Politiche del Comune

5 / 11 / 2009

Oggi, per reimmaginarsi la società, serve una gestione alternativa del bene comune che tutti noi condividiamo. E’ una questione fondamentale. In questo saggio, intendo esplorare due accezioni del comune distinte ma in relazione tra di loro. Da un lato, si dicono comune la terra e tutto il suo ecosistema – atmosfera inclusa – gli oceani e i fiumi, le foreste e anche tutte le forme di vita che vi interagiscono. Allo stesso tempo, anche le produzioni umane sono comunque comune. Il lavoro e la creatività, le idee, i saperi, le immagini, i codici, gli affetti, le relazioni sociali, e così via, sono bene comune. Questi, sosterrò nel saggio, stanno diventando sempre di più centrali nella produzione capitalistica – e la qualcosa ha una serie di rilevanti conseguenze  nei tentativi di mantenere o riformare il sistema capitalistico e, contemporaneamente, nei progetti di resistenza o rovesciamento del capitalismo. In una prima approssimazione, questi due ambiti del comune potrebbero essere chiamati il comune ecologico e il comune sociale ed economico. Ovvero, il comune naturale e quello artificiale, per quanto queste categorie si rivelino da subito inefficaci.

In questo saggio, mi soffermerò dunque nella relazione tra queste due sfere o aspetti del comune, in particolare assumendo come punto di osservazione la resistenza e l’attivismo. In molte questioni, ma non in tutte, questi due aspetti del comune sono attraversati dalla stessa logica. Entrambi, ad esempio, sfidano e sono deteriorati dalle relazioni di proprietà. Inoltre, probabilmente quale effetto corollario di quanto sopra, il comune nelle sue due accezioni sconvolge le tradizionali misure del valore economico e impone al loro posto il valore della vita quale sola scala di valutazione valida. E’ indubbio che le divisioni tra l’ecologico e il sociale si offuscano in questo punto di vista biopolitico.

In ogni caso, ci sono almeno due aspetti essenziali in cui i due ambiti del comune sembrano essere mossi da logiche antitetiche. Innanzitutto, se molto del comune ecologico è caratterizzato dalla propensione alla conservazione – si mettono in luce i limiti della terra e delle forme di vita che interagiscono con essa - sul fronte invece del sociale o delle forme artificiali del comune l’ambito di discussione generalmente è incentrato sulla creazione e sulla natura aperta e illimitata della produzione del comune. Secondariamente, il sociale pone, in generale, come centrali gli interessi dell’umanità mentre l’ambientale genera una sfera di interessi ben più ampia dell’umano o dell’animale. Il mio sospetto è che queste opposizioni apparenti si riveleranno, grazie all’approfondimento, potenziali complementarietà piuttosto che relazioni contradditore tra accezioni del comune e, allo stesso tempo, tra le forme di azione politica richieste da ciascun ambito specifico. Ciò che mi auguro di evidenziare, nello svolgimento della trattazione, è il bisogno di dialogo sui due ambiti del comune, sulle loro qualità e sulle relazioni potenziali tra di loro.

La mia discussione qui sarà relativamente teoretica e non offrirò alcuna specifica proposta politica. In realtà però, dovrebbe apparire piuttosto chiaramente che le questioni in gioco hanno risvolti immediatamente pratici nel pensiero e nell’azione politica. Nel caso ci fosse bisogno di un sostegno concreto in una discussione così astratta, basti pensare all’organizzazione e alla preparazione delle azioni parallele (e di contrasto) alla Conferenza sul clima delle Nazioni Unite che si terrà a Copenhagen il prossimo dicembre (si veda, ad esempio, il sito web www.climateaction09.org). Queste azioni probabilmente implicheranno una confluenza – di conflitti e sfide ovviamente – tra attivisti ambientalisti e di movimenti anticapitalistici e, anche, di altri movimenti sociali. Si tratta di realtà che per tradizione hanno seguito strade separate e talvolta persino divergenti. Il successo della mobilitazione dipenderà quindi nella capacità di comprendere e negoziare le differenze e le potenzialità degli ambiti del comune che, di fatto, sono gli oggetti primari di ognuno di questi movimenti. Questa mobilitazione non esaurisce però in alcun modo la discussione teoretica intrapresa in questo saggio ma, piuttosto, ne risalta la sua importanza pratica.

