cortez in un’intervista per il New York Times. Già la nomina di Harris alludeva a un ritorno dell’acredine moderata targata Clinton contro i radicali. Di certo non una connessione sconvolgente, quella tra l’ex candidata democratica e la neo-vicepresidentessa, visto il curriculum giudiziario di Harris, sia come Procuratrice di San Franciso che come Procuratrice generale, dedito alla penalizzazione delle condotte, allo sfruttamento della manodopera dei detenuti, a scelte di cultura giuridica che hanno colpito le persone povere e non bianche, impedendo tra l’altro indagini su interventi polizieschi a danno di cittadini neri (qui un riassunto del suo operato). Un pedigree, insomma, tutt’altro che radicale e a favore degli strati sociali più svantaggiati. Dopodiché, in questo mese le dichiarazioni dei candidati democratici hanno rincarato la dose, puntando il dito contro Black Lives Matter e chi nel partito ne appoggia il programma. Per i moderati, la rilevante perdita di sette seggi al Congresso, presso cui detenevano una maggioranza più solida prima del 3 novembre, si dovrebbe al fatto che l’elettorato di base – leggi quello bianco e di classe media – avrebbe avuto paura dell’estremismo politico di sinistra. Oltre a essere un’affermazione pericolosa, è anche scorretta: i candidati che hanno perso il seggio, hanno dato per scontato di poterlo ottenere senza organizzare una vera campagna elettorale porta a porta, non stando nelle comunità di quartiere e non proponendo misure politiche locali a favore delle classi popolari. Al contrario, in altri collegi nuovi7e rappresentanti con un profilo niente affatto “opinato”, figli/e della politicizzazione dei movimenti radicalmente democratici di questo ciclo di lotte, hanno conquistato il seggio. Lo dimostra Cori Bush, new entry della Squad – tutta riconfermata senza troppe difficoltà, peraltro – prima donna nera a rappresentare il Missouri, attivista dei movimenti per la racial justice fin dai tempi di Ferguson; o Mondaire Jones, radicale di New York e primo uomo gay nero a essere eletto, cresciuto in un quartiere popolare e sopravvissuto da piccolo grazie ai buoni pasto dello Stato; oppure Sarah McBride, rappresentante bianca transgender che ha fatto campagna per l’accessibilità del sistema sanitario, per l’aumento del salario minimo e per la riforma della giustizia penale. Parlare di diritti dei/delle lavoratori/trici, di sanità pubblica universalmente accessibile, di definanziamento della polizia, di scioperi, di diritti riproduttivi, di depenalizzazione e redistribuzione della ricchezza per mettere fine allo svantaggio sistemico subito dalla working class, dai neri/e, latini/e, donne e comunità lgbtqia+, non erode consenso, bensì lo trova, perché rende fede a quella trama di relazioni che si costruisce nella lotta e nella cura delle proprie comunità.

