Che fossero in corso grandi mutamenti intorno a noi non è certo cosa nuova.
C’è molto di più del collasso delle stock options
statunitensi in questa crisi. Il conflitto libico, le rivolte del
Maghreb e del Maschreq, il terremoto nucleare giapponese, hanno il
sapore di una nuova epoca.
Noi ne siamo inevitabilmente nel mezzo. Nell’epicentro della scossa che fa tremare equilibri globali e quartieri periferici. Lo spazio Euromediterraneo è oggi, non sappiamo se anche domani ma sicuramente ora, il nervo infiammato della trasformazione in corso.
Anche i bombardamenti, quelli degli aerei francesi e britannici sull’altra sponda del Mediterraneo sono molto più vicini. Non solo geograficamente. Da noi la guerra, le rivolte, la trasformazione, diventa immediatamente confine. Si chiama con il nome di un’isola, Lampedusa, diventata per 60 giorni un’ enclave in mezzo al mare, e con quello dei suoi tanti clusters.
Quell’isola congestionata, utilizzata materialmente come
spazio di confinamento e simbolicamente come spettacolarizzazione
dell’invasione, è diventata anche il palcoscenico della macchiana del
consenso berlusconiano.
Non poteva essere altrimenti.
L’operazione
non è riuscita alla perfezione, ma se ne facessimo una questione
tecnico organizzativa sulla gestione dell’emergenza, sulle modalità di
svuotamento dell’isola, sulle capacità del Governo di far fronte
all’accoglienza, non c’è dubbio, la sfida l’avremmo già persa. C’è chi è
molto più bravo di noi a raccontare una realtà che non esiste. A
regalare sogni, zone franche, premi Nobel e detassazione, per recuperare
consenso e rimettersi in equilibrio dopo averlo perso per un istante.
Chissà come andrà a finire. Le operazioni di svuotamento di Lampedusa vanno a rilento a causa del mare mosso, ma non saranno certo le onde a fermare l’operazione di immagine del Governo. Se occorre, lo abbiamo sempre saputo, l’isola può essere svuotata in pochi attimi. Il vero nodo è un altro.
Intorno a noi è in corso una metamorfosi di cui è
impossibile decifrare i contorni. Non me ne vogliano gli amici ed i
compagni che hanno speso anni a disegnare la geografia variabile
dell’Europa, non è certo stato poco importante il loro lavoro, ma lo
stravolgimento a cui stiamo assistento può essere decodificato solo se
contemporaneamente è agito.
E’ saltato ogni riferimento. Nel bene e
nel male è saltata ogni garanzia del diritto d’asilo, degli obblighi
umanitari, della solidarietà europea, ma insieme è saltato anche il
sistema di controllo e detenzione che ha caratterizzato questo decennio
di politiche di governo dell’immigrazione.
I profughi che fino a qualche mese fa l’Italia
respingeva, proprio grazie agli accordi con Gheddafi, sono diventati
buoni per fare ogni cosa sulla pelle dei giovani tunisini arrivati a
Lampedusa. Buoni per annunciare rimpatri collettivi, buoni per annullare
la miriade di storie soggettive che avrebbero ancora diritto di essere
ascoltate, a meno che anche l’Italia, come la Libia di sempre, non abbia
rinnegato la Convenzione di Ginevra nelle ultime ore. Di contro, chi
vuole cucire addosso a quei ragazzi l’abito del profugo che fugge dalla
guerra, rimarrà stupito ascoltando la semplicità delle paure e dei
desideri che li hanno spinti a partire, rischiando di non capirci
proprio nulla.
La sfida che propongono al confine europeo ed a
quello interno alla stessa Europa, parla efficacemente di cosa significa
precarietà nello spazio euromediterraneo. E’ un’altra faccia,
probabilmente la più fuggevole, di quella spinta per la democrazia e la
libertà che ha cacciato Ben Alì e che oggi, rimanendo in Tunisia, tenta
di riorganizzarsi perché la rivolta non sia un’occasione per riaffermare
nuovi poteri autoritari.
Non faremo insomma la rivoluzione in Europa (chissà!) con i tunisini
sbarcati sulle nostre coste, con buona pace di chi consegna loro una
fantomatica "centralità di classe" per sottrarsi al protagonismo che
ognuno di noi può avere in questo momento.
Nulla è scontato. La sfida che passa per il confine Sud potrebbe anche
tradursi in una occasione per riaffermare il Bossi pensiero, con ancor
più terreno su cui far presa. Oppure, ma dipende da noi, può essere
l’occasione per affermare nello stesso spazio investito da queste
trasformazioni, quello euromediterraneo, la possibilità di scelta, una
nuova dimensione della cittadinanza. Dobbiamo avere il coraggio di
starci.
Come in un giro di domino imprevedibile, con le tessere
che continuamente saltano fuori dal circuito disegnato, di giorno in
giorno, navigando a vista, il Governo dispensa piani e annuncia
soluzioni. Prima Lampedusa, poi lo svuotamento dei CARA, poi Mineo, poi
il piano di accolgienza per i profughi, poi invece Manduria, Trapani,
Caltanissetta, Caserta, Pisa, oggi forse Torino, Padova, Brescia,
Vipiteno. Il risultato, è un impensabile (fino a pochi mesi fa)
stravolgimento quotidiano della dimensione "ordinaria" del confinamento.
