Tutto è “normale”, nell’Honduras del regime golpista di Roberto Micheletti: i candidati alla presidenza della Repubblica si tirano fango l’un l’altro, ad eccezione di uno che è convalescente con due fratture nel braccio, risultato delle percosse (manganellate o bastonate) ricevute dalla polizia.
Tutto è “normale”. Gli ospedali pubblici sono arrivati a quattro giorni di sciopero, con tutte le epidemie di dengue e influenza A/H1N1. I maestri continuano a non lavorare per un’altra settimana per richiedere la restituzione del presidente José Manuel Mel Zelaya.
La vita notturna riprende, dopo che il governo ha eliminato il coprifuoco, una volta raggiunto l’obiettivo di “riportare alla calma la popolazione”. I ristoranti, comunque, sono quasi vuoti. Tutto con calma.
I quattro aeroporti del paese chiudono, perché 95 tecnici si sono uniti alla resistenza. “Siamo scesi in sciopero indefinito per chiedere il ritorno al sistema democratico interrotto dal colpo di stato”, dice Ramón García, dirigente dell’ Asociación Nacional de Meteorólogos.
Anche se le autorità dicono che si tratta di uno sciopero parziale, le aerolinee TACA annunciano la sospensione dei voli nazionali e internazionali. I lavoratori dell’Empresa Nacional de Energía Eléctrica pure si aggiungono allo sciopero.
Orda diabolica di Chávez
Fa parte della “normalità” che, secondo i golpisti, si è vista lievemente influenzata dall’”orda diabolica di Hugo Chávez", come i media locali usano definire la resistenza.
Per loro risulta “normale” che le autorità sanitarie decidano di sospendere l’insegnamento nelle scuole del dipartimento di Francisco Morazán, dove si trova Tegucigalpa, per colpa dell’influenza che qui i media chiamano porcina. In modo che le scuole private e le poche pubbliche che hanno insegnanti, si uniscano allo sciopero.
I lavoratori della sanità sono duramente criticati nei media per unirsi alla resistenza (“colpiscono solo i più poveri”) e l’esercito continua il controllo degli ospedali. In contrapposizione, i media di questa settimana hanno deriso il ministro della Salute, Mario Villafranca, quando si è permesso di suggerire che l’incontro di calcio per le eliminatorie del Mondiale, fra Honduras e Costa Rica, fosse effettuato a porte chiuse.
“Niente e nessuno ci impedirà di tifare
per la nostra squadra”, nei vari titoli. L’incontro è previsto per il
prossimo mercoledì 12, nello stadio di San Pedro Sula, nel cuore della
regione del paese con più casi di virus A/H1N1.
Chiaro, è bastato che il titolare della Federación Hondureña de Futbol
abbia aperto la bocca perchè il governo di fatto lo appoggiasse. Questo
dirigente si chiama Rafael Leonardo Callejas, ex presidente della
Repubblica e ancora uomo forte del Partido Nacional.
“Chi ha l’influenza non vada”, ha detto Callejas, e l’argomento si è
considerato chiuso. Con la stessa sicurezza, lo scorso 19 giugno aveva
detto a una rivista nazionale: “In Honduras non ci saranno persecuzioni
ne colpi di stato”. Come dire, tutto “normale” nel paese.
Giovedì i media hanno divulgato alla grande la lettera inviata dal Dipartimento di Stato al senatore Richard Lugar, come prova che gli stati Uniti “addolciscono” la loro posizione contro il governo de facto. Ma il venerdì, ne radio ne televisione ne giornali fanno menzione della dichiarazione di Robert Wood, portavoce del Dipartimento di Stato: “Non stiamo addolcendo la nostra posizione ... è stato chiaramente un colpo di stato e lo condanniamo”.
E’ normale in un paese dove la barzelletta (o anedoto) più ricorrente sui mezzi di comunicazione recita così: “Il direttore del giornale esce dall’ufficio del proprietario con la richiesta che nella Settimana Santa il quotidiano smetta di uscire dal mercoledì, ’perchè non ci sono più informazioni’. L’editore dice di no, con la motivazione della pubblicità. Il giornalista insiste: ’il fatto è che non c’è materiale neanche per l’editoriale’. ’Allora scrivi di Dio, in effetti è la Settimana Santa’. Il giornalista pensa alcuni secondi e risponde: ’a favore o contro’”.
E dov’è Mel?
“E dov’è Mel?”, domanda ai giornalisti
uno dei lider della resistenza. I giornalisti di sicuro hanno fatto la
stessa domanda durante l’uscita del presidente Zelaya dal territorio
messicano. Un altro aspetto più o meno “normale” della crisi
honduregna: le telefonate disordinate fra Zelaya e chi lo appoggia nel
suo paese.
