Il governo 'de facto' minimizza sulle proteste

La menzogna della «normalità» nell’Honduras golpista

Continuano marce e scioperi in tutto il paese

8 / 8 / 2009

Tutto è “normale”, nell’Honduras del regime golpista di Roberto Micheletti: i candidati alla presidenza della Repubblica si tirano fango l’un l’altro, ad eccezione di uno che è convalescente con due fratture nel braccio, risultato delle percosse (manganellate o bastonate) ricevute dalla polizia.

Tutto è “normale”. Gli ospedali pubblici sono arrivati a quattro giorni di sciopero, con tutte le epidemie di dengue e influenza A/H1N1. I maestri continuano a non lavorare per un’altra settimana per richiedere la restituzione del presidente José Manuel Mel Zelaya.

La vita notturna riprende, dopo che il governo ha eliminato il coprifuoco, una volta raggiunto l’obiettivo di “riportare alla calma la popolazione”. I ristoranti, comunque, sono quasi vuoti. Tutto con calma.

I quattro aeroporti del paese chiudono, perché 95 tecnici si sono uniti alla resistenza. “Siamo scesi in sciopero indefinito per chiedere il ritorno al sistema democratico interrotto dal colpo di stato”, dice Ramón García, dirigente dell’ Asociación Nacional de Meteorólogos.

Anche se le autorità dicono che si tratta di uno sciopero parziale, le aerolinee TACA annunciano la sospensione dei voli nazionali e internazionali. I lavoratori dell’Empresa Nacional de Energía Eléctrica pure si aggiungono allo sciopero.

Orda diabolica di Chávez

Fa parte della “normalità” che, secondo i golpisti, si è vista lievemente influenzata dall’”orda diabolica di Hugo Chávez", come i media locali usano definire la resistenza.

Per loro risulta “normale” che le autorità sanitarie decidano di sospendere l’insegnamento nelle scuole del dipartimento di Francisco Morazán, dove si trova Tegucigalpa, per colpa dell’influenza che qui i media chiamano porcina. In modo che le scuole private e le poche pubbliche che hanno insegnanti, si uniscano allo sciopero.

I lavoratori della sanità sono duramente criticati nei media per unirsi alla resistenza (“colpiscono solo i più poveri”) e l’esercito continua il controllo degli ospedali. In contrapposizione, i media di questa settimana hanno deriso il ministro della Salute, Mario Villafranca, quando si è permesso di suggerire che l’incontro di calcio per le eliminatorie del Mondiale, fra Honduras e Costa Rica, fosse effettuato a porte chiuse.

“Niente e nessuno ci impedirà di tifare per la nostra squadra”, nei vari titoli. L’incontro è previsto per il prossimo mercoledì 12, nello stadio di San Pedro Sula, nel cuore della regione del paese con più casi di virus A/H1N1. Chiaro, è bastato che il titolare della Federación Hondureña de Futbol abbia aperto la bocca perchè il governo di fatto lo appoggiasse. Questo dirigente si chiama Rafael Leonardo Callejas, ex presidente della Repubblica e ancora uomo forte del Partido Nacional.
“Chi ha l’influenza non vada”, ha detto Callejas, e l’argomento si è considerato chiuso. Con la stessa sicurezza, lo scorso 19 giugno aveva detto a una rivista nazionale: “In Honduras non ci saranno persecuzioni ne colpi di stato”. Come dire, tutto “normale” nel paese.

Giovedì i media hanno divulgato alla grande la lettera inviata dal Dipartimento di Stato al senatore Richard Lugar, come prova che gli stati Uniti “addolciscono” la loro posizione contro il governo de facto. Ma il venerdì, ne radio ne televisione ne giornali fanno menzione della dichiarazione di Robert Wood, portavoce del Dipartimento di Stato: “Non stiamo addolcendo la nostra posizione ... è stato chiaramente un colpo di stato e lo condanniamo”.

E’ normale in un paese dove la barzelletta (o anedoto) più ricorrente sui mezzi di comunicazione recita così: “Il direttore del giornale esce dall’ufficio del proprietario con la richiesta che nella Settimana Santa il quotidiano smetta di uscire dal mercoledì, ’perchè non ci sono più informazioni’. L’editore dice di no, con la motivazione della pubblicità. Il giornalista insiste: ’il fatto è che non c’è materiale neanche per l’editoriale’. ’Allora scrivi di Dio, in effetti è la Settimana Santa’. Il giornalista pensa alcuni secondi e risponde: ’a favore o contro’”.

E dov’è Mel?