Per dare avvio alla discussione teoretica bisogna dunque stabilire la centralità del comune. La riflessione sulla centralità del comune è molto più avanzata e vasta nel pensiero ecologista. In termini generali, non solo noi beneficiamo dell’interazione con la terra, il sole e gli oceani ma il loro deperimento ha anche effetti su di noi. L’inquinamento di aria e acqua non sono confinati nel luogo specifico della loro produzione, ovviamente, e non si limitano a confini nazionali. E, allo stesso modo, il cambiamento climatico ha effetti sull’intero pianeta. Non è come dire che questi cambiamenti hanno gli stessi effetti su tutti: il rialzo degli oceani, ad esempio, avrà un impatto più immediato su chi vive in Bangladesh che su chi vive in Bolivia. Il comune tuttavia è il fondamento che sta alla base del pensiero ecologista e contro cui si levano le peculiarità specifiche di ogni luogo.

Nel pensiero sociale ed economico, invece, la centralità del comune non è riconosciuta estensivamente. L’affermazione della sua centralità si fonda sull’ipotesi che siamo nel mezzo di un passaggio epocale da un capitalismo economico centrato sulla produzione industriale ad uno centrato su ciò che possiamo chiamare produzione immateriale o biopolitica. Io e Toni Negri abbiamo argomentato quest’ipotesi in tre volumi – Impero, Moltitudine, Comune. Qui di seguito ne propongo una breve sintesi.

La prima parte dell’affermazione è semplice, nei due secoli passati l’economia capitalista si è incentrata sulla produzione industriale. Che, sia ben chiaro, non vuole dire che tutti i lavoratori durante questo periodo siano stati nelle fabbriche, cosa che infatti non corrisponde alla realtà. E’ tuttavia indubbio che gli impiegati nell’industria piuttosto che nei campi o a casa sono stati determinanti nella divisione geografica, razziale e di genere del lavoro. La produzione industriale è stata centrale poiché le qualità dell’industria – le sue forme di meccanizzazione, gli orari di lavoro, le relazioni salariali, i suoi regimi di disciplina del tempo e della precisione, e così via – sono state progressivamente imposte agli altri settori della produzione e della vita sociale nel loro insieme, creando così non solo un’economia industriale ma anche una società industriale.

Anche la seconda parte dell’affermazione non presenta controversie e cioè, la produzione industriale non ha più una posizione di centralità nell’economia capitalista. Non significa però che meno persone lavorino in fabbrica oggi ma che l’industria non definisce più la posizione gerarchica nelle varie divisioni del lavoro e, più significativamente, significa che le qualità dell’industria non sono più imposte a altri settori e alla società.

L’ultimo elemento dell’ipotesi è più complesso e richiede quindi un’argomentazione più estesa e approfondita. In breve, al posto dell’industria oggi sta emergendo come centrale la produzione di beni immateriali o beni con una significativa componente immateriale, come le idee, i saperi, le lingue, le immagini, i codici e gli affetti. Occupazioni coinvolte nella produzione immateriale attraversano l’economia dall’alto al basso, dagli operatori sociosanitari agli educatori ai dipendenti dei fast food, dei call center, alle hostess. Di nuovo, questa non è un’affermazione quantitativa ma qualitativa, ossia sulle qualità che progressivamente sono imposte sui settori dell’economia e della società nel suo insieme. In altre parole, gli strumenti cognitivi e affettivi della produzione immateriale (che tendono a distruggere le strutture del giorno lavorativo e offuscare la tradizionale divisione tra tempo lavorativo e non lavorativo), insieme ad altre sue qualità, si stanno generalizzando.

Questa forma di produzione dovrebbe essere intesa come biopolitica dato che le relazioni sociali e le forme di vita sono alla fine l’oggetto della produzione stessa. In questo contesto, le divisioni economiche tradizionali tra produzione e riproduzione tendono a svanire. Le forme di vita sono prodotte e riprodotte simultaneamente. Qui si inizia a vedere la prossimità tra la nozione di produzione biopolitica e pensiero ecologico poiché entrambi si incentrano sulla produzione/riproduzione di forme di vita, con l’importante differenza che la prospettiva ecologica estende la nozione di forme di vita molto oltre i limiti dell’umano e dell’animale (su questo tornerò successivamente).

L’ipotesi che la produzione immateriale o biopolitica stia emergendo come dominante può anche essere affrontata nei termini di cambiamenti storici nella gerarchia delle forme di proprietà. Prima che l’industria occupasse la posizione centrale nell’economia, fino all’inizio del diciannovesimo secolo, la proprietà immobile, come la terra, aveva una posizione dominante rispetto alle altre forme di proprietà. Nel lungo periodo della centralità dell’industria tuttavia la proprietà mobile, come le merci, finirono per prevalere sulla proprietà immobiliare. Certo, brevetti, diritti d’autore, e altri metodi per regolare e mantenere il controllo esclusivo della proprietà immateriale, sono soggetti di vivacissimi dibattiti nell’ambito del diritto di proprietà. La crescente importanza della proprietà immateriale può funzionare come prova, o quanto meno indice, della centralità emergente della produzione immateriale.

Mentre nel precedente periodo di transizione, il concorso tra forme dominanti di proprietà si giocò sulla questione della mobilità (terra immobile contro merci mobili), oggi la competizione si incentra su esclusività e riproducibilità. La proprietà privata nella forma di barre d’acciaio, automobili e televisioni obbedisce alla logica della scarsità: se tu li usi, io non posso. La proprietà immateriale come idee, lingue, saperi, codici, musica e affetti, di contro, può essere riprodotta in modo illimitato. Infatti, molti di questi prodotti immateriali funzionano solamente nel pieno delle loro potenzialità quando sono apertamente condivisi. L’utilità individuale di un’idea o di un affetto non è ridotta dalla sua condivisione. Al contrario, diventano utili solo nell’essere messi in comune.

Questo è il significato di quanto affermato in principio che il comune sta diventando centrale nell’economia capitalista contemporanea. Innanzitutto, la forma di produzione emergente nella posizione dominante deriva generalmente da beni immateriali o biopolitici che tendono a essere comuni. La loro natura è sociale e riproducibile dato che è sempre più difficile mantenere un controllo esclusivo su di essi. In secondo luogo, probabilmente il più importante, la produttività di tali beni nello sviluppo economico futuro dipende dal loro essere comune. La privatizzazione di idee e saperi impedisce la produzione di nuove idee e saperi, così come linguaggi privati e affetti privati sono sterili e inutili. Se la nostra ipotesi è corretta, allora il capitale paradossalmente fa sempre di più affidamento sul comune.

Questo porta alla prima, logica, caratteristica condivisa dal comune in entrambe le sue accezioni, ecologico e sociale. Entrambi sfidano e sono deteriorati dalle relazioni di proprietà. Nell’ambito sociale ed economico, non solo è difficile mantenere con il controllo diritti esclusivi sulla produttività immateriale e, come già detto, privatizzare i beni biopolitici ne diminuisce la loro produttività futura. Qui emerge una potente contraddizione nel cuore della produzione capitalistica tra il bisogno del comune nell’interesse della produttività e il bisogno di privato nell’interesse dell’accumulazione capitalistica. Questa contraddizione può essere letta come una nuova versione dell’opposizione classica, spesso citata nel pensiero marxista e comunista, tra la socializzazione della produzione e la natura privata dell’accumulazione. Le lotte contro la cosiddetta bio-pirateria in Brasile e altrove sono un teatro contemporaneo di questo scontro. Saperi indigeni e proprietà medicinali di certe piante amazzoniche, ad esempio, sono brevettate da multinazionali internazionali e diventano proprietà privata, e i risultati di questo non sono solo ingiusti ma anche distruttivi. (Precisiamo però che sono contrario alla definizione pirateria. I pirati almeno avevano la dignità di rubare proprietà mentre queste multinazionali rubano il comune e lo trasformano in proprietà privata).

Nell’argomentazione ecologista del comune, è parimenti chiaro come il comune sfidi e sia deteriorato dalle relazioni proprietarie. In primis, sfida la proprietà semplicemente perchè gli effetti di beneficio e detrimento dell’ambiente eccedono sempre i limiti della proprietà come lo fanno con i confini nazionali. Significa cioè che come la tua terra condivide con la terra del vicino i benefici di sole e pioggia, allo stesso modo condivide anche gli effetti distruttivi di inquinamento e cambiamento climatico. Le strategie del neoliberalismo hanno chiaramente puntato alla privatizzazione del pubblico - trasporti, servizi, industrie e, insieme, alla privatizzazione del comune (ad esempio, petrolio in Uganda, diamanti nella Sierra Leone, litio in Bolivia e addirittura le informazioni genetiche della popolazione dell’Islanda). Il deterioramento del comune da parte della proprietà privata suggerisce ancora una volta una relazione contraddittoria, la natura privata dell’accumulazione (attraverso i profitti di un’industria inquinante, ad esempio) confligge con la natura sociale dei danni che ne risultano. Mettendo le due formulae insieme si può vedere la contraddizione con il comune in tutti i due fronti, per così dire, della proprietà privata: la natura sempre più comune della produzione entra in conflitto con il comune, con la natura sociale degli effetti del suo detrimento.

Numerose e potenti battaglie sono nate nelle ultime decadi per combattere la privatizzazione neoliberista del comune. Una battaglia di successo che illustra parte della mia argomentazione è quella dell’acqua in Cochabamba, Bolivia anno 2000. Questa, insieme alla guerra sul gas che ebbe il suo picco nel 2003 a El Alto, ha contribuito nel 2005 all’elezione di Evo Morales. La situazione all’epoca precipitò per un classico accordo neoliberista. Il Fondo monetario internazionale fece pressione sul governo boliviano perché privatizzasse il sistema dell’acqua. Il principio era che rispetto al costo di trasporto dell’acqua pulita era più conveniente che i destinatari se la pagassero. Il governo vendette dunque il sistema idrico a un consorzio di multinazionali straniere, che subito «razionalizzarono» il prezzo dell’acqua, aumentandolo significativamente. Le successive proteste per la de-privatizzazione dell’acqua si intersecarono con una serie di altri tentativi di mantenere il controllo sul comune, ossia sulle risorse naturali, sulle forme di vita delle comunità indigene e sulle pratiche sociali dei contadini e dei poveri. Oggi, i disastri delle privatizzazioni neoliberiste sono sotto l’occhio di tutti e dunque il tentativo di scoprire metodi alternativi di gestione e promozione del comune è sempre più essenziale e urgente.

Un’altra logica caratteristica condivisa dal comune nelle sue due accezioni, più astratta ma non per questo meno significativa, è che il comune rompe ed eccede le misure dominanti del valore. Gli economisti contemporanei fanno i salti mortali per misurare il valore dei prodotti biopolitici come le idee e gli affetti. Spesso li categorizzano come «esternalità» che sfuggono agli schematismi standard di misurazione. I commercialisti combattono allo stesso modo con i cosiddetti «beni intangibili», il cui valore appare quasi esoterico. Infatti, il valore di un’idea, di una relazione sociale, o di una forma di vita, eccede il valore che la razionalità capitalista può imprimere loro, non perché la quantità sia sempre maggiore ma piuttosto perché non è incasellabile nel sistema stesso di misurazione. (La finanzia, ovviamente, gioca un ruolo centrale nella valutazione dei beni e della produzione biopolitici e l’attuale crisi economico-finanziaria deriva in gran parte, a mio avviso, dall’instabilità della misurazione capitalista nell’afferrare le nuove forme dominanti di produzione. Si tratta di una discussione complessa che purtroppo devo rimandare a un’altra occasione). Uno dei personaggi principali del dickensiano Tempi difficili è il proprietario della fabbrica, Thomas Gradgrind. Lui è convinto che può razionalizzare la vita sottomettendone tutte le sfaccettature alla misurazione economica, «affari di cuore» (come la sua relazione con i bambini) compresi. Il lettore però rapidamente intuisce che Gradgrind imparerà presto che la vita eccede i limiti di qualsiasi misurazione. Oggi persino il valore dei beni economici e dell’attività, visto che il comune è sempre più centrale alla produzione capitalistica, eccedono e sfuggono alle misurazioni tradizionali.

Nell’accezione ecologica anche il valore del comune è incommensurabile o, quantomeno, non obbedisce alle misurazioni capitalistiche tradizionali del valore economico. Ciò non vuol dire che qualsiasi misurazione scientifica, come le proporzioni di diossina di carbonio o di gas metano nell’atmosfera, non sia essenziale o centrale. E’ ovvio che lo sia. La mia argomentazione piuttosto vuol significare che il valore del comune sfida la misurazione stessa. Prendiamo, come contro esempio, le posizioni - iper-pubblicizzate - di Bjørn Lomborg contro la lotta al surriscaldamento globale. Come nel caso di Gradgrind, la strategia di Lomborg è la razionalizzazione della questione attraverso il calcolo dei valori coinvolti per definire le priorità. Distruzione stimata e costo per prevenirla renderebbero inutile il tentativo per Lomborg. Ossia, - asserisce Lomborg con una logica impeccabile - il valore stimato della distruzione quale conseguenza del surriscaldamento globale non vale i costi della lotta per arginare il fenomeno. Il problema tuttavia è che non si può misurare il valore delle forme di vita che sono distrutte. Quanti dollari dovremmo assegnare al fatto che mezzo Bangladesh rischia di sprofondare sott’acqua? O alla siccità permanente dell’Etiopia? O ancora alla devastazione della quotidianità di vita degli Inuit? La sola proposizione di queste domande risveglia la nausea e l’indignazione che si provano nel leggere le schede delle compagnie assicurative che calcolano l’ammontare dei rimborsi per un dito perso o il valore di un occhio o un braccio.

L’incapacità di afferrare il valore del comune nell’ambito delle tradizionali misurazioni capitalistiche offre mezzi dà l’opportunità di vagliare proposte quali quella sul commercio del carbone del protocollo di Kyoto e del ddl Waxman-Markey attualmente in discussione negli States. Gli accordi sul commercio del carbone implicano generalmente limitazioni nella produzione di diossido di carbonio e di altri gas serra in modo da limitare il mercato e così le produzioni di questi gas possono assumere un determinato valore economico e quindi essere commercializzate. Questi schematismi non pretendono però di misurare direttamente il valore del comune, ma invece di farlo indirettamente, monetizzando la produzione di gas che danneggiano e corrompono il comune. Non intendo affermare che in alcuni casi queste schematizzazioni sul carbone non possano avere effetti positivi nel controllare le emissioni tossiche. (Un’opposizione o un sostegno strategico in quest’ambito di commercio devono essere affrontati e determinati in una discussione differente da questa e attraverso un’analisi della situazione precipua). Ci si dovrebbe tuttavia ricordare che assegnare valori determinati a beni incommensurabili e assumere che il mercato creerà razionalmente un sistema stabile e benefico in molte occasioni portato in realtà a disastri - ad esempio, l’attuale crisi finanziaria. Inoltre, va tenuto in considerazione che le modalità con cui certe logiche proprietarie e di mercato non diminuiranno ma probabilmente esacerberanno le gerarchie sociali che su scala globale sono contrassegnate da povertà e esclusione. In ogni caso, dovrebbe apparire chiaramente che le proposte che si fondano sulle misure capitalistiche del valore e sulla razionalità del mercato (presumibilmente la seconda accompagna la prima) non possono afferrare il valore del comune né tanto meno riescono a occuparsi del problema del cambiamento climatico al cuore del problema, o indirettamente. Le forme di vita non sono misurabili o, forse, obbediscono a una scala di valori radicalmente differente e che appunto si basa sul valore della vita, che non abbiamo ancora stabilito - almeno a me sembra (o che forse abbiamo perso).

Il mio punto di partenza, e concludo, primario è che come le differenti forme del comune si ribellano alle relazioni proprietarie, allo stesso tempo sconfiggono le misurazioni tradizionali della razionalità capitalistica. Questo due logiche condivise sono una base significativa, almeno per me, per capire entrambe le accezioni del comune e per lottare per preservarle e farle crescere. Condividere le qualità del comune sotto i due aspetti, analizzati finora, dovrebbe costituire le fondamenta per il collegamento di forme di attivismo politico che puntano all’autonomia e alla gestione democratica del comune.

Ravvedo però due aspetti importanti in cui le battaglie per il comune operano con logiche opposte a seconda dell’accezione del comune stesso. La prima ha a che fare con la scarsità e con i limiti. Il pensiero ecologista necessariamente si incentra sulla finitezza della terra e dei suoi sistemi. Il comune può supportare un certo numero di persone, ad esempio, e pur tuttavia può essere ancora riprodotto. La Terra, i suoi spazi ancora naturali, devono essere difesi dai danni dello sviluppo economico e da altre attività umane. Una politica del comune sotto il profilo economico e sociale, di contro, generalmente enfatizza il carattere illimitato della produzione. La produzione di forme di vita, idee, affetti (e così via) inclusi, non ha alcun limite prefissato. Ciò non significa, ovviamente, che più idee ci sono meglio è ma invece che non operano in una logica di limitatezza o scarsità. La proliferazione di idee non le degrada né la loro condivisione con gli altri. Si sviluppa quindi la tendenza, nella lettura ecologista del comune, a lanciare appelli per preservare e limitare. Al contrario, il socio-economico è caratterizzato dalla celebrazione dell’illimitatezza della potenzialità creativa.

In termini semplicistici, anche troppo semplicistici, si potrebbe dire che il pensiero ecologista è contro lo sviluppo ed è per porre paletti sulla strada dello sviluppo economico mentre gli attivisti dell’accezione economica e sociale del comune sono decisamente promotori dello sviluppo. Certo questa è una semplificazione estrema. Lo sviluppo nei due casi ha infatti significati profondamente diversi. I tipi di sviluppo della produzioni sociale del comune si differenziano sostanzialmente da quelli dello sviluppo industriale. Una volta che noi riconosciamo, come detto sopra, che nel contesto biopolitico le divisioni tradizionali tra produzione e riproduzione si infrangono, è più facile comprendere che gli appelli alla difesa e quelli alla creazione non sono davvero in contrapposizione, bensì sono complementari. Entrambe le prospettive si riferiscono alla produzione/riproduzione delle forme di vita.

Un secondo elemento di conflitto nelle battaglie per il comune ha a che fare con il fatto che gli interessi dell’umanità fungono da cornice di riferimento. Le lotte per il comune nell’accezione economico-sociale si basano generalmente sull’umanità e senz’ombra di dubbio uno dei compiti più importanti è estendere a tutta l’umanità la politica di superamento delle gerarchie, dell’esclusione di classe e proprietà, di genere e sessualità, razza e etnia, eccetera. Nelle battaglie per il comune nell’accezione ecologista invece la cornice di riferimento va al di là dell’umanità. Che è considerata nella sua interazione e cura delle altre forme di vita e dell’ecosistema, anche nelle situazioni in cui la priorità è assegnata agli interessi dell’umanità. E in molti contesti di radicalismo ecologista, gli interessi delle forme di vita non umane hanno lo stesso, o anche maggiore, peso di quelli dell’umanità.

Questa è una differenza, a mio avviso, sostanziale di prospettiva nel comune. In ogni caso, non è una differenza insuperabile o distruttiva. Ritengo che chi si occupa di ambiente sarebbe beneficiato da un confronto maggiore sulla natura delle gerarchie sociali e sui modi di contrastarle nell’attivismo e nella teoria. Allo stesso tempo, chi si occupa di battaglie sociali trarrebbe vantaggio nell’approfondire la questione dei limiti della terra e delle forme di vita visto che interagiscono con l’umanità e hanno un’esistenza.

Spero, nel corso di questo saggio, di aver articolato il concetto che il comune serve a definire alcune delle questioni fondamentali che oggi la politica si trova a affrontare nell’ambito di due sfere del comune. (Lascio a altre occasioni lo studio della natura del comune sotto altre accezioni quale l’identità o le istituzioni sociali come famiglia e nazione). Oggi, lottare per il comune e inventare nuove modalità di gestione è fondamentale in qualsiasi progetto di reimmaginazione della società. Le divergenze tra lotte, orientate su aspetti differenti del comune, hanno bisogno di essere articolate e negoziate ma queste diversità sono salutari per me e assumerle non può che farci andare avanti e crescere. Per questo, ho deciso di seguire le discussioni preparatorie e gli sforzi organizzativi delle azioni che si svolgeranno in occasione della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite di cui ho accennato più sopra. Si tratta di mobilitazioni che metteranno insieme ambientalisti, movimenti anticapitalisti e altri movimenti sociali. Discussioni e confronti su queste tematiche sono spesso produttive e portano, attraverso forme pratiche e teoriche di ricerca collettiva tra attivisti dei movimenti, generalmente a una crescita. Non vedo l’ora di vederne gli sviluppi.

*Un grazie a Harry Halpin per i suoi appunti e commenti sulla bozza di questo saggio.

(ottobre 2009 – traduzione a cura di Gloria Bertasi)