“Non siamo d’accordo che a San Josè si firmi la rinuncia alla
convocazione di una Assemblea nazionale costituente”, dice il lider
campesino Rafael Alegría, che esprime così la principale obiezione del
movimento di resistenza all’Accordo di San Josè.
Ormai è “normale”, ancora, che i sostenitori di Zelaya scendano in strada. Oggi organizzano una nuova giornata di marcia, nel giorno 42 della resistenza, mentre varie marce avanzano per le strade, verso questa città e San Pedro Sula, dove arriveranno martedì.
Alegría dice che queste camminate, con
le quali si aspettano di riunire 100 mila persone per ogni città,
saranno “travolgenti”, perché la resistenza è impegnata a spingere
affinché non “trionfi la strategia dei golpisti, che è portare il
presidente Zelaya all’ultimo momento, solo perché legittimi loro le
elezioni”.
Il dirigente campesino parla mentre la manifestazione -circa 5000
persone- arriva al campus dell’università Nacional Autònoma de
Honduras, dove due giorni fa la polizia ha aggredito gli studenti con
gas lacrimogeni e carri lancia acqua.
All’università arrivano assieme e mischiati i contingenti della
resistenza; il colpo di stato ha messo assieme gruppi e correnti
politiche che prima si contrastavano l’un l’altra.
Operazione Miracolo
“Qui siamo tutti uniti; prima ci
odiavamo”, dice con un gran sorriso la profesoressa di arti plastiche
Reyna Centeno, abile attivista che ha partecipato sia a lotte popolari
che all’Operacion Milagro, un programma medico finanziato dal governo
del Venezuela.
L’insegnante si riferisce alle dispute ancestrali della sinistra
honduregna, ma anche alle controversie con i compagni di partito del
presidente Zelaya, i liberali che sono rimasti a suo fianco. “Ossia che
Mel non ha unito tutti.... o meglio Micheletti”.
La professoressa Centena non ha mai
votato, come molti membri della resistenza, per i quali Zelaya era,
fino a due anni fa, “un nemico di classe”.
Il terreno elettorale in Honduras è sempe stato proprietà dei partiti
Liberali e Nazionali. Le altre forze politiche non hanno mai ottenuto,
assieme, il 10 per cento dei voti.
Per questo alcuni lider della resistenza non hanno fiducia nella
proposta del governo de facto: “Partecipate alle elezioni, e misuratevi
li”. La contesa è alle porte (le elezioni sono a novembre) e la
resistenza manca di un apparato elettorale.
Un’altro problema è unificare intorno a un progetto e un candidato l’energia che si è creata contro il golpe. Un ministro del governo di Zelaya individua tre gruppi nella resistenza. Il primo, i “liberali zelaysti”, che dirigono basi soprattutto rurali “vicine al presidente”. Il secondo, i gruppi che vogliono eliminare la “opportunità elettorale” utilizzando la forza della resistenza per continuare a proporre l’assemblea nazionale costituente, una bandiera che si scontra con l’Accordo di San Josè.
In questo gruppo, che è stato la pietra
miliare del Frente de Resistencia, le direttive sono del Bloque
Popular, che è composto da esperti lider, come Juan Barahona, Rafael
Alegría y Carlos H. Reyes.
Il ministro avverte l’esistenza di un terzo gruppo, invisibile, “che
progetta azioni di autodifesa e propaganda armata. In questo paese ci
sono un milione di armi e un AK-47 si trova con 100 dollari”.
“Si c’è gente radicale che incita, ma le decisioni e le direttive sono
ancora del frente, che ha il comando della resistenza. Non vogliamo
altri morti” dice Centeno.
Dopo 42 giorni di marce quotidiane, la
professoressa Centeno di dichiara contenta. Parla con orgoglio di come
si sono uniti alla resistenza vari sindacati e gruppi; parla delle
colonne che avanzano verso la capitale, si diverte con il fatto che il
colpo di stato “abbia tolto la maschera a tutti; adesso sappiamo chi è
cosa in Honduras”. Magari quello che più la fa felice è la durata della
resistenza.
Sempre c’è stata repressione, ma mai c’è stata una risposta, in una
settimana tutto finiva, eravamo in lotta a ore. Adesso c’è una risposta
sulle strade, nelle pareti, da tutte le parti”.
Torna a sorridere Reyna Centeno prima di esprimere la sua conclusione: “Stiamo vivendo i più bei momenti della nostra vita”.
Altri articoli ed approfondimenti alla pagina speciale dell'Associazione Ya Basta! sulla crisi dell’Honduras