“E dov’è Mel?”, domanda ai giornalisti uno dei lider della resistenza. I giornalisti di sicuro hanno fatto la stessa domanda durante l’uscita del presidente Zelaya dal territorio messicano. Un altro aspetto più o meno “normale” della crisi honduregna: le telefonate disordinate fra Zelaya e chi lo appoggia nel suo paese.
“Non siamo d’accordo che a San Josè si firmi la rinuncia alla convocazione di una Assemblea nazionale costituente”, dice il lider campesino Rafael Alegría, che esprime così la principale obiezione del movimento di resistenza all’Accordo di San Josè.

Ormai è “normale”, ancora, che i sostenitori di Zelaya scendano in strada. Oggi organizzano una nuova giornata di marcia, nel giorno 42 della resistenza, mentre varie marce avanzano per le strade, verso questa città e San Pedro Sula, dove arriveranno martedì.

Alegría dice che queste camminate, con le quali si aspettano di riunire 100 mila persone per ogni città, saranno “travolgenti”, perché la resistenza è impegnata a spingere affinché non “trionfi la strategia dei golpisti, che è portare il presidente Zelaya all’ultimo momento, solo perché legittimi loro le elezioni”.
Il dirigente campesino parla mentre la manifestazione -circa 5000 persone- arriva al campus dell’università Nacional Autònoma de Honduras, dove due giorni fa la polizia ha aggredito gli studenti con gas lacrimogeni e carri lancia acqua.
All’università arrivano assieme e mischiati i contingenti della resistenza; il colpo di stato ha messo assieme gruppi e correnti politiche che prima si contrastavano l’un l’altra.

Operazione Miracolo

“Qui siamo tutti uniti; prima ci odiavamo”, dice con un gran sorriso la profesoressa di arti plastiche Reyna Centeno, abile attivista che ha partecipato sia a lotte popolari che all’Operacion Milagro, un programma medico finanziato dal governo del Venezuela.
L’insegnante si riferisce alle dispute ancestrali della sinistra honduregna, ma anche alle controversie con i compagni di partito del presidente Zelaya, i liberali che sono rimasti a suo fianco. “Ossia che Mel non ha unito tutti.... o meglio Micheletti”.

La professoressa Centena non ha mai votato, come molti membri della resistenza, per i quali Zelaya era, fino a due anni fa, “un nemico di classe”.
Il terreno elettorale in Honduras è sempe stato proprietà dei partiti Liberali e Nazionali. Le altre forze politiche non hanno mai ottenuto, assieme, il 10 per cento dei voti.
Per questo alcuni lider della resistenza non hanno fiducia nella proposta del governo de facto: “Partecipate alle elezioni, e misuratevi li”. La contesa è alle porte (le elezioni sono a novembre) e la resistenza manca di un apparato elettorale.

Un’altro problema è unificare intorno a un progetto e un candidato l’energia che si è creata contro il golpe. Un ministro del governo di Zelaya individua tre gruppi nella resistenza. Il primo, i “liberali zelaysti”, che dirigono basi soprattutto rurali “vicine al presidente”. Il secondo, i gruppi che vogliono eliminare la “opportunità elettorale” utilizzando la forza della resistenza per continuare a proporre l’assemblea nazionale costituente, una bandiera che si scontra con l’Accordo di San Josè.

In questo gruppo, che è stato la pietra miliare del Frente de Resistencia, le direttive sono del Bloque Popular, che è composto da esperti lider, come Juan Barahona, Rafael Alegría y Carlos H. Reyes.
Il ministro avverte l’esistenza di un terzo gruppo, invisibile, “che progetta azioni di autodifesa e propaganda armata. In questo paese ci sono un milione di armi e un AK-47 si trova con 100 dollari”.
“Si c’è gente radicale che incita, ma le decisioni e le direttive sono ancora del frente, che ha il comando della resistenza. Non vogliamo altri morti” dice Centeno.

Dopo 42 giorni di marce quotidiane, la professoressa Centeno di dichiara contenta. Parla con orgoglio di come si sono uniti alla resistenza vari sindacati e gruppi; parla delle colonne che avanzano verso la capitale, si diverte con il fatto che il colpo di stato “abbia tolto la maschera a tutti; adesso sappiamo chi è cosa in Honduras”. Magari quello che più la fa felice è la durata della resistenza.
Sempre c’è stata repressione, ma mai c’è stata una risposta, in una settimana tutto finiva, eravamo in lotta a ore. Adesso c’è una risposta sulle strade, nelle pareti, da tutte le parti”.

Torna a sorridere Reyna Centeno prima di esprimere la sua conclusione: “Stiamo vivendo i più bei momenti della nostra vita”.

Altri articoli ed approfondimenti alla pagina speciale dell'Associazione Ya Basta! sulla crisi dell’Honduras