Le due medaglie del sogno americano

Non diciamo niente di nuovo nell’affermare che Biden ambisce a sanare il sistema economico-sociale statunitense, al cui interno crede (con o senza malafede) che possano essere tutti/e integrati/e. Quanto scritto sopra va a corroborare questa grande, semplice verità. Con il nuovo Presidente, i conflitti sociali sul lavoro, nelle case e nei quartieri avranno, però, una controparte diversa, che permetterà loro di avere a disposizione più aria per prendere la rincorsa, e forse qualche margine in più per vedere ratificate alcune rivendicazioni. Non dobbiamo sottovalutare l’effetto performativo delle elezioni, per il quale l’aspettativa che i democratici facciano “qualcosa di progressista” scatenerà mobilitazioni nei circuiti femministi, delle giovani generazioni, delle minoranze e del lavoro vivo; mobilitazioni che si presume troveranno meno ostacoli istituzionali e agiranno sapendo che le organizzazioni di estrema destra hanno perso l’endorsement politico. Ma sarebbe ingenuo pensare che il populismo autoritario di Trump sia sprofondato in uno stato terminale: i numeri dei voti bianchi a suo favore ci sbattono in faccia una società divisa e polarizzata. La vittoria di Biden, del resto, rischia di continuare a nutrire la causa del populismo contemporaneo: il neoliberalismo, ovvero quella competizione tra individui-impresa che unisce sfruttamento intensivo del lavoro al dominio di una razza sull’altra, di un genere sull’altro, di un orientamento sessuale sull’altro, ecc. Nel discorso di proclamazione della vittoria, Biden ha parlato spesso di uguaglianza nelle possibilities che un grande Paese come gli Stati Uniti offre alla cittadinanza, lasciando intendere che la sua versione del sogno americano è aperta a tutti e tutte, al contrario dell’interpretazione trumpiana macchiata di bianco e maschilità. Cosa accade a quella larga maggioranza che non può intraprendere quelle possibilità perché vessata dai debiti, da due o tre lavori precari, dalla presa in carico della famiglia, dalla residenza in un quartiere povero e razzializzato? Non è dato sapere dal Presidente eletto. L’importante, per lui, è che il mito familiare alla classe media americana abbia fatto breccia, consentendogli di arrivare alla Casa Bianca con delle parole-chiave moderate.

Sconfiggere Trump alle elezioni può aver significato interrompere una picchiata nel baratro senza paracadute. Fare qualche ritocco di emergenza alle storture del sistema (come i pacchetti di aiuto economico una tantum) senza creare welfare accessibile duraturo, posti di lavoro tutelati, riformare dal principio gli organi decisionali e di polizia, vorrebbe dire atterrare sul bordo di un nuovo precipizio, in attesa che qualcuno provi da destra a spingertici dentro – di nuovo. Fortunatamente, ci sono organizzazioni e associazioni di base che sono pronte a mobilitarsi per ricordare al governo venturo che non c’è piano di atterraggio senza uguaglianza sostanziale.

1 In Michigan, Biden ha conquistato il 51% della classe media contro il 43% di Clinton, mentre Trump è passato dal 51% nel 2016 al 48%. In Wisconsin, come detto, Biden ha raggiunto il 60% dei votanti working class contro il 49% di Clinton, mentre Trump è caduto dal 45% al 38%; ma ciò che i democratici hanno guadagnato tra la working class è stato recuperato da Trump tra la classe alta, passando dal 46% del 2016 al 55% del 2020. Trump ha perso un punto tra la classe media a fronte del guadagno di due punti percentuali dei democratici nella stessa categoria. In Pennsylvania, laddove i risultati elettorali dei candidati tra la working class sono stati più o meno gli stessi del 2016 (Biden è salito di due punti), tra la classe media Trump ha perso quattro punti (51% vs. 55% del 2016), mentre Biden ne ha guadagnati sei in più (47% vs. 41% del 2016).

2 Cfr. N. Carnes – N. Lupu, The White Working Class and the 2016 Election, «Perspective on Politics», pagg. 1-18. Se da un lato è possibile fare supposizioni in base alla numerosità della popolazione bianca in un certo collegio elettorale, è però difficile stabilire la percentuale esatta di voto del proletariato bianco sul piano del singolo Stato, non essendo disponibile indicatori incrociati. L’aumento di voti working class per Biden in uno swing state, per esempio, potrebbe provenire anche da una maggiore affluenza della popolazione nera e latina, seppur meno incisiva in proporzione per la minore presenza di persone non bianche nella regione della Rust Belt. Va inoltre ricordato che sul totale dei e delle votanti dei singoli Stati, la percentuale di bianchi e bianche working class si aggira attorno al 30-35%, cifre che da sole non spiegano l’assegnazione dei grandi elettori a un candidato piuttosto che a un altro.

3 Dovremmo distinguere tra classe medio-basso e classe medio-alta, ovviamente. Per semplicità, utilizziamo un’astrazione anche in questo caso.