La detenzione, la carcerazione, sono un modo di far politica, una
vocazione, ma non sempre la realtà ne è conseguente. Anzi. Da Manduria
si fugge eccome. Il Ministero ha pure organizzato un ufficio all’interno
della tendopoli dove (cosa che non avviene neppure quando sarebbe
doveroso) vengono invitati i migranti a proporre domanda d’asilo. In
questo modo possono essere lasciati "liberi" di uscire dal centro e di
prendere quel treno che li accompagnerà verso Ventimiglia e ovviamente,
di incappare in un nuovo controllo, di essere accusati del reato di
clandestinità, di sbattere conto il muro della Francia.
I CIE, il trattenimento, hanno sempre nascosto la variabile della
"semi-libertà". Neppure negli anni indietro i CIE sono stati spazi di
detenzione statica, la detenzione è sempre stato un momento non
definitivo dei percorsi migratori, così come i confini dell’Europa
Fortezza hanno sempre nascosto la loro natura mobile e permeabile. I
muscoli mostrati si sono spesso rivelati un simbolo più che una realtà.
Le espulsioni annunciate sono rimaste parole scritte nelle veline del
Viminale (e non ci dispiace) impegnato invece a dare olio alla catena di
montaggio della fabbrica di clandestinità che è il sistema di governo
delle migrazioni di casa nostra e dell’Europa intera. Non senza
violenza, non senza morte, disperazione e sofferenza. Ma proprio la sua
natura, la macchina della cittadinanza gerarchica costruita intorno al
tema della detenzione e del controllo, è entrata in profonda crisi,
perché portata a pieni giri, spinta fino al dover negare gli stessi
istituti principali della legge che regola i tempi e gli spazi dei suoi
ingranaggi.
Ventimila persone sbarcate sono state prima trattenute nell’isola
prigione per riaffermare che la detenzione e l’espulsione sono l’unico
modo di gestire la vulnerabilità del confine, poi "liberate" ad un
destino di irregolarità e ricatti. Spinte verso la confinante Francia
che a sua volta risponde all’Italia con lo stesso linguaggio con cui dai
porti dell’Adriatico la Polizia di casa nostra respinge i migranti
verso la Grecia. Nel mezzo, paure ed allarmi per l’invasione, per il
pericolo criminale nelle nostre città che nessuno in realtà ricerca come
meta.
Diciamocelo. Sarebbe molto più facile (non più reale),
raccontare una grande carcerazione di massa nelle "galere etniche". Ma
la realtà è ben diversa.
Davanti agli occhi abbiamo una mappa di tendopoli/CIE da cui centinaia
di migranti fuggono senza particolari problemi. A Manduria, oltre
all’ufficio per le domande d’asilo, la Polizia ha costruito un cordone
intorno al centro per allontanare l’occhio indiscreto delle telecamere
che per giorni hanno documentato le continue fughe, più che per fermare
le evasioni. A Ventimiglia, dall’altra parte di questo spazio di
transito che sembra essere diventato l’Italia, dal centro di emergenza
che raccoglie i migranti in attesa, vengono organizzati i bus navetta
fino all’ora dell’ultimo treno che parte per la Francia.
Tutto lo stivale assomiglia ad un grande spazio di confinamento, la porta di accesso all’Europa, il luogo in cui l’Europa imprime il suo indelebile marchio sulle biografie dei migranti che attraversdano il suo mare, ed insieme la gabbia in cui sono costretti, nell’attesa di poter andare, nel dubbio di dover restare. Dobbiamo starci. Percorrere questa mappa del confinamento insieme a loro, perché anche questa è la precarietà in cui viviamo, noi come loro. Il rischio, che Maroni trasforma in allarme, è che questo lembo di terra di 1.300 Km che si allarga nel Mar Mediterraneo si trasformi a sua volta in una grande enclave. In cui è difficile arrivare ma da cui è altrettanto difficile uscire.
E’ il nostro modo di rispondere ai bombardamenti in
Libia e di raccolgiere la sfida lanciata dalle migliaia di giovani in
rivolta sull’altra sponda del mediterraneo.
ma anche il modo di evitare, per noi e per loro, che in questo pezzo di
mondo in cui viviamo, la crisi del Maghreb serva per restringere invece
che allargare i diritti di tutti noi, per spaventare ancora le nostre
città ed imbruttire le periferie.
Da Lampedusa a Ventimiglia, passando per Manduria, Trapani, Santa Maria
Capua Vetere, Coltano, e se sarà necessario Padova, Brescia, Torino,
Vipiteno, la mappa disegnata dal Viminale si sta costellando anche di
altri punti, in movimento, contro il confinamento e per il diritto di
scelta. Uniamoli. Per continuare la campagna iniziata con la staffetta
di Welcome a Lampedusa, per ridisegnare dal basso le geometrie della
libertà, per tutti.
Fin da sabato 2 aprile. Giornata di mobilitazione nazionale contro i
bombardamenti e per la libertà dei migranti. A Lampedusa, a Manduria, a
Pisa, a Roma, a Bologna, a Gradisca d’Isonzo, a Vicenza, ad Ancona, a
Rimini, a Trento, a Ventimiglia: Stop ai bombardamenti. Libertà per i
migranti